Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Jane McAdam Freud – Three generations
Nella sua prima mostra personale in Italia, Jane McAdam Freud propone un corpus di opere provenienti da recenti serie di sculture, fotografie e lavori su carta con i quali l’artista inglese ha costruito in questi ultimi anni una riflessione sul rapporto con le proprie radici culturali e parentali.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Nella sua prima mostra personale in Italia, Jane McAdam Freud propone un corpus di opere provenienti da recenti serie di sculture, fotografie e lavori su carta con i quali l’artista inglese ha costruito in questi ultimi anni una riflessione sul rapporto con le proprie radici culturali e parentali. In special modo con il padre e il bisnonno. Essendo questi due personaggi storici di rilievo mondiale, già da bambina Jane ha sviluppato nei loro confronti una relazione di vicinanza ambigua, che si frantuma inaspettatamente all’età di otto anni a causa della brusca separazione dei suoi genitori, Katherine McADam e Lucian Freud. Per 23 anni, Jane non vede il padre (che si va affermando come massimo pittore inglese), mentre il bisnonno Sigmund Freud (padre della psicanalisi) le viene “precluso” dalla ferma volontà della madre di elidere il cognome Freud dai nomi dei suoi quattro figli, rimuovendo così la presenza di una identità (quella del ramo paterno) che Jane riscoprirà dopo essersi affermata come artista, e precisamente a partire dal premio che riceve dalla città di Londra.
La mostra espone alcuni disegni dedicati alla collezione di reperti d’arte antichissimi che l padre della psicoanalisi ha raccolto nell asua vita di collezionista e che provengono da tutte le civiltà più antiche: dagli Etruschi ai Maya, dalle civiltà africane ai greci, dai Romani agli imperi orientali. Si tratta di statuette, maschere e sculture che ritraggono divinità, simboli di fertilità e potenze occulte. Jane trova questa collezione nella casa museo di Sigmund, la sua ultima abitazione, durante un lungo residence d’artista che le offre l’occasione di riconnettersi con le proprie radici. Il disegno è il mezzo con il quale Jane approccia il lato rimosso, ma vivo e influente, del ramo Freud. Scultrice di successo, Jane dimostra con questa esposizione come sia proprio il disegno il modo per lei più immediato di elaborare questo rapporto con gli avi e con la psicoanalisi. L’immagine, più delle parole, può svelare il desiderio, la mancanza, la rimozione, e l’impulsività della nostra vita cosciente ed inconscia. Disegnare e scolpire diventano per Jane McAdam Freud il linguaggio primario, ma anche la meta specifica di un lavoro che “mette in opera” quei meccanismi e quel modus operandi della psiche, che Sigmund Freud ha analizzato attraverso il potere della parola.
Dopo gli studi appassionati al Saint Martin College e alla Royale Academy di Londra, Jane ritrova le sue radici dal nuovo incontro con il padre. Da qui nasce una relazione intensa e profonda, ma senza compiacimenti o patetismo. Si tratta di un incontro tra due artisti fatti e finiti, anche se appartenenti a generazioni diverse. L’affetto, che è stato rimosso, può tornare ad agire e ad esprimersi nel linguaggio dell’arte. Lucian ammira il lavoro della figlia e le chiede di insegnargli a scolpire. Jane ama quel padre schivo e intenso che ha perduto a otto anni e gli chiede, come massimo gesto d’amore, di poterlo ritrarre. Il disegno diventa il modo per tornare ad appropriarsi del volto paterno. Lucian glielo consentirà verso la fine della sua vita poco prima che si spenga a fine luglio 2011. Jane lo ritrae dormiente e sveglio, non per caso. Il sogno e la veglia sono due mondi separati che sottostanno a leggi psichiche divergenti, mettendo in atto energie e poteri diversi. Jane ne è consapevole e da questi disegni trarrà una grande scultura di terracotta che, come un Giano bifronte, presenta, sui due lati opposti della scultura, il padre che dorme e che veglia.
Jane McAdam Freud, Ritratto di Lucian Freud
Artista poliedrica, Jane ama spaziare nei diversi media. In “Us”, è ancora il volto dell’amato Lucian ad essere il suo riferimento essenziale. Ma questa volta, usando in modo magistrale la tecnica del collage, Jane inserisce il proprio volto dentro quello del padre. I due si somigliano in modo sorprendente e nella surrealistica danza che i due volti interpolati compiono l’uno nell’altro diventa evidente un desiderio di fusione, che nasce probabilmente dall’angoscia prodotta dal senso di abbandono. La “condensazione”, intesa da Sigmund Freud, come uno dei modi principali di operare del sogno, viene usata da Jane come modus operandi che ispira la sua composizione. La psicoanalisi si fa immagine.
La scultura di Jane è rappresentata in mostra da alcune statuette bronzee appartenenti alla serie “After Bacon”. L’omaggio al grande artista dublinese diventa il pre-testo per affrontare il tema del desiderio e del corpo. Si tratta di piccole sculture bronzee che ritraggono corpi in pieno disfacimento, torsione, prostrazione materica. Jane li modella con le mani, nella creta, materiale plastico ad alta densità simbolica, che ama e che usa per la maggior parte delle sue sculture. Le impronta delle dita che si immergono nella materia materna, si ritrovano impresse nel bronzo nero, come se fosse una materia bruciata, dura, opaca. Una materia oscura, difficile da decifrare eppure alimentata da una forza che è quella che si ritrova nei quadri di Francis Bacon. Il desiderio, la sofferenza, la perdita, l’eros, si fanno evidenti in questa danza “defigurante” che i corpi compiono solitari.
Il video “Dead or Alive” (2005-2006) chiude la mostra della poliedrica artista inglese. Si tratta di una fusione, un dialogo, tra i meravigliosi reperti delle collezione Freud e i ritratti che l’artista esegue durante il suo residence d’artista. La relazione parentale viene qui affidata al campo “neutro”, ma emotivamente potente, delle opere d’arte di un passato antico, difficile da ricordare ma presente nella forza della scultura. Le musiche che accompagnano le immagini sono di una compositrice amica dell’artista che, mentre soffre di un grave male debilitante, continua a comporre e suonare. Jane ammira la forza vitale di chi non si arrende e il film riflette questa sua sensibilità nei confronti della perdita, della morte, ma anche dell’incontro, della vita.
L’inaugurazione della prima personale italiana di Jane McAdam Freud “Three Generations” si tiene mercoledì 20 giugno 2012 (ore 18 – 22) presso whitelabs, Milano. La mostra dura fino al 31 luglio 2012 e presenta gli ultimi lavori di Jane McAdam Freud.
Jane McAdam Freud ha esposto la sua arte ampiamente negli Stati Uniti, Europa e Asia. Il suo lavoro è stata acquistata dal British Museum, Londra; Berlin State Museum, Galleria Nazionale della Grecia, e l’Archivio della National Gallery di Londra. E’ inoltre in mostra permanente presso il Victoria and Albert Museum, Londra. Laureata al Royal College of Art, ha ricevuto la borsa di studio British Art Medal a Roma e il premio italiano Zecca dello Stato. Jane McAdam Freud vive e lavora a Londra ed è professoressa associata presso la Central St. Martins School of Art.
