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14
dicembre 2009
libri_saggi Imaginary economics (johan & levi 2009)
Libri ed editoria
Un nuovo volume per la collana Arte/Economia diretta da Pier Luigi Sacco. Con un saggio di un giovane studioso che ha già pubblicato per la casa editrice della Princeton University. Ma che promette più di quanto riesca a mantenere...
Nel 2005 Olav Velthuis pubblicava, per la Princeton
University Press, Talking Prices. Symbolic Meanings of
Prices on the Market for Contemporary Art. Nello stesso anno, per i tipi del Nai di Amsterdam,
usciva Imaginary economics, ora proposto da Johan & Levi come seconda uscita
della collana Arte/Economia diretta da Pier Luigi Sacco.
Che gli artisti si siano sovente interessati al rapporto
fra arte ed economia non è una novità persino in Italia, dove lo stesso Sacco –
insieme a Marco Senaldi – ha per esempio curato la mostra Interessi zero! alla Civica di Trento, proprio
nel 2005. Dunque, la proposta di ribaltare le posizioni e considerare “l’arte
contemporanea come fonte di conoscenze sull’economia” non è inedita, ma senz’altro
avrebbe potuto sollevare spunti di riflessione.
Usiamo il condizionale perché Velthuis promette più di
quanto mantenga. Al di là della ridondanza degli esempi offerti – in molti casi
pleonastici – il bug teorico sta probabilmente nella premessa, ossia che l’imaginary
economics
costituisca un’alternativa all’Economia con la E maiuscola. Il problema è che,
fatta salva la diffusione (quasi) globale del capitalismo, non risponde al vero
l’affermazione che la “dottrina economica scientifica” è un “monopolio dominato da
un’unica linea di pensiero”, quella neoliberale.
Ma cos’è l’economia immaginaria? Secondo Velthuis, assume
tre forme: negli anni ’70 è di natura critica e ipotizza che “la logica
qualitativa delle arti e la logica quantitativa dell’economia siano
incompatibili”;
negli anni ’80 è ratificante, ossia predica la compatibilità delle due logiche,
e, nella seconda metà dei ’90, giustifica quest’assunto sulla base della “culturalizzazione” dell’economia; infine, la terza
forma “elude la dicotomia critica/ratifica” con lo strumento del gioco.
Quali sono le valutazioni dell’autore? La prima variante,
quella oppositiva, si farebbe “troppo facilmente travolgere dal gorgo del
mondo dell’arte, che tutto neutralizza, e perde quindi la sua valenza critica”. La seconda, quella mimetica,
darebbe invece alla luce opere caratterizzate da “esaltazione”, “assenza di umorismo” e “incapacità di mettere le
cose in prospettiva”,
“decisa a sradicare qualunque tensione possa esistere fra arte ed economia
capitalistica”. Posizione
che deriva più da un a priori ideologico che da un ragionamento socio-economico. Nella
sua forma più recente, la ratificazione poggia, come s’è detto, sulla
culturalizzazione dell’economia. Quest’ultima ha cioè avvicinato l’arte,
essendo sempre più produzione di beni simbolici; si tratta dunque, almeno in
linea tendenziale, di una convergenza. Ma “l’economia ha davvero bisogno del
supporto degli artisti?”, si chiede scettico Velthuis. La risposta è sì, per essere tranchant (non possiamo che rimandare alla
ben più ragionata argomentazione di Sacco nella postfazione).
La variante ludica riscuote l’approvazione più decisa da
parte dell’autore, con artisti intenti a “imitare e parodiare i processi
economici, estrapolandoli dai loro contesti e rivelandone così l’assurdità”. Tuttavia, il maggior grado
d’interesse suscitato da tali proposte scaturisce forse dal fatto che operano
ai nostri stessi giorni e nel nostro stesso ambiente. Detto altrimenti, anche
nelle altre varianti venivano sollevate “domande fondamentali”, ma interrogavano contesti ora
in gran parte scomparsi.
È insomma un problema di prospettiva storica. Un problema
che affligge da sempre i sociologi, troppo spesso talmente distratti dalla
contemporaneità da farsi schiacciare dal grave della storia.
