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Gabriella Peyrot – Frammenti e rovine
In principio, per Gabriella Peyrot, non c’è il “verbo” ma la “visione” che si concreta attraverso il mezzo fotografico con il suo codice (inquadratura, composizione, rapporto luce-ombra), con il suo elegante bianco e nero. E quel poco colore che talvolta fa capolino è l’eccezione che conferma la regola di una sobrietà ed essenzialità poetica e caratteriale
Comunicato stampa
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In principio, per Gabriella Peyrot, non c’è il “verbo” ma la “visione” che si concreta attraverso il mezzo fotografico con il suo codice (inquadratura, composizione, rapporto luce-ombra), con il suo elegante bianco e nero. E quel poco colore che talvolta fa capolino è l’eccezione che conferma la regola di una sobrietà ed essenzialità poetica e caratteriale.
Ma quale poetica? La lunga pratica professionale
l’ha portata a scansare le trappole del pittoresco e le gradevolezze del “bello naturale”. Anzi in questa mostra si potrebbe parlare di poetica del degrado, della caduta, dello sfascio, della fine, dello sgretolamento, del rudere, della maceria, del provvisorio.
Una provvisorietà in attesa che la natura piegata, imbrigliata, asfaltata, cementificata, cancellata,
estromessa riprenda a poco a poco, o con violenta
tempestività, il suo dominio. Una rivincita evocata senza toni enfatici e quasi con una elegiaca, dolente compassione. A volte è la natura stessa che squassa in poche ore di pioggia e tempesta, le opere umane che l’hanno “messa in riga”. A volte è l’incuria, l’insipienza, la trascuratezza e il vandalismo umani che hanno spezzato l’ordine del costruito e poi “lasciato tutto lì” nel colpevole abbandono. In questo senso è anche una poetica della pazienza: l’uomo impaziente ha messo le basi per tanti
disastri sociali, economici e ambientali. La natura ha patito e ora attende, con la sua inesorabile calma, di ripristinare il
proprio ordine. Eppure queste foto
non fanno sociologia, non denunciano, non entrano in merito alle responsabilità di un certo stato di cose e di un dissennato uso del territorio, non perché l’autrice sia indifferente al giudizio sociopolitico, ma perché semplicemente
ed eticamente vuole limitarsi a puntare l’obiettivo e “raccontare”.
C’è in queste immagini un’analogia con la pittura
informale di un Fautrier o di un Burri: la ruvidità della materia sgretolata, lacerata, strappata e ricucita rozzamente, trattiene memoria di drammi e catastrofi passate, ma esprime anche nella sua caotica composizione, se non un progetto di rinascita, almeno una nuova diversa idea di bellezza, suggerendo così un
altro modo di guardare lo spazio, il tempo e la forma.
Lo spazio, il territorio su cui si appunta questa visione è la Sardegna (Carbonia, Armungia, la Gallura…) e il Piemonte (Torino, Pinerolo, la Val Pellice…). Sono solo due pretesti biografici: due luoghi conosciuti e amati nell’infanzia-adolescenza e rivisitati nella piena maturità. Ma in queste foto non c’è alcuna tipicità regionalistica o localistica. C’è al contrario un’unità e uniformità di rappresentazione e interpretazione del reale che diventa simbolo dell’insipienza universale e senza confini dell’homo faber.
È quindi un atteggiamento dialettico: da una parte
la consapevolezza della sconfitta radicale di ogni
progetto di costruzione e lo sgretolarsi inesorabile di ogni manufatto, dall’altra un’esile speranza che ciò che è crollato tornerà a nuova vita. La vegetazione che cresce tra le macerie, il cagnolino allattato, le giovenche che fanno capolino dal muraglione di cemento armato sono timidi annunci di un nuovo ordine in mezzo alla desolazione. Nella totale assenza della figura umana queste immagini sono un potente invito a ritrovare un significato del pensare e dell’agire, acuendo il senso del limite. Senza prosopopea ideologica, qui c’è tuttavia una flebile indicazione di una via di fuga dall’arroganza di una civiltà che si è illusa di
progredire riempiendo lo spazio di opere per lo
più inutili, se non dannose.
Lo sguardo sintetico e freddamente emotivo di
queste fotografie offre una serie attualizzata di
memento mori che suggerisce in bianco-nero quasi
un riassunto e una sottile interpretazione di tanta parte della storia umana, facendo toccare con mano (o meglio con l’occhio) l’attimo, il punto, la conclusione in cui le differenze e le antinomie (pieno-vuoto, cultura-natura, progresso-degrado, costruzione-demolizione, ordine-caos) si vanificano, procedendo inarrestabilmente verso una
reciproca dissoluzione.
Alla fine, certo, tutto sparirà, ma noi siamo qui:
abbiamo occhi per vedere e soprattutto per ricreare una visione interiore, anche con queste macerie.
Questo sembra dirci Gabriella Peyrot, con immagini che sono quasi lo specchio delle
parole tratte da La terra desolata di
T. S. Eliot: “Con questi frammenti
ho puntellato le mie rovine”.