Biografia dettagliata su
http://en.wikipedia.org/wiki/Jane_McAdam_Freud
Interview with Jane McAdam Freud
by Nicola Davide Angerame
June the 6th, 2012
How did your work change after your reunion with your father?
I made sculpture that was looser in its approach and more expressionist than before. The After Bacon series reflects this best in that it shows the experimental shift from a certain informed rigidity to a loose and trusted impulsivity. These works contain something of Medardo Rosso in their fluidity of form and of Bacon in the power of their expression. My work also changed in that my sculpture got larger. This was a direct result of advice from my father. He encouraged me to work both large and small, to vary my scale rather than working on the one scale only.
What does the loss of your father mean for you today? Does it have a new influence on your work?
The loss of my father has had the effect of increasing the urgency with which I work. As a result I am now able to make sculpture with a rapidity that was not always present before. I work more quickly. It is the reflection of ones own death projected by the death of a parent that drove me into a very focused use of time. I seem to have a lot to say through my work this year following my father’s death. It is as though all that pent up need to use his image in my work was being saved up inside and ran like a river when I felt that I was allowed (by him) to express it.
What did it mean for you, and what did you feel the day you could finally do his portrait? What does drawing represents for you as a medium? Is it a medium that permitted you another and different approach to the figure and the personality of your father? Is it a sort of language without words, with different meanings?
I always avoided painting as a way of not competing. Drawing is however a way of exploring, studying, contemplating and underpins both painting and sculpture. I always allowed myself this.
When my father sat for me at the end of his life it was the second time that I had done his portrait. The first was when we sat for each other in 1990-91. However, at that time we both worked simultaneously from each other’s image. We worked on sculpture in wax. He wanted me to show him some techniques and I found it exciting but also quite terrifying. I think this way of working together was new for him (an experiment) and I wasn’t quite sure what was expected from me so as a result we were both pretty nervous and their was a lot of creative tension in the air.
In 2011 when my father sat for the drawings, I felt as though everything in my life of art had led up to that point. I had made portraiture a focus of my practice for a period, with the dream of again doing his portrait when he was ready.
Drawing represents the roots of all the visual arts. It is a symbolic process for me and helps me to feel at home with my work. I touch base with drawing in that I go home to my first conscious experiences with art, which was sketching as a child. My father also always told me that drawing was important. I suppose there is a parallel with going back to drawing from sculpture and going back to my parents psychologically.
Through drawing I was able to explore my father’s energy through the energy of in the marks I made. I also used the concept of drawing from an inanimate object (my sculpture) representing my father. Drawing is – in its choices of what is drawn and how it is drawn – a language of it’s own. For example the drawing of the sculpture of my father symbolises ‘drawing from the dead’ in the way that death inevitably feeds life. It is an effigy and not the person before I start the drawing.
Is there a relationship between your last portraits that we show in Milan, and the big sculpture of your father, and the idea of the death mask of ancient cultures?
I made the large sculpture based of the last drawings I did of my father when he was not able to paint as much as he wanted. He had the inclination to sit which was not something he generally had time for as his own work was all consuming.
On some level there is a relationship between the ancient cultures and what we do today as all art is about life and death and these ancient death masks are all part of that continuum.
Your relationship with psychoanalysis: did you study psychoanalysis in your life? Did you use psychotherapy or analysis as a patient? If yes, what did this process/experience give to you?
I read Freud at Art School as I studied psychology as a secondary subject. I enjoyed it and found it remarkably accessible and familiar because I spent the first years of my school life in the daily presence of my paternal grandparents Ernst and Lucie Freud. They were editing Sigmund Freud’s diaries at that time and discussed the publication with each other. As a child the concepts were heard early in life (even if not fully understood at that time). I continued to read Freud and it has become integrated in the way I see the world and comes out through my work.
I have never indulged in ‘one to one’ therapy but completely believe that it has its place. As a member of several groups (mainly art and philosophy), I find group dynamics interesting and helpful to understand as it explains so many states of conflict. Sigmund Freud was of course interested in ‘the mass’ and I have read his work on the psychology of the group.
“After Bacon” are very strong sculptures, can you tell me more about this series: how it was born, why you related them to Bacon and what it means?
I found that I was able to refer to the human form with clay without being academically faithful to it, which was liberating. Working quickly and freely I made the series of work I dedicate to Bacon. I thought of my father and remembered him talking about his relationship with Francis Bacon. Bacon had been an influence on Lucian and helped him loosen up with regard to his painting process. With the After Bacon series I also worked in a more direct way. Working very quickly with a soft material I could not edit myself too much (which was always my vice). These works contain something of Bacon in their rawness of expression.
“Us”, the two series of photo collages are a very interesting work, in which you mix your face (and parts of it) with Lucian’s face. The resemblance is incredible! How was this idea born? Was it a surprise for you when you got the effect? Can you tell me more about this project and your feeling about photography as a medium that you don’t use so often?
I got the idea for this from trying to make a portrait sculpture of my father by using my features. As he was no longer alive to model from I thought I could use myself as a model. I also used my drawings of him as reference and my memory of his face. The first sculpture I did turned out to look just like him. While trying it again in clay I thought it might be useful to see if there was any likeness in reality. I have always been told I look like my father and I wanted to test the theory. The result of merging these two photos was so striking that it caught my imagination and I decided to create this photographic work. I use photography when it seems more appropriate than sculpture or drawing to explore what I need to express. On this occasion it worked! I also used photography for my film Dead or Alive in 2005/6. Both times I have used it alongside and to compliment my sculpture. It is amazing to me that a photographic work can be made so quickly and cleanly in contrast to sculpture. I love the ‘tactile’ sense and the physicality of sculpture so I would never exchange it for photography completely but photography is a refreshing change, which I enjoy and require now and then.
Your work is related to psychoanalysis. Why? In which ways? When did you decide to work on your great grandfather’s theory?
Thinking about concepts drives my work and my way of thinking about these concepts is often informed by my knowledge of psychology. I realized how much of an influence psychoanalytic theory had on my works and their interpretations when I was artist in residence at the Freud Museum in London (the last home of Sigmund Freud) from January 2005- September 2006. While there I studied, through drawing, Freud’s collection of ancient sculpture and realized that he had a marvelous eye for these objects, many of which reminded me of sculptures I had made in the preceding years. It was quite a revelation to find an antecedent who was fascinated by sculpture.
I would like to talk about your relationship with your great grandfather Sigmund Freud. How did you know him, and what is your feeling about his heritage?
Sigmund Freud died in 1939 so unfortunately our paths never crossed. I got to know him as everyone does through our cultural heritage in the West. His theories and his name itself are deeply ingrained in our culture. I always knew I was related to him and it always felt special but at the same time shared. It became a secret ingredient of my life in that it wasn’t something I spoke about but was something that appealed to my imagination and fed into my artistic processes.