University Press, Talking Prices. Symbolic Meanings of
Prices on the Market for Contemporary Art. Nello stesso anno, per i tipi del Nai di Amsterdam,
usciva Imaginary economics, ora proposto da Johan & Levi come seconda uscita
della collana Arte/Economia diretta da Pier Luigi Sacco.
Che gli artisti si siano sovente interessati al rapporto
fra arte ed economia non è una novità persino in Italia, dove lo stesso Sacco –
insieme a Marco Senaldi – ha per esempio curato la mostra Interessi zero! alla Civica di Trento, proprio
nel 2005. Dunque, la proposta di ribaltare le posizioni e considerare “l’arte
contemporanea come fonte di conoscenze sull’economia” non è inedita, ma senz’altro
avrebbe potuto sollevare spunti di riflessione.
Usiamo il condizionale perché Velthuis promette più di
quanto mantenga. Al di là della ridondanza degli esempi offerti – in molti casi
pleonastici – il bug teorico sta probabilmente nella premessa, ossia che l’imaginary
economics
costituisca un’alternativa all’Economia con la E maiuscola. Il problema è che,
fatta salva la diffusione (quasi) globale del capitalismo, non risponde al vero
l’affermazione che la “dottrina economica scientifica” è un “monopolio dominato da
un’unica linea di pensiero”, quella neoliberale.
Ma cos’è l’economia immaginaria? Secondo Velthuis, assume
tre forme: negli anni ’70 è di natura critica e ipotizza che “la logica
qualitativa delle arti e la logica quantitativa dell’economia siano
incompatibili”;
negli anni ’80 è ratificante, ossia predica la compatibilità delle due logiche,
e, nella seconda metà dei ’90, giustifica quest’assunto sulla base della “culturalizzazione” dell’economia; infine, la terza
forma “elude la dicotomia critica/ratifica” con lo strumento del gioco.
Quali sono le valutazioni dell’autore? La prima variante,
quella oppositiva, si farebbe “troppo facilmente travolgere dal gorgo del
mondo dell’arte, che tutto neutralizza, e perde quindi la sua valenza critica”. La seconda, quella mimetica,
darebbe invece alla luce opere caratterizzate da “esaltazione”, “assenza di umorismo” e “incapacità di mettere le
cose in prospettiva”,
“decisa a sradicare qualunque tensione possa esistere fra arte ed economia
capitalistica”. Posizione
che deriva più da un a priori ideologico che da un ragionamento socio-economico. Nella
sua forma più recente, la ratificazione poggia, come s’è detto, sulla
culturalizzazione dell’economia. Quest’ultima ha cioè avvicinato l’arte,
essendo sempre più produzione di beni simbolici; si tratta dunque, almeno in
linea tendenziale, di una convergenza. Ma “l’economia ha davvero bisogno del
supporto degli artisti?”, si chiede scettico Velthuis. La risposta è sì, per essere tranchant (non possiamo che rimandare alla
ben più ragionata argomentazione di Sacco nella postfazione).
La variante ludica riscuote l’approvazione più decisa da
parte dell’autore, con artisti intenti a “imitare e parodiare i processi
economici, estrapolandoli dai loro contesti e rivelandone così l’assurdità”. Tuttavia, il maggior grado
d’interesse suscitato da tali proposte scaturisce forse dal fatto che operano
ai nostri stessi giorni e nel nostro stesso ambiente. Detto altrimenti, anche
nelle altre varianti venivano sollevate “domande fondamentali”, ma interrogavano contesti ora
in gran parte scomparsi.
È insomma un problema di prospettiva storica. Un problema
che affligge da sempre i sociologi, troppo spesso talmente distratti dalla
contemporaneità da farsi schiacciare dal grave della storia.
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Lo
sboom secondo Adriana Polveroni
marco
enrico giacomelli
*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 61. Te l’eri perso? Abbonati!
Olav
Velthuis – Imaginary economics
Johan & Levi, Milano 2009
Pagg. 144, €19
ISBN 9788860100481
Info: la scheda
dell’editore
[exibart]