Massimo Tosco
Ma quale poetica? La lunga pratica professionale
l’ha portata a scansare le trappole del pittoresco e le gradevolezze del “bello naturale”. Anzi in questa mostra si potrebbe parlare di poetica del degrado, della caduta, dello sfascio, della fine, dello sgretolamento, del rudere, della maceria, del provvisorio.
Una provvisorietà in attesa che la natura piegata, imbrigliata, asfaltata, cementificata, cancellata,
estromessa riprenda a poco a poco, o con violenta
tempestività, il suo dominio. Una rivincita evocata senza toni enfatici e quasi con una elegiaca, dolente compassione. A volte è la natura stessa che squassa in poche ore di pioggia e tempesta, le opere umane che l’hanno “messa in riga”. A volte è l’incuria, l’insipienza, la trascuratezza e il vandalismo umani che hanno spezzato l’ordine del costruito e poi “lasciato tutto lì” nel colpevole abbandono. In questo senso è anche una poetica della pazienza: l’uomo impaziente ha messo le basi per tanti
disastri sociali, economici e ambientali. La natura ha patito e ora attende, con la sua inesorabile calma, di ripristinare il
proprio ordine. Eppure queste foto
non fanno sociologia, non denunciano, non entrano in merito alle responsabilità di un certo stato di cose e di un dissennato uso del territorio, non perché l’autrice sia indifferente al giudizio sociopolitico, ma perché semplicemente
ed eticamente vuole limitarsi a puntare l’obiettivo e “raccontare”.
C’è in queste immagini un’analogia con la pittura
informale di un Fautrier o di un Burri: la ruvidità della materia sgretolata, lacerata, strappata e ricucita rozzamente, trattiene memoria di drammi e catastrofi passate, ma esprime anche nella sua caotica composizione, se non un progetto di rinascita, almeno una nuova diversa idea di bellezza, suggerendo così un
altro modo di guardare lo spazio, il tempo e la forma.
Lo spazio, il territorio su cui si appunta questa visione è la Sardegna (Carbonia, Armungia, la Gallura…) e il Piemonte (Torino, Pinerolo, la Val Pellice…). Sono solo due pretesti biografici: due luoghi conosciuti e amati nell’infanzia-adolescenza e rivisitati nella piena maturità. Ma in queste foto non c’è alcuna tipicità regionalistica o localistica. C’è al contrario un’unità e uniformità di rappresentazione e interpretazione del reale che diventa simbolo dell’insipienza universale e senza confini dell’homo faber.
È quindi un atteggiamento dialettico: da una parte
la consapevolezza della sconfitta radicale di ogni
progetto di costruzione e lo sgretolarsi inesorabile di ogni manufatto, dall’altra un’esile speranza che ciò che è crollato tornerà a nuova vita. La vegetazione che cresce tra le macerie, il cagnolino allattato, le giovenche che fanno capolino dal muraglione di cemento armato sono timidi annunci di un nuovo ordine in mezzo alla desolazione. Nella totale assenza della figura umana queste immagini sono un potente invito a ritrovare un significato del pensare e dell’agire, acuendo il senso del limite. Senza prosopopea ideologica, qui c’è tuttavia una flebile indicazione di una via di fuga dall’arroganza di una civiltà che si è illusa di
progredire riempiendo lo spazio di opere per lo
più inutili, se non dannose.
Lo sguardo sintetico e freddamente emotivo di
queste fotografie offre una serie attualizzata di
memento mori che suggerisce in bianco-nero quasi
un riassunto e una sottile interpretazione di tanta parte della storia umana, facendo toccare con mano (o meglio con l’occhio) l’attimo, il punto, la conclusione in cui le differenze e le antinomie (pieno-vuoto, cultura-natura, progresso-degrado, costruzione-demolizione, ordine-caos) si vanificano, procedendo inarrestabilmente verso una
reciproca dissoluzione.
Alla fine, certo, tutto sparirà, ma noi siamo qui:
abbiamo occhi per vedere e soprattutto per ricreare una visione interiore, anche con queste macerie.
Questo sembra dirci Gabriella Peyrot, con immagini che sono quasi lo specchio delle
parole tratte da La terra desolata di
T. S. Eliot: “Con questi frammenti
ho puntellato le mie rovine”.
Massimo Tosco
02
marzo 2013
Gabriella Peyrot – Frammenti e rovine
Dal 02 marzo al 06 aprile 2013
fotografia
Location
GALLERIA CIVICA FILIPPO SCROPPO
Torre Pellice, Via R. D'azeglio, 10, (Torino)
Torre Pellice, Via R. D'azeglio, 10, (Torino)
Orario di apertura
martedì, mercoledì, giovedì: 15,30 - 18,30; venerdì, sabato: 10,30 - 12,30 chiusura: domenica, lunedì
Vernissage
2 Marzo 2013, ore 17.30
Autore