Tell me more about the series of drawings, portraits of Sigmund Freud antiquities collection: why did you choose it, why to do portraits of “objects”.
I learn about objects through working with them, either drawing them or making things from them. My sculpture is object based so objects have a ‘life’ for me in terms of their forms, symbolism and meanings and how they interact with space. The fact that objects, unlike drawings exist in the round like we do has its own appeal.
It is interesting drawing objects as we recognize the objects ‘or not’ in the drawing due to objects being particular shapes regarding their function. When I draw objects I have created, it seems to me that I should have a choice about how I depict them but I find the need to remain faithful to the object in front of me as though it has some demands of its own. I am experimenting with drawing ‘from’ them instead of making solely drawings of them.
Allegato 1
Jane McAdam Freud: un addio a mio padre
di Simon Hattenstone
per il Guardian
Mercoledì 18 Gennaio 2012
Legami familiari… Jane McAdam Freud, con una scultura del padre, Lucian Freud. Fotografia: Sarah Lee per il Guardian
Mentre Lucian Freud giace sul suo letto di morte, sua figlia Jane affronta il proprio dolore catturando la figura del padre in disegni e sculture. Siccome questi lavori finiscono in mostra, lei parla della loro relazione.
Jane McAdam Freud sta guardando una scultura del padre, Lucian Freud. Visto da un lato, è morto: gli occhi e la bocca chiusa, serena. Visto dall’altra parte, invece, è molto sveglio: occhi sbarrati, la bocca concentrata, il volto animato. Dalla fronte sembra piuttosto feroce. Jane chiama la scultura – per la quale Lucian ha posato, mentre era a letto morente – un “trittico”. E’ un lavoro bellissimo: giocoso, commovente, inquietante.
Nel 1991 Lucian posa per la prima volta come modello per sua figlia. A quel tempo, lei scolpisce e lui scolpisce lei. Passano il tempo a girarsi attorno, nervosamente. Si sono da poco ritrovati, ma questa volta è diverso. Lei ha il controllo e comincia queste opere come una via per rendere conto dei fatti della propria vita. Poi diventa un gesto per ricordare. Jane non aveva mai considerato di mostrarle fino a che Jon Snow dell’emittente Channel 4 li ha visti: lui sostiene che sarebbe egoista tenerli da parte. In ogni caso, Lucian li vede e le dice “ho visto il tuo lavoro ed è bello, e tutto il buon lavoro diventa pubblico”. Era un complimento ambiguo ma lui ne faceva spesso di questo genere.
La mostra ospitata al Sigmund Freud Museum di Londra è costituita da ritratti, realizzati in diversi materiali: dai disegni intimi alle monete di rame impresso, dagli stampi in plastilina al gigantesco trittico in terra cotta riflesso in uno specchio. Jane mi chiede di guardare sul retro di uno dei piccoli ritratti in rame. “Che cosa vedi?” chiede. La parola terra, dico. “E che cosa è compreso in terra?” Guardo ancora un po’, prima di gridare trionfante: “arte”! Lei ridacchia, felice. “Esattamente. Ho voluto mettere dentro l’opera ciò che riguardava il centro del suo mondo”.
Jane vive nel nord-ovest di Londra, in una casa dall’aspetto modesto, con il marito e due figli grandi (dal suo precedente matrimonio). All’interno l’abitazione è sorprendentemente spaziosa, con uno studio enorme in fondo al giardino. C’è qualcosa di immediatamente simpatico in Jane: è accogliente e loquace, divertente e vulnerabile: sarebbe un grande personaggio di Mike Leigh. Come suo padre, lei ha qualcosa di simile ad un uccello da preda: un viso tagliente e gli occhi sbarrati da falco. Sulla sua scrivania c’è una citazione tratta dal pedagogo statunitense, Horace Mann: “Vergognati di morire prima di aver vinto una battaglia per l’umanità.” Lei sorride e spiega: “Non dev’essere una grande vittoria, basta anche una piccola cosa”.
Da quando suo padre Lucian è morto, lei ha dedicato il suo lavoro a lui. È un modo per esplorare la loro relazione. Un rapporto che è stato sorprendente. Fino a quando aveva otto anni, Lucian, che è noto per essere il padre di almeno 14 bambini, è stato parte della sua vita. Jane era una dei quattro figli nati da Lucian e Katherine McAdam, incontrata presso il Central Saint Martins College of Art. L’inizio del loro rapporto fu in classico stile Freud: Katherine aveva vinto un concorso come la studentessa più bella dei college di Londra. Lucian pensò che fosse un suo diritto ballare con lei. Non si sposeranno mai, ma ciò è la cosa più vicina ad un rapporto regolare che il grande ritrattista abbia mai avuto.
Katherine e i loro quattro bambini avevano una casa a Paddington, mentre Lucian abitava nelle vicinanze. Era sempre in giro, quando non lo era, i ragazzi lo credevano rinchiuso nel suo studio. Tutto sembrava andar bene alla giovane Jane. I suoi genitori non hanno mai litigato, dice, ma verso la fine della loro relazione è diventato evidente che qualcosa non andava. “Ci sono stati momenti in cui mamma non lo lasciava entrare in casa. Ricordo che lui le diceva: Perché non mi lasci entrare, mami? Lei voleva allontanarsi da lui e andare avanti con la propria vita”.
Katherine, artista di talento, aveva una carriera come designer. Poi un giorno impacchetta tutto senza preavviso, e si trasferisce con i bambini a Roehampton, nel sud-ovest di Londra. Jane non vedrà suo padre fino all’età di 31 anni. “Ventitré anni!”, esclamo. Sembra stupita. “Davvero?”, dice, e li conta: “da otto a 31, sì, sono 23 anni”. Sua madre ha tolto Freud dal nome della famiglia, e dice ai suoi figli di andare avanti con la ricostruzione delle loro vite. “Quando ci siamo trasferiti, urlavo e scalciavo, assolutamente sofferente del fatto che venivo portata via”. A poco a poco, Jane ha scoperto che tipo fosse suo padre e perché sua madre aveva preso una decisione tanto drastica.
“Ricordo di aver parlato con mia madre di queste cose complicate, e lei è stata abbastanza chiara, mi diceva: Ovviamente lui è molto intenso, Jane. Non potevo vivere con lui a tempo pieno, perché non avrei avuto energia a sufficienza. Troppo intenso”. E poi c’era tutto il resto. Per sua madre il rapporto era monogamo e puro, per Lucian tutt’altro. “Mia madre non ce la faceva più. Forse erano i tradimenti, o le altre donne e gli altri bambini, suppongo”.
Per molti anni è stata Jane McAdam. Era semplice, dice: bastava negare il mio pezzo di Freud. Come Jane McAdam, scopre l’arte, frequentando il St Martins College e poi il Royal College of Art di Londra. Ha fatto un master e preso borse di studio, anche in altre parti del mondo. Oggi Jane ha 53 anni, ma da quando ne aveva 3 sa che vuole essere un’artista. Da quando ha giocato con l’acqua in una cava di sabbia e ha scoperto così la scultura. Anche se non ne conosceva ancora il nome.
