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04
dicembre 2009
fino al 10.I.2010 Federico Barocci Siena, Santa Maria della Scala
toscana
Scavo sentimentale e psicologico, accordo tra forma e movimento, coinvolgimento affettivo dello spettatore. Siena rilancia l’urbinate Barocci, artista capace di elevarsi dal qualunquismo manierista. Per anticipare il Barocco...
Una pietanza prelibatissima, servita però su un vassoio un
po’ ammaccato. Comunque cibo prezioso, “esotico”, se ci si passa l’accezione
per insolito, raro. Sì, perché la storiografia pare essersi pressoché
dimenticata di questo artista, che invece merita studi e approfondimenti che
gli rendano il posto che gli spetta, centrale negli sviluppi del Rinascimento
maturo centritaliano.
Il suo peccato originale? Essere fuggito dalle brighe
romane e pontificie dopo solo due anni – dal 1561 al 1563 – per tornare al suo isolamento
esistenziale nella natia Urbino. E proprio Urbino “ha perso ancora una volta
un’occasione” per
celebrare e valorizzare questo illustre figlio, come hanno voluto sottolineare
i curatori di questa mostra Alessandra Giannotti e Claudio Pizzorusso. Perché,
a più di trent’anni dall’ultima monografica (Bologna, 1975), è ora Siena a dedicare
una grande mostra a Federico Barocci (Urbino, 1535-1612), nell’affascinante location del Complesso
Museale di Santa Maria della Scala.
E qui approfittiamo subito per chiarire le “ammaccature
del vassoio”, ovvero alcune scelte allestitive che certo non pregiudicano il
valore dell’esposizione, ma che non possono non lasciare qualche perplessità.
Ha senso presentare dipinti di grandi dimensioni – pensiamo al Lamento su
Cristo morto della
Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, 410×288 centimetri – lungo un
corridoio che non concede all’osservatore più di due metri di respiro?
Detto questo, entriamo in mostra, e ci dimentichiamo
tutto. Perché la prima opera che ci si presenta innanzi è probabilmente il
capolavoro del Barocci, la Deposizione dalla Croce (1567-69) proveniente dalla Cattedrale
di San Lorenzo di Perugia. Una summa della sensibilità e della grande apertura
della sua arte, di una nuova concezione dello spazio, dell’innovativo scavo
sentimentale, psicologico, comunicativo nei personaggi che affollano la
composizione, che ne faranno un punto di riferimento imprescindibile per molti
artisti del Seicento.
Formatosi nell’ambito della tradizione raffaellesca ancora
forte a Roma, Barocci si inserisce nel contesto storico della Riforma cattolica,
potendo contare su rapporti privilegiati con personalità religiose di spicco,
da Filippo Neri a Carlo e Federico Borromeo.
Eppure l’innovativa sensibilità alla “poetica degli
affetti” gli fornisce mezzi espressivi – come ha scritto Andrea Emiliani, forse
il maggior studioso dell’artista, curatore della mostra bolognese del ’75 – ben
lontani “dall’involuta ipocrisia intellettuale dell’ecumene manieristica”, facendone piuttosto un grande
anticipatore delle temperie barocche.
E la deposizione perugina diventa un manifesto in tal
senso: “Giungere a un perfetto accordo tra forma e movimento”, scrive in catalogo Francesco
Federico Mancini riferendosi all’opera, “fissare sulla tela i moti dell’animo,
è quanto di grande e inusitato riesce a fare il maestro urbinate, in anticipo
di quasi un secolo rispetto al mistico rapimento di Santa Teresa d’Avila o all’estatica
folgorazione della beata Ludovica Albertoni”.
E le conferme di tanta lungimiranza non mancano, fra le 134
opere che presentano in tutte le sfaccettature l’arte baroccesca, affiancandola
virtuosamente a lavori di Rubens, Van Dyck, dei Carracci, Guido Reni, fino a Rosalba Carriera e Fragonard, un periodo che significativamente
va dal Cinquecento al Settecento. Dalla Sepoltura di Cristo, proveniente dalla Chiesa della
Croce di Senigallia, con l’articolata composizione che sostituisce il classico
schema centralizzato, alla Madonna del popolo, oggi agli Uffizi, paradigma di
una visione religiosa nuova, tutta tesa al coinvolgimento affettivo dello
spettatore.
po’ ammaccato. Comunque cibo prezioso, “esotico”, se ci si passa l’accezione
per insolito, raro. Sì, perché la storiografia pare essersi pressoché
dimenticata di questo artista, che invece merita studi e approfondimenti che
gli rendano il posto che gli spetta, centrale negli sviluppi del Rinascimento
maturo centritaliano.
