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Gianni Verna – Dove osano le aquile
Mostra personale
Comunicato stampa
Segnala l'evento
DOVE OSANO LE AQUILE
xilografie di
GIANNI VERNA
In arte, è nel linguaggio incisorio, quello xilografico in particolare, che è più
evidente l’aspetto manuale, dell’azione. È nella realizzazione della matrice
di legno, quando si esplora il disegno prima, pittorico, e l’intaglio della
scultura, chiaroscurale, poi, che si accentua l’aspetto tecnico, sfiorando
ad ogni momento l’errore di lasciarlo prevalere su quello della creatività,
dell’ideazione. Forse perché ho sempre guardato a Mila, alpinista e uomo di
cultura, come ideale maestro di vita, ho spesso accomunato questo percorso
a quello di chi va in montagna. E forse perché di Gianni Verna, dopo quasi
quarant’anni di frequentazioni pacate e convulse, posso supporre di capire
l’essenza, affermo che è il metodo adottato nel suo lavoro d’artista.
Non appaia desueto quindi l’uso della parola lavoro affiancata a quella
di artista. Oggi si è infatti malauguratamente giunti a una diade dove alla
esaltazione dell’idea, arte come copyright, si contrappone il mestiere, arte
come artigianato.
Da qui l’iperbole dell’apparenza, di là la prepotenza dell’oggetto.
L’artista contemporaneo è quindi costretto a scegliersi a priori, in un’antitesi
artificiosa, il campo di gioco. Sarà concettuale, attribuendo in una ibridazione
del linguaggio a un oggetto preesistente un suo significato personale,
donandogli vita “altra”, indipendentemente dal suo corpo sensibile esterno.
Oppure si impegnerà, con una faticosa vicenda di lavoro, all’esecuzione
concreta del proprio manufatto; dando vita a una nuova forma, che resterà
sempre ed unicamente definita nella sua realtà fisica come opera d’arte. Luigi
Pareyson in una sintesi di straordinaria chiarezza spiegò che «L’opera d’arte
è espressiva in quanto è “forma”», cioè «organismo che vive per conto suo
e contiene tutto ciò che deve avere». L’opera d’arte esige quindi di essere
realizzata, in un senso intensivo, un processo assoluto per cui, proprio
perché non è esecuzione di qualcosa già stabilito con regole predisposte,
si può bene chiamarla invenzione; nobilitandone l’aspetto produttivo con
l’accostamento dell’attività spirituale a quello della realizzazione manuale.
È il percorso di Verna nella xilografia.
Cercare un legno, partire dall’essenza, dal tronco. Farlo tagliare, levigarlo,
dimensionarlo in tavolette da incidere. Scavare, raspare, spazzolare,
pettinare. Una tavola per ogni colore: il giallo-il rosso-il blu. Spalmarvi gli
inchiostri, appoggiarvi su la carta, a tino, a mano, misumi a fibra lunga e
imprimerle in successione, legno dopo legno, sullo stesso foglio per fondervi
i colori con lo sforzo della pressione. Aggiungere per una, togliere nell’altra,
rattoppare uno squarcio nella terza, riempire l’incavo di troppo, artigliare un
piano per dargli maggior vibrazione. Calcolare la tonalità che deriva dalla
mescola dei pigmenti primari che si scaldano sotto il torchio per creare verdi
bottiglia, viola e marroni, garanza e gerani, fucsia e aranciati e rosa e terre
bruciate. È come aprire un sentiero, tracciare una via di salita, segnare una
pista. Rinnovare, fare rinascere quello che era stato dimenticato, lasciato in
disparte, trascurato e vilipeso perché troppo arduo, perché passato di moda.
Ci puoi entrare, percorrerli, i suoi legni: dalla valle, ampia, su, per prati e
sentieri, rocce e seracchi, su, per cenge e bivacchi e creste e strapiombi,
ancora oltre, su, fino alla vetta che buca il cielo, dove si rifrange il vento che
culla i cristalli della tormenta.
Verna è artista da sempre.
Cinquantacinque anni fa il suo esordio, in quella che si chiamava Libreria
Petrini, in corso Francia a Torino, dove fu premiato quindicenne ad un
concorso per giovani artisti. Il suo quadro fece esprimere ad Angelo Dragone
un apprezzamento tanto sintetico quanto efficace: «Vivo senso del colore».
Un giudizio scarno, che sarebbe anche potuto sembrare di circostanza, e che
ha accompagnato come un viatico Gianni, lo ha incoraggiato nei momenti bui,
lo ha spinto a dar vita iridea alle sue incisioni, sfidando l’opinione corrente,
perseguita anche da Dragone in questo caso un po’ incoerente, che voleva e
ancora ahimè vuole le stampe piccole e in bianco e nero. Per conservarle in
cartella, e lasciarle morire asfittiche, dimenticate in un cassetto.
Il perseguire con caparbia pervicacia questo linguaggio è suo merito
precipuo, e lo ha portato ad essere il capofila degli xilografi oggi attivi
in Italia. “Linguaggio” silografico, sia ben chiaro, non tecnica. Perché la
xilografia non è soltanto tecnica - e così si dica per ogni altra forma d’arte -
ma espressione completa di una forma che deriva dall’intaglio stampato con
una matrice incisa e inchiostrata sul rilievo.