Per la madre, il nome di Freud era un problema: non tanto a causa di Lucian, che quando si separarono era ancora un pittore alle prese con la propria carriera, ma per Sigmund. Katherine voleva che i suoi figli vivessero la propria vita a modo loro. Per questo, quando Jane inizia ad avere successo, si convince di non aver bisogno di niente altro. “Ero impegnata a fare il mio lavoro ed ero completamente guidata dal mio amore per l’arte”.
“Non pensavi a tuo padre in questi anni?”, le chiedo. Mi dà uno di quegli sguardi intensi, freudiani. “Beh, ho letto di lui sempre più spesso sulla stampa. Ero tormentata”. Perché? “Beh, era mio padre e nessuno lo sapeva. Immagina vivere così, era una tortura”. Perché, volevi che la gente lo sapesse? “Io no, ma volevo essere libera di essere me stessa. Volevo sentire di più colui a cui appartenevo. Per questo ho voluto rinnovare il mio rapporto con lui”. Che cosa hai provato? “Desiderio e struggimento”. Nella sua testa fantasticava sul loro incontro, dopo tutto questo tempo. Si sentiva incompleta, disonesta, confusa.
In tutti quegli anni, Lucian non fece alcun tentativo di entrare in contatto con i suoi quattro figli attraverso Katherine. Né loro cercarono di mettersi in contatto con lui. Jane dice di essere stata terrorizzata dalla paura del rifiuto.
Nel 1991, Jane si è aggiudicata il premio Libertà della Città di Londra per il suo lavoro. Per ricevere il premio ha dovuto presentare il suo certificato di nascita, incluso il nome di suo padre e la sua occupazione. Sono andati da lei e le hanno detto: “ti abbiamo scoperto!”. L’attenzione della stampa che è seguita si è dimostrata una mezza benedizione. Stranamente, Jane ha trovato più difficile ottenere mostre e provvigioni; persone che un tempo avevano amato il suo lavoro, hanno cominciato a dubitare di lei, pensando che fosse in qualche modo contaminata dal padre o raccomandata da lui. Ma dall’altra parte ciò le permette di abbracciare la sua nuova identità e riscoprire suo padre.
Decidono di incontrarsi a cena. Jane è terrorizzata, non riesce a mangiare nulla. Lui la guarda appena. Lei lo ama, ma è in soggezione. Presto capisce quel che sua madre aveva voluto dirle circa la sua intensità. “L’intensità è una cosa fantastica, esaltante, ma ti finisce”. In che modo è stato estenuante: troppo loquace o esigente? “No – risponde – erano i suoi occhi, il suo sguardo. Penetravano ogni centimetro di me. Sono caduta in preda di quel suo sguardo in cui ti potevi perdere e che cambiava costantemente. Lasciava grandi silenzi aprirsi tra le cose che diceva. Io sentivo il peso dell’attesa.” Quando hai conosciuto per la prima volta quello sguardo? “Lo conosco da sempre! Voglio dire, i miei fidanzati sono stati come delle reincarnazioni”.
Dopo quel primo incontro, Jane gli chiede di posare per lei. É l’inizio di un anno in cui si ritraggono a vicenda. Sentivi rabbia per averti abbandonata? “No, sono un po’ sognatrice e un po’ ottimista. Philip Pullman ha detto che abbiamo la responsabilità morale di essere ottimisti oltre il 50% e penso che sia vero”. Gli hai mai chiesto se avesse patito l’assenza? “Ha solo detto di non avere una vita familiare”. Sorride. Entrambi pensiamo ai 14 bambini avuti da Lucian. “E ‘un enigma, non è vero?”, conclude Jane.
“La cosa divertente – dice – è che penso che gli sarebbe piaciuto sistemarsi con una donna. Credo che fosse molto vulnerabile”. In che modo? “Non gli piaceva dire addio. E’ difficile quando sei con qualcuno e in realtà non vuole che tu vada via. L’ho avvertito forte, specialmente verso la fine. Per questo ti sentivi così importante quando eri con lui. La gente lo amava, credo, perché aveva davvero bisogno delle persone”. Si controlla. “Ma si cambia, non è vero? Un minuto prima hai bisogno di loro e quello dopo non più”.
Mentre parliamo, stiamo guardando il “trittico”. “C’è quasi una qualità rettile – mi dice Jane – è come un cobra, qualcosa che cambia pelle. Non puoi definirlo. Fai mente locala, ma poi non pensi”. La cosa che le piace di più è che ha un occhio aperto e uno chiuso, proprio come quando dipingeva.
Rientrare in contatto con il padre ha cambiato praticamente tutto nella vita di Jane. Si ritrova con 10 fratellastri e sorellastre in più. La riunione ha un effetto drammatico sui suoi fratelli: tutti e tre cambiano carriera, annunciando che da ora saranno artisti. Jane è orgogliosa di ciò che loro hanno raggiunto, ma certamente lei è in qualche modo consapevole di essere la migliore. “Ci vogliono migliaia di ore per capire chi sei e cosa stai facendo e che cosa concerne il tuo lavoro”.
Era così strano, dice, le cose che lei e suo padre hanno in comune: lo sguardo, il modo in cui stringono i pugni, in particolare quando camminano. E come artisti? Lei ci pensa un po’ e ricorda di quando a Lucian è stato chiesto quale fosse il rapporto che i suoi ritratti instauravano con i loro modelli. Lui rispondeva: “Sono loro”. Jane condivide questo desiderio di abbracciare la realtà.
Nel 2001, Jane è stato incaricata di creare un ritratto in forma di medaglia. “Gli ho chiesto: posso fare il tuo? E lui mi ha risposto: penseranno che sono vanitoso, sarebbe meglio farlo in seguito, quando avrà il senso di un memento mori. Allora pensai: non si tratta di te, ma di me e di noi insieme. Poi nel 2011, quando stava per morire, finalmente fu d’accordo”. E quando si sono sistemati per posare, hanno parlato della loro vita, passato e presente, insieme e separati.
Jane tira fuori la sua scatola del tesoro e mi mostra il suo contenuto: un ritaglio di giornale di sua madre da studente (lei è triste perchè non ha mai capito quanto fosse speciale), i suoi nonni (il figlio di Sigmund e sua moglie); lettere di suo padre nella sua incredibile grafia infantile. Poi ritira tutto, con amore e consapevolmente. Dice che le piacerebbe farmi vedere qualcosa di particolarmente speciale: fotografie di Lucian prese pochi giorni prima di morire: magro, con la barba, simile a un Cristo e non dissimile dalla maschera mortuaria di Turner.
