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talent hunter Giovanni Oberti
parola d'artista
Classe 1982, studi all'Accademia di Bergamo, dopo l'esperienza come magazziniere nella sede di Sotheby's a Milano, da tre anni Oberti è assistente di Luca Vitone. Molti dei suoi lavori sono senza titolo: a differenziarli è una sorta di sottotitolo messo tra parentesi...
Il De Pictura di Leon Battista Alberti, che ho letto per la scuola ma
credo sia un testo fondamentale per chi fa questo lavoro, Naufragio con
spettatore di
Hans Blumenberg e Naufragi di Esperanza Guillén, Amate l’Architettura di Giò Ponti, Su Penone di Georges Didi-Huberman, La
pigrizia come verità effettiva dell’uomo di Kazimir Malevic… Leggo in prevalenza testi che
interessano il mio lavoro, temi che penso mi aiutino alla lettura del
contemporaneo. Nessun romanzo.
Che musica ascolti?
Radioclassica e Radio 3 mentre lavoro o scrivo, rap
(italiano) in cuffia il resto del tempo, a parte qualche festa techno o
drum’n’bass e quello che passa il convento nella macchina della mia ragazza.
Città che consiglieresti di
visitare e perché.
Dopo tre anni sono ormai molto affezionato a Milano, città
che consiglio a coloro che non l’hanno vista o vissuta. Non sono mai uscito
dall’Europa, ma ho visitato e trovato particolarmente accoglienti Bilbao,
Parigi, Anversa, il Lussemburgo, le città olandesi come Eindhoven e L’Aia,
oppure Copenaghen, Göteborg… Difficile descrivere il perché, porto con me
ricordi per ogni luogo che ho visitato. Vorrei vedere Istanbul, il Marocco e il
Senegal, tanti altri paesi ancora.
I luoghi che ti hanno
particolarmente affascinato?
Stavanger e Capo Nord in Norvegia (una volta ho visto le
fotografie scattate da mio padre quando aveva la mia età). Oppure l’isola di
Texel in Olanda e la Fish Church a Göteborg.
Quali sono le mostre che hai
visitato che hanno lasciato un segno?
Da ragazzino, una mostra sulle architetture di Santiago
Calatrava in Triennale a Milano, Bramante agli Uffizi, Joseph Beuys e i primi
lavori di Jeff Koons all’Hamburger Bahnhof di Berlino. Più di recente la
Fondazione Trussardi con Tino Sehgal a Milano e il Padiglione Ceco e Slovacco
della Biennale di Venezia, ma quella che ha lasciato più di tutte un segno è
stata la mostra antologica di Giulio Paolini alla Fondazione Prada a Milano nel
2003, mostra dopo la quale ricordo di aver discusso per giorni a scuola e a
casa del significato di fare arte.
Quali sono gli artisti del
passato per i quali nutri interesse?
Cornelius Norbertus Gijsbrecht, Gino De Dominicis, Vincenzo
Agnetti, Piero Manzoni, Fabio Mauri, Bertrand Lavier, Robert Filliou, Giulio
Paolini, Felix Gonzales-Torres, Bruce Nauman, Donald Judd, Giuseppe Penone,
Alighiero Boetti, tanti altri… Impossibile fermarsi.
E i giovani a cui ti senti vicino, artisticamente
parlando?
Ho appena conosciuto Mauro Vignando. Da tempo seguo con
interesse il lavoro di Elenia Depedro, Giovanni De Francesco, Antonio Rovaldi,
Stefano Romano, Ivano Atzori…
Che formazione hai?
In famiglia hanno studiato tutti architettura. I miei
genitori sono stati comunque sempre interessati all’arte e molto attenti a fare
in modo che io e mia sorella ci dedicassimo a quello che più ci avrebbe dato
soddisfazione. Io ho fatto il liceo artistico tra Bergamo e Treviglio, poi
l’Accademia Carrara a Bergamo, dove mi sono diplomato nel 2006, per trasferirmi
poi a Milano e tentare il corso per l’abilitazione all’insegnamento che ho
abbandonato a metà del secondo anno.