Il suo peccato originale? Essere fuggito dalle brighe
romane e pontificie dopo solo due anni – dal 1561 al 1563 – per tornare al suo isolamento
esistenziale nella natia Urbino. E proprio Urbino “ha perso ancora una volta
un’occasione” per
celebrare e valorizzare questo illustre figlio, come hanno voluto sottolineare
i curatori di questa mostra Alessandra Giannotti e Claudio Pizzorusso. Perché,
a più di trent’anni dall’ultima monografica (Bologna, 1975), è ora Siena a dedicare
una grande mostra a Federico Barocci (Urbino, 1535-1612), nell’affascinante location del Complesso
Museale di Santa Maria della Scala.
E qui approfittiamo subito per chiarire le “ammaccature
del vassoio”, ovvero alcune scelte allestitive che certo non pregiudicano il
valore dell’esposizione, ma che non possono non lasciare qualche perplessità.
Ha senso presentare dipinti di grandi dimensioni – pensiamo al Lamento su
Cristo morto della
Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, 410×288 centimetri – lungo un
corridoio che non concede all’osservatore più di due metri di respiro?
Detto questo, entriamo in mostra, e ci dimentichiamo
tutto. Perché la prima opera che ci si presenta innanzi è probabilmente il
capolavoro del Barocci, la Deposizione dalla Croce (1567-69) proveniente dalla Cattedrale
di San Lorenzo di Perugia. Una summa della sensibilità e della grande apertura
della sua arte, di una nuova concezione dello spazio, dell’innovativo scavo
sentimentale, psicologico, comunicativo nei personaggi che affollano la
composizione, che ne faranno un punto di riferimento imprescindibile per molti
artisti del Seicento.
Formatosi nell’ambito della tradizione raffaellesca ancora
forte a Roma, Barocci si inserisce nel contesto storico della Riforma cattolica,
potendo contare su rapporti privilegiati con personalità religiose di spicco,
da Filippo Neri a Carlo e Federico Borromeo.
Eppure l’innovativa sensibilità alla “poetica degli
affetti” gli fornisce mezzi espressivi – come ha scritto Andrea Emiliani, forse
il maggior studioso dell’artista, curatore della mostra bolognese del ’75 – ben
lontani “dall’involuta ipocrisia intellettuale dell’ecumene manieristica”, facendone piuttosto un grande
anticipatore delle temperie barocche.
E la deposizione perugina diventa un manifesto in tal
senso: “Giungere a un perfetto accordo tra forma e movimento”, scrive in catalogo Francesco
Federico Mancini riferendosi all’opera, “fissare sulla tela i moti dell’animo,
è quanto di grande e inusitato riesce a fare il maestro urbinate, in anticipo
di quasi un secolo rispetto al mistico rapimento di Santa Teresa d’Avila o all’estatica
folgorazione della beata Ludovica Albertoni”.
E le conferme di tanta lungimiranza non mancano, fra le 134
opere che presentano in tutte le sfaccettature l’arte baroccesca, affiancandola
virtuosamente a lavori di Rubens, Van Dyck, dei Carracci, Guido Reni, fino a Rosalba Carriera e Fragonard, un periodo che significativamente
va dal Cinquecento al Settecento. Dalla Sepoltura di Cristo, proveniente dalla Chiesa della
Croce di Senigallia, con l’articolata composizione che sostituisce il classico
schema centralizzato, alla Madonna del popolo, oggi agli Uffizi, paradigma di
una visione religiosa nuova, tutta tesa al coinvolgimento affettivo dello
spettatore.
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Federico
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a cura di Alessandra Giannotti e Claudio Pizzorusso
Complesso Museale Santa Maria della Scala –
Palazzo Squarcialupi
Piazza del Duomo, 1 – 53100 Siena
Orario: tutti
i giorni ore 10.30-19.30
Catalogo Silvana Editoriale
Info: tel. +39 0577224811; fax +39
0577224829; infoscala@sms.comune.siena.it;
www.santamariadellascala.com
[exibart]