Soltanto pochi mesi prima della morte di Lucian, avvenuta lo scorso luglio, Jane si è messa al lavoro, riproducendo le immagini di suo padre in forme diverse. Lei è contenta di avere trasformato il tutto in una mostra, ma insiste che ciò non è mai fatto parte del piano. “Non c’era nessun pensiero di esporre. Mai, neppure in un milione di anni. Era un lavoro privato, che apparteneva al processo di elaborazione del proprio lutto”. Certo lei è orgogliosa di quanto ha prodotto, ma sa che è stato un meccanismo di copiatura. Quando lui morì, lei si sentì come se un grande albero fosse stato abbattuto. “Stavo facendo del lavoro per aiutare me stessa”, dice.
La mostra espone alcuni disegni dedicati alla collezione di reperti d’arte antichissimi che l padre della psicoanalisi ha raccolto nell asua vita di collezionista e che provengono da tutte le civiltà più antiche: dagli Etruschi ai Maya, dalle civiltà africane ai greci, dai Romani agli imperi orientali. Si tratta di statuette, maschere e sculture che ritraggono divinità, simboli di fertilità e potenze occulte. Jane trova questa collezione nella casa museo di Sigmund, la sua ultima abitazione, durante un lungo residence d’artista che le offre l’occasione di riconnettersi con le proprie radici. Il disegno è il mezzo con il quale Jane approccia il lato rimosso, ma vivo e influente, del ramo Freud. Scultrice di successo, Jane dimostra con questa esposizione come sia proprio il disegno il modo per lei più immediato di elaborare questo rapporto con gli avi e con la psicoanalisi. L’immagine, più delle parole, può svelare il desiderio, la mancanza, la rimozione, e l’impulsività della nostra vita cosciente ed inconscia. Disegnare e scolpire diventano per Jane McAdam Freud il linguaggio primario, ma anche la meta specifica di un lavoro che “mette in opera” quei meccanismi e quel modus operandi della psiche, che Sigmund Freud ha analizzato attraverso il potere della parola.
Dopo gli studi appassionati al Saint Martin College e alla Royale Academy di Londra, Jane ritrova le sue radici dal nuovo incontro con il padre. Da qui nasce una relazione intensa e profonda, ma senza compiacimenti o patetismo. Si tratta di un incontro tra due artisti fatti e finiti, anche se appartenenti a generazioni diverse. L’affetto, che è stato rimosso, può tornare ad agire e ad esprimersi nel linguaggio dell’arte. Lucian ammira il lavoro della figlia e le chiede di insegnargli a scolpire. Jane ama quel padre schivo e intenso che ha perduto a otto anni e gli chiede, come massimo gesto d’amore, di poterlo ritrarre. Il disegno diventa il modo per tornare ad appropriarsi del volto paterno. Lucian glielo consentirà verso la fine della sua vita poco prima che si spenga a fine luglio 2011. Jane lo ritrae dormiente e sveglio, non per caso. Il sogno e la veglia sono due mondi separati che sottostanno a leggi psichiche divergenti, mettendo in atto energie e poteri diversi. Jane ne è consapevole e da questi disegni trarrà una grande scultura di terracotta che, come un Giano bifronte, presenta, sui due lati opposti della scultura, il padre che dorme e che veglia.
Jane McAdam Freud, Ritratto di Lucian Freud
Artista poliedrica, Jane ama spaziare nei diversi media. In “Us”, è ancora il volto dell’amato Lucian ad essere il suo riferimento essenziale. Ma questa volta, usando in modo magistrale la tecnica del collage, Jane inserisce il proprio volto dentro quello del padre. I due si somigliano in modo sorprendente e nella surrealistica danza che i due volti interpolati compiono l’uno nell’altro diventa evidente un desiderio di fusione, che nasce probabilmente dall’angoscia prodotta dal senso di abbandono. La “condensazione”, intesa da Sigmund Freud, come uno dei modi principali di operare del sogno, viene usata da Jane come modus operandi che ispira la sua composizione. La psicoanalisi si fa immagine.
La scultura di Jane è rappresentata in mostra da alcune statuette bronzee appartenenti alla serie “After Bacon”. L’omaggio al grande artista dublinese diventa il pre-testo per affrontare il tema del desiderio e del corpo. Si tratta di piccole sculture bronzee che ritraggono corpi in pieno disfacimento, torsione, prostrazione materica. Jane li modella con le mani, nella creta, materiale plastico ad alta densità simbolica, che ama e che usa per la maggior parte delle sue sculture. Le impronta delle dita che si immergono nella materia materna, si ritrovano impresse nel bronzo nero, come se fosse una materia bruciata, dura, opaca. Una materia oscura, difficile da decifrare eppure alimentata da una forza che è quella che si ritrova nei quadri di Francis Bacon. Il desiderio, la sofferenza, la perdita, l’eros, si fanno evidenti in questa danza “defigurante” che i corpi compiono solitari.
Il video “Dead or Alive” (2005-2006) chiude la mostra della poliedrica artista inglese. Si tratta di una fusione, un dialogo, tra i meravigliosi reperti delle collezione Freud e i ritratti che l’artista esegue durante il suo residence d’artista. La relazione parentale viene qui affidata al campo “neutro”, ma emotivamente potente, delle opere d’arte di un passato antico, difficile da ricordare ma presente nella forza della scultura. Le musiche che accompagnano le immagini sono di una compositrice amica dell’artista che, mentre soffre di un grave male debilitante, continua a comporre e suonare. Jane ammira la forza vitale di chi non si arrende e il film riflette questa sua sensibilità nei confronti della perdita, della morte, ma anche dell’incontro, della vita.
L’inaugurazione della prima personale italiana di Jane McAdam Freud “Three Generations” si tiene mercoledì 20 giugno 2012 (ore 18 – 22) presso whitelabs, Milano. La mostra dura fino al 31 luglio 2012 e presenta gli ultimi lavori di Jane McAdam Freud.
Jane McAdam Freud ha esposto la sua arte ampiamente negli Stati Uniti, Europa e Asia. Il suo lavoro è stata acquistata dal British Museum, Londra; Berlin State Museum, Galleria Nazionale della Grecia, e l’Archivio della National Gallery di Londra. E’ inoltre in mostra permanente presso il Victoria and Albert Museum, Londra. Laureata al Royal College of Art, ha ricevuto la borsa di studio British Art Medal a Roma e il premio italiano Zecca dello Stato. Jane McAdam Freud vive e lavora a Londra ed è professoressa associata presso la Central St. Martins School of Art.
Biografia dettagliata su
http://en.wikipedia.org/wiki/Jane_McAdam_Freud
Interview with Jane McAdam Freud
by Nicola Davide Angerame
June the 6th, 2012
How did your work change after your reunion with your father?
I made sculpture that was looser in its approach and more expressionist than before. The After Bacon series reflects this best in that it shows the experimental shift from a certain informed rigidity to a loose and trusted impulsivity. These works contain something of Medardo Rosso in their fluidity of form and of Bacon in the power of their expression. My work also changed in that my sculpture got larger. This was a direct result of advice from my father. He encouraged me to work both large and small, to vary my scale rather than working on the one scale only.
What does the loss of your father mean for you today? Does it have a new influence on your work?