Lavori come assistente di Luca Vitone. Quanto è
importante per un emergente essere a contatto con il lavoro di un altro
artista?
Mi ritengo molto fortunato. Ho conosciuto Luca quando
insegnava a Bergamo. Durante una presentazione ero rimasto molto colpito da
alcuni suoi lavori e dalla persona estremamente precisa, disponibile e ricca di
stimoli. Si è subito venuto a creare un rapporto di fiducia
professore/studente. È stato lui a consigliarmi, una volta finita la scuola, di
trasferirmi a Milano e, qualche mese dopo, mi ha preso sotto la sua ala come
assistente in studio. Pochi giorni fa, parlandone, ci siamo resi conto che sono
già passati tre anni. È molto formativo avere a che fare con una persona più
matura, che porta avanti un lavoro interessante e denso di riferimenti al mondo
circostante. In questi tre anni ho appreso quanto il significato di fare arte
sia legato al significato stesso di vivere.
Quanto invece la preparazione accademica influenza il
percorso artistico individuale?
Dipende da molte cose. Personalmente dall’esperienza
accademica ho ricevuto molto, perché frequentavo una scuola con poco più di
cento studenti ed è stato facile creare rapporti diretti con i professori.
Come descriveresti la tua
ricerca?
La mia pratica artistica si concentra sull’idea stessa di
opera, di luogo e spettatore. Ci invita a conoscere qualcosa che già
conosciamo. Attraverso la memoria esploro il luogo e determinate condizioni
preesistenti per realizzare interventi il più possibile minimi e silenziosi,
coperti di quella polvere che solo l’occhio dello spettatore saprà lasciare. Mi
piace pensare ai miei lavori come se fossero senza tempo, attraverso segni
sottili parto da un immaginario il più possibile comune per realizzare oggetti
(ma anche video e fotografie) che sembrano volerci ricordare quanto la
valutazione di cose o situazioni non possa essere ridotta solamente alla loro
superficie.
La grafite è un elemento
ricorrente nel tuo lavoro. Cosa ti affascina di quel materiale, un po’
primordiale?
Penso che sia uno dei pochi legami che ho con la pittura.
Considero la grafite come mezzo primario per la rappresentazione. Grazie alla
grafite, possiamo rappresentare il punto e la linea… Elementi adimensionali
per definizione.
Sembri più interessato a ciò
che viene occultato piuttosto che a quello che viene percepito. Penso al chiodo
d’oro di cui emerge dal muro una piccola porzione, oppure a un cuscino riempito
però di peli di cani. Da cosa nasce quest’interesse di scavare nell’apparenza?
Leggo il giornale e seguo i radiogiornali, dopo di che non
mi limito a ciò che “vedo”, filtro e cerco di farmi un’idea il più possibile
ampia e aperta, uno sguardo distaccato. Sono convinto che la verità sia celata,
che bisogna conoscere il giusto alfabeto per poterla leggere.
Si è da poco conclusa a
Piacenza la tua prima mostra personale. Me ne vuoi parlare?
È stata l’occasione perfetta per lavorare a un’idea che
avevo in mente da molto tempo, ispirata a un progetto irrealizzato di Piero
Manzoni, il Placentarium.
Ti andrebbe di raccontarmi la
genesi di un’opera a cui stai lavorando?
È difficile raccontare come si sviluppano i miei progetti.
Ogni volta parto da qualcosa che già esiste per realizzare interventi
immediatamente comprensibili al visitatore. A volte parto da oggetti raccolti e
collezionati o che vivono nello spazio che ho a disposizione, altre volte dai luoghi
che abito o dalle letture che faccio. Adesso sto lavorando a un’idea per una
mostra a Bergamo che comprende la visita alle opere di Lorenzo Lotto sparse in
tutta la provincia, ma è impossibile capire cosa verrà prodotto da questa
futura esperienza…
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fra i New Arrivals
talent hunter è una rubrica diretta
da daniele perra
*articolo pubblicato
su Exibart.onpaper n. 63. Te l’eri perso? Abbonati!
[exibart]