The loss of my father has had the effect of increasing the urgency with which I work. As a result I am now able to make sculpture with a rapidity that was not always present before. I work more quickly. It is the reflection of ones own death projected by the death of a parent that drove me into a very focused use of time. I seem to have a lot to say through my work this year following my father’s death. It is as though all that pent up need to use his image in my work was being saved up inside and ran like a river when I felt that I was allowed (by him) to express it.
What did it mean for you, and what did you feel the day you could finally do his portrait? What does drawing represents for you as a medium? Is it a medium that permitted you another and different approach to the figure and the personality of your father? Is it a sort of language without words, with different meanings?
I always avoided painting as a way of not competing. Drawing is however a way of exploring, studying, contemplating and underpins both painting and sculpture. I always allowed myself this.
When my father sat for me at the end of his life it was the second time that I had done his portrait. The first was when we sat for each other in 1990-91. However, at that time we both worked simultaneously from each other’s image. We worked on sculpture in wax. He wanted me to show him some techniques and I found it exciting but also quite terrifying. I think this way of working together was new for him (an experiment) and I wasn’t quite sure what was expected from me so as a result we were both pretty nervous and their was a lot of creative tension in the air.
In 2011 when my father sat for the drawings, I felt as though everything in my life of art had led up to that point. I had made portraiture a focus of my practice for a period, with the dream of again doing his portrait when he was ready.
Drawing represents the roots of all the visual arts. It is a symbolic process for me and helps me to feel at home with my work. I touch base with drawing in that I go home to my first conscious experiences with art, which was sketching as a child. My father also always told me that drawing was important. I suppose there is a parallel with going back to drawing from sculpture and going back to my parents psychologically.
Through drawing I was able to explore my father’s energy through the energy of in the marks I made. I also used the concept of drawing from an inanimate object (my sculpture) representing my father. Drawing is – in its choices of what is drawn and how it is drawn – a language of it’s own. For example the drawing of the sculpture of my father symbolises ‘drawing from the dead’ in the way that death inevitably feeds life. It is an effigy and not the person before I start the drawing.
Is there a relationship between your last portraits that we show in Milan, and the big sculpture of your father, and the idea of the death mask of ancient cultures?
I made the large sculpture based of the last drawings I did of my father when he was not able to paint as much as he wanted. He had the inclination to sit which was not something he generally had time for as his own work was all consuming.
On some level there is a relationship between the ancient cultures and what we do today as all art is about life and death and these ancient death masks are all part of that continuum.
Your relationship with psychoanalysis: did you study psychoanalysis in your life? Did you use psychotherapy or analysis as a patient? If yes, what did this process/experience give to you?
I read Freud at Art School as I studied psychology as a secondary subject. I enjoyed it and found it remarkably accessible and familiar because I spent the first years of my school life in the daily presence of my paternal grandparents Ernst and Lucie Freud. They were editing Sigmund Freud’s diaries at that time and discussed the publication with each other. As a child the concepts were heard early in life (even if not fully understood at that time). I continued to read Freud and it has become integrated in the way I see the world and comes out through my work.
I have never indulged in ‘one to one’ therapy but completely believe that it has its place. As a member of several groups (mainly art and philosophy), I find group dynamics interesting and helpful to understand as it explains so many states of conflict. Sigmund Freud was of course interested in ‘the mass’ and I have read his work on the psychology of the group.
“After Bacon” are very strong sculptures, can you tell me more about this series: how it was born, why you related them to Bacon and what it means?
I found that I was able to refer to the human form with clay without being academically faithful to it, which was liberating. Working quickly and freely I made the series of work I dedicate to Bacon. I thought of my father and remembered him talking about his relationship with Francis Bacon. Bacon had been an influence on Lucian and helped him loosen up with regard to his painting process. With the After Bacon series I also worked in a more direct way. Working very quickly with a soft material I could not edit myself too much (which was always my vice). These works contain something of Bacon in their rawness of expression.
“Us”, the two series of photo collages are a very interesting work, in which you mix your face (and parts of it) with Lucian’s face. The resemblance is incredible! How was this idea born? Was it a surprise for you when you got the effect? Can you tell me more about this project and your feeling about photography as a medium that you don’t use so often?
I got the idea for this from trying to make a portrait sculpture of my father by using my features. As he was no longer alive to model from I thought I could use myself as a model. I also used my drawings of him as reference and my memory of his face. The first sculpture I did turned out to look just like him. While trying it again in clay I thought it might be useful to see if there was any likeness in reality. I have always been told I look like my father and I wanted to test the theory. The result of merging these two photos was so striking that it caught my imagination and I decided to create this photographic work. I use photography when it seems more appropriate than sculpture or drawing to explore what I need to express. On this occasion it worked! I also used photography for my film Dead or Alive in 2005/6. Both times I have used it alongside and to compliment my sculpture. It is amazing to me that a photographic work can be made so quickly and cleanly in contrast to sculpture. I love the ‘tactile’ sense and the physicality of sculpture so I would never exchange it for photography completely but photography is a refreshing change, which I enjoy and require now and then.
Your work is related to psychoanalysis. Why? In which ways? When did you decide to work on your great grandfather’s theory?
Thinking about concepts drives my work and my way of thinking about these concepts is often informed by my knowledge of psychology. I realized how much of an influence psychoanalytic theory had on my works and their interpretations when I was artist in residence at the Freud Museum in London (the last home of Sigmund Freud) from January 2005- September 2006. While there I studied, through drawing, Freud’s collection of ancient sculpture and realized that he had a marvelous eye for these objects, many of which reminded me of sculptures I had made in the preceding years. It was quite a revelation to find an antecedent who was fascinated by sculpture.
I would like to talk about your relationship with your great grandfather Sigmund Freud. How did you know him, and what is your feeling about his heritage?
Sigmund Freud died in 1939 so unfortunately our paths never crossed. I got to know him as everyone does through our cultural heritage in the West. His theories and his name itself are deeply ingrained in our culture. I always knew I was related to him and it always felt special but at the same time shared. It became a secret ingredient of my life in that it wasn’t something I spoke about but was something that appealed to my imagination and fed into my artistic processes.
Tell me more about the series of drawings, portraits of Sigmund Freud antiquities collection: why did you choose it, why to do portraits of “objects”.
I learn about objects through working with them, either drawing them or making things from them. My sculpture is object based so objects have a ‘life’ for me in terms of their forms, symbolism and meanings and how they interact with space. The fact that objects, unlike drawings exist in the round like we do has its own appeal.
It is interesting drawing objects as we recognize the objects ‘or not’ in the drawing due to objects being particular shapes regarding their function. When I draw objects I have created, it seems to me that I should have a choice about how I depict them but I find the need to remain faithful to the object in front of me as though it has some demands of its own. I am experimenting with drawing ‘from’ them instead of making solely drawings of them.
Allegato 1
Jane McAdam Freud: un addio a mio padre
di Simon Hattenstone
per il Guardian
Mercoledì 18 Gennaio 2012
Legami familiari… Jane McAdam Freud, con una scultura del padre, Lucian Freud. Fotografia: Sarah Lee per il Guardian
Mentre Lucian Freud giace sul suo letto di morte, sua figlia Jane affronta il proprio dolore catturando la figura del padre in disegni e sculture. Siccome questi lavori finiscono in mostra, lei parla della loro relazione.
Jane McAdam Freud sta guardando una scultura del padre, Lucian Freud. Visto da un lato, è morto: gli occhi e la bocca chiusa, serena. Visto dall’altra parte, invece, è molto sveglio: occhi sbarrati, la bocca concentrata, il volto animato. Dalla fronte sembra piuttosto feroce. Jane chiama la scultura – per la quale Lucian ha posato, mentre era a letto morente – un “trittico”. E’ un lavoro bellissimo: giocoso, commovente, inquietante.
Nel 1991 Lucian posa per la prima volta come modello per sua figlia. A quel tempo, lei scolpisce e lui scolpisce lei. Passano il tempo a girarsi attorno, nervosamente. Si sono da poco ritrovati, ma questa volta è diverso. Lei ha il controllo e comincia queste opere come una via per rendere conto dei fatti della propria vita. Poi diventa un gesto per ricordare. Jane non aveva mai considerato di mostrarle fino a che Jon Snow dell’emittente Channel 4 li ha visti: lui sostiene che sarebbe egoista tenerli da parte. In ogni caso, Lucian li vede e le dice “ho visto il tuo lavoro ed è bello, e tutto il buon lavoro diventa pubblico”. Era un complimento ambiguo ma lui ne faceva spesso di questo genere.
La mostra ospitata al Sigmund Freud Museum di Londra è costituita da ritratti, realizzati in diversi materiali: dai disegni intimi alle monete di rame impresso, dagli stampi in plastilina al gigantesco trittico in terra cotta riflesso in uno specchio. Jane mi chiede di guardare sul retro di uno dei piccoli ritratti in rame. “Che cosa vedi?” chiede. La parola terra, dico. “E che cosa è compreso in terra?” Guardo ancora un po’, prima di gridare trionfante: “arte”! Lei ridacchia, felice. “Esattamente. Ho voluto mettere dentro l’opera ciò che riguardava il centro del suo mondo”.
Jane vive nel nord-ovest di Londra, in una casa dall’aspetto modesto, con il marito e due figli grandi (dal suo precedente matrimonio). All’interno l’abitazione è sorprendentemente spaziosa, con uno studio enorme in fondo al giardino. C’è qualcosa di immediatamente simpatico in Jane: è accogliente e loquace, divertente e vulnerabile: sarebbe un grande personaggio di Mike Leigh. Come suo padre, lei ha qualcosa di simile ad un uccello da preda: un viso tagliente e gli occhi sbarrati da falco. Sulla sua scrivania c’è una citazione tratta dal pedagogo statunitense, Horace Mann: “Vergognati di morire prima di aver vinto una battaglia per l’umanità.” Lei sorride e spiega: “Non dev’essere una grande vittoria, basta anche una piccola cosa”.
Da quando suo padre Lucian è morto, lei ha dedicato il suo lavoro a lui. È un modo per esplorare la loro relazione. Un rapporto che è stato sorprendente. Fino a quando aveva otto anni, Lucian, che è noto per essere il padre di almeno 14 bambini, è stato parte della sua vita. Jane era una dei quattro figli nati da Lucian e Katherine McAdam, incontrata presso il Central Saint Martins College of Art. L’inizio del loro rapporto fu in classico stile Freud: Katherine aveva vinto un concorso come la studentessa più bella dei college di Londra. Lucian pensò che fosse un suo diritto ballare con lei. Non si sposeranno mai, ma ciò è la cosa più vicina ad un rapporto regolare che il grande ritrattista abbia mai avuto.
Katherine e i loro quattro bambini avevano una casa a Paddington, mentre Lucian abitava nelle vicinanze. Era sempre in giro, quando non lo era, i ragazzi lo credevano rinchiuso nel suo studio. Tutto sembrava andar bene alla giovane Jane. I suoi genitori non hanno mai litigato, dice, ma verso la fine della loro relazione è diventato evidente che qualcosa non andava. “Ci sono stati momenti in cui mamma non lo lasciava entrare in casa. Ricordo che lui le diceva: Perché non mi lasci entrare, mami? Lei voleva allontanarsi da lui e andare avanti con la propria vita”.
Katherine, artista di talento, aveva una carriera come designer. Poi un giorno impacchetta tutto senza preavviso, e si trasferisce con i bambini a Roehampton, nel sud-ovest di Londra. Jane non vedrà suo padre fino all’età di 31 anni. “Ventitré anni!”, esclamo. Sembra stupita. “Davvero?”, dice, e li conta: “da otto a 31, sì, sono 23 anni”. Sua madre ha tolto Freud dal nome della famiglia, e dice ai suoi figli di andare avanti con la ricostruzione delle loro vite. “Quando ci siamo trasferiti, urlavo e scalciavo, assolutamente sofferente del fatto che venivo portata via”. A poco a poco, Jane ha scoperto che tipo fosse suo padre e perché sua madre aveva preso una decisione tanto drastica.
“Ricordo di aver parlato con mia madre di queste cose complicate, e lei è stata abbastanza chiara, mi diceva: Ovviamente lui è molto intenso, Jane. Non potevo vivere con lui a tempo pieno, perché non avrei avuto energia a sufficienza. Troppo intenso”. E poi c’era tutto il resto. Per sua madre il rapporto era monogamo e puro, per Lucian tutt’altro. “Mia madre non ce la faceva più. Forse erano i tradimenti, o le altre donne e gli altri bambini, suppongo”.
Per molti anni è stata Jane McAdam. Era semplice, dice: bastava negare il mio pezzo di Freud. Come Jane McAdam, scopre l’arte, frequentando il St Martins College e poi il Royal College of Art di Londra. Ha fatto un master e preso borse di studio, anche in altre parti del mondo. Oggi Jane ha 53 anni, ma da quando ne aveva 3 sa che vuole essere un’artista. Da quando ha giocato con l’acqua in una cava di sabbia e ha scoperto così la scultura. Anche se non ne conosceva ancora il nome.
Per la madre, il nome di Freud era un problema: non tanto a causa di Lucian, che quando si separarono era ancora un pittore alle prese con la propria carriera, ma per Sigmund. Katherine voleva che i suoi figli vivessero la propria vita a modo loro. Per questo, quando Jane inizia ad avere successo, si convince di non aver bisogno di niente altro. “Ero impegnata a fare il mio lavoro ed ero completamente guidata dal mio amore per l’arte”.
“Non pensavi a tuo padre in questi anni?”, le chiedo. Mi dà uno di quegli sguardi intensi, freudiani. “Beh, ho letto di lui sempre più spesso sulla stampa. Ero tormentata”. Perché? “Beh, era mio padre e nessuno lo sapeva. Immagina vivere così, era una tortura”. Perché, volevi che la gente lo sapesse? “Io no, ma volevo essere libera di essere me stessa. Volevo sentire di più colui a cui appartenevo. Per questo ho voluto rinnovare il mio rapporto con lui”. Che cosa hai provato? “Desiderio e struggimento”. Nella sua testa fantasticava sul loro incontro, dopo tutto questo tempo. Si sentiva incompleta, disonesta, confusa.
In tutti quegli anni, Lucian non fece alcun tentativo di entrare in contatto con i suoi quattro figli attraverso Katherine. Né loro cercarono di mettersi in contatto con lui. Jane dice di essere stata terrorizzata dalla paura del rifiuto.
Nel 1991, Jane si è aggiudicata il premio Libertà della Città di Londra per il suo lavoro. Per ricevere il premio ha dovuto presentare il suo certificato di nascita, incluso il nome di suo padre e la sua occupazione. Sono andati da lei e le hanno detto: “ti abbiamo scoperto!”. L’attenzione della stampa che è seguita si è dimostrata una mezza benedizione. Stranamente, Jane ha trovato più difficile ottenere mostre e provvigioni; persone che un tempo avevano amato il suo lavoro, hanno cominciato a dubitare di lei, pensando che fosse in qualche modo contaminata dal padre o raccomandata da lui. Ma dall’altra parte ciò le permette di abbracciare la sua nuova identità e riscoprire suo padre.
Decidono di incontrarsi a cena. Jane è terrorizzata, non riesce a mangiare nulla. Lui la guarda appena. Lei lo ama, ma è in soggezione. Presto capisce quel che sua madre aveva voluto dirle circa la sua intensità. “L’intensità è una cosa fantastica, esaltante, ma ti finisce”. In che modo è stato estenuante: troppo loquace o esigente? “No – risponde – erano i suoi occhi, il suo sguardo. Penetravano ogni centimetro di me. Sono caduta in preda di quel suo sguardo in cui ti potevi perdere e che cambiava costantemente. Lasciava grandi silenzi aprirsi tra le cose che diceva. Io sentivo il peso dell’attesa.” Quando hai conosciuto per la prima volta quello sguardo? “Lo conosco da sempre! Voglio dire, i miei fidanzati sono stati come delle reincarnazioni”.
Dopo quel primo incontro, Jane gli chiede di posare per lei. É l’inizio di un anno in cui si ritraggono a vicenda. Sentivi rabbia per averti abbandonata? “No, sono un po’ sognatrice e un po’ ottimista. Philip Pullman ha detto che abbiamo la responsabilità morale di essere ottimisti oltre il 50% e penso che sia vero”. Gli hai mai chiesto se avesse patito l’assenza? “Ha solo detto di non avere una vita familiare”. Sorride. Entrambi pensiamo ai 14 bambini avuti da Lucian. “E ‘un enigma, non è vero?”, conclude Jane.
“La cosa divertente – dice – è che penso che gli sarebbe piaciuto sistemarsi con una donna. Credo che fosse molto vulnerabile”. In che modo? “Non gli piaceva dire addio. E’ difficile quando sei con qualcuno e in realtà non vuole che tu vada via. L’ho avvertito forte, specialmente verso la fine. Per questo ti sentivi così importante quando eri con lui. La gente lo amava, credo, perché aveva davvero bisogno delle persone”. Si controlla. “Ma si cambia, non è vero? Un minuto prima hai bisogno di loro e quello dopo non più”.
Mentre parliamo, stiamo guardando il “trittico”. “C’è quasi una qualità rettile – mi dice Jane – è come un cobra, qualcosa che cambia pelle. Non puoi definirlo. Fai mente locala, ma poi non pensi”. La cosa che le piace di più è che ha un occhio aperto e uno chiuso, proprio come quando dipingeva.
Rientrare in contatto con il padre ha cambiato praticamente tutto nella vita di Jane. Si ritrova con 10 fratellastri e sorellastre in più. La riunione ha un effetto drammatico sui suoi fratelli: tutti e tre cambiano carriera, annunciando che da ora saranno artisti. Jane è orgogliosa di ciò che loro hanno raggiunto, ma certamente lei è in qualche modo consapevole di essere la migliore. “Ci vogliono migliaia di ore per capire chi sei e cosa stai facendo e che cosa concerne il tuo lavoro”.
Era così strano, dice, le cose che lei e suo padre hanno in comune: lo sguardo, il modo in cui stringono i pugni, in particolare quando camminano. E come artisti? Lei ci pensa un po’ e ricorda di quando a Lucian è stato chiesto quale fosse il rapporto che i suoi ritratti instauravano con i loro modelli. Lui rispondeva: “Sono loro”. Jane condivide questo desiderio di abbracciare la realtà.
Nel 2001, Jane è stato incaricata di creare un ritratto in forma di medaglia. “Gli ho chiesto: posso fare il tuo? E lui mi ha risposto: penseranno che sono vanitoso, sarebbe meglio farlo in seguito, quando avrà il senso di un memento mori. Allora pensai: non si tratta di te, ma di me e di noi insieme. Poi nel 2011, quando stava per morire, finalmente fu d’accordo”. E quando si sono sistemati per posare, hanno parlato della loro vita, passato e presente, insieme e separati.
Jane tira fuori la sua scatola del tesoro e mi mostra il suo contenuto: un ritaglio di giornale di sua madre da studente (lei è triste perchè non ha mai capito quanto fosse speciale), i suoi nonni (il figlio di Sigmund e sua moglie); lettere di suo padre nella sua incredibile grafia infantile. Poi ritira tutto, con amore e consapevolmente. Dice che le piacerebbe farmi vedere qualcosa di particolarmente speciale: fotografie di Lucian prese pochi giorni prima di morire: magro, con la barba, simile a un Cristo e non dissimile dalla maschera mortuaria di Turner.
Soltanto pochi mesi prima della morte di Lucian, avvenuta lo scorso luglio, Jane si è messa al lavoro, riproducendo le immagini di suo padre in forme diverse. Lei è contenta di avere trasformato il tutto in una mostra, ma insiste che ciò non è mai fatto parte del piano. “Non c’era nessun pensiero di esporre. Mai, neppure in un milione di anni. Era un lavoro privato, che apparteneva al processo di elaborazione del proprio lutto”. Certo lei è orgogliosa di quanto ha prodotto, ma sa che è stato un meccanismo di copiatura. Quando lui morì, lei si sentì come se un grande albero fosse stato abbattuto. “Stavo facendo del lavoro per aiutare me stessa”, dice.
20
giugno 2012
Jane McAdam Freud – Three generations
Dal 20 giugno al 31 luglio 2012
fotografia
arte contemporanea
arte contemporanea
Location
WHITELABS
Milano, Via Gerolamo Tiraboschi, 2, (Milano)
Milano, Via Gerolamo Tiraboschi, 2, (Milano)
Orario di apertura
martedì | sabato 11-13 e 14-19
Vernissage
20 Giugno 2012, ore 18 | 22 e ore 21 Incontro con Jane McAdam Freud a cura della Dott.ssa Monica Vacca Psicoanalista della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi (SLP) e Associazione mondiale di Psicoanalisi (AMP)
Autore
Curatore