Quale sia il suo lavoro per la preparazione della matrice lo dichiarano i
legni che è solito esporre accanto ai fogli che ne derivano. La sua azione
è parallela a quella dello scultore. In mettere e in levare, perché ciò che
il legno non ha avuto da madre natura è compito dell’artista fornirlo. Così
l’intervento delle sgorbie e degli scalpelli si bilancia con quello degli stucchi e
dei tasselli, a complementare e correggere, a sostenere e smagrire, a creare
e distruggere. Non si tratta più, nell’era della riproduzione meccanica, di
riportare sulla tavola un disegno, di togliere i bianchi e risparmiare gli scuri, di
seguire come monocoli una traccia per perseguire la mimesi. Bensì di creare
sulla tavola il disegno da moltiplicare attraverso tutti i mezzi che un incisore
oggi ha a disposizione, senza escludere il trapano grosso del falegname e
quello fino del dentista, per non dire di frese e dischi flessibili, di spazzole e
raspe, di grattugie e punte dentate.
Per coprire di scaglie le loriche di un coccodrillo e definire il timone e le
remiganti di uno sparviero, pettinare le pelli di un orso e dar impeto alle
corna dello stambecco, aguzzare le spine di un istrice e levigare il rostro del
gipeto. Ma anche di indagare tra le elitre dello scarabeo e carezzare le ali
della farfalla, distendere le dita di un ranocchio e la spirale della coda del
topo, lucidare la pelliccia di una marmotta e profumare la corolla di un fiore. O
ancora competere con la memoria dei colleghi antichi a intagliar motti e versi
su ben lisciate tabelle, per farne le pagine di libri raffinati.
Verna è tutto questo, pensiero e azione che si accavallano senza quartiere,
ora sfiorando il cielo della perfezione ora sprofondando nell’abisso dell’errore,
ma sempre restando vigile sulla rotta della qualità, da non tradire a nessun
costo.
Perché arte - è il succo del discorso da ripetere e ribadire - significa lavoro di
testa e di mano. E in fin dei conti, così sapeva Flaubert, è ancora il lavoro il
mezzo migliore per far arte.
Gianfranco Schialvino
xilografie di
GIANNI VERNA
In arte, è nel linguaggio incisorio, quello xilografico in particolare, che è più
evidente l’aspetto manuale, dell’azione. È nella realizzazione della matrice
di legno, quando si esplora il disegno prima, pittorico, e l’intaglio della
scultura, chiaroscurale, poi, che si accentua l’aspetto tecnico, sfiorando
ad ogni momento l’errore di lasciarlo prevalere su quello della creatività,
dell’ideazione. Forse perché ho sempre guardato a Mila, alpinista e uomo di
cultura, come ideale maestro di vita, ho spesso accomunato questo percorso
a quello di chi va in montagna. E forse perché di Gianni Verna, dopo quasi
quarant’anni di frequentazioni pacate e convulse, posso supporre di capire
l’essenza, affermo che è il metodo adottato nel suo lavoro d’artista.
Non appaia desueto quindi l’uso della parola lavoro affiancata a quella
di artista. Oggi si è infatti malauguratamente giunti a una diade dove alla
esaltazione dell’idea, arte come copyright, si contrappone il mestiere, arte
come artigianato.
Da qui l’iperbole dell’apparenza, di là la prepotenza dell’oggetto.
L’artista contemporaneo è quindi costretto a scegliersi a priori, in un’antitesi
artificiosa, il campo di gioco. Sarà concettuale, attribuendo in una ibridazione
del linguaggio a un oggetto preesistente un suo significato personale,
donandogli vita “altra”, indipendentemente dal suo corpo sensibile esterno.
Oppure si impegnerà, con una faticosa vicenda di lavoro, all’esecuzione
concreta del proprio manufatto; dando vita a una nuova forma, che resterà
sempre ed unicamente definita nella sua realtà fisica come opera d’arte. Luigi
Pareyson in una sintesi di straordinaria chiarezza spiegò che «L’opera d’arte
è espressiva in quanto è “forma”», cioè «organismo che vive per conto suo
e contiene tutto ciò che deve avere». L’opera d’arte esige quindi di essere
realizzata, in un senso intensivo, un processo assoluto per cui, proprio
perché non è esecuzione di qualcosa già stabilito con regole predisposte,
si può bene chiamarla invenzione; nobilitandone l’aspetto produttivo con
l’accostamento dell’attività spirituale a quello della realizzazione manuale.
È il percorso di Verna nella xilografia.
Cercare un legno, partire dall’essenza, dal tronco. Farlo tagliare, levigarlo,
dimensionarlo in tavolette da incidere. Scavare, raspare, spazzolare,
pettinare. Una tavola per ogni colore: il giallo-il rosso-il blu. Spalmarvi gli
inchiostri, appoggiarvi su la carta, a tino, a mano, misumi a fibra lunga e
imprimerle in successione, legno dopo legno, sullo stesso foglio per fondervi
i colori con lo sforzo della pressione. Aggiungere per una, togliere nell’altra,
rattoppare uno squarcio nella terza, riempire l’incavo di troppo, artigliare un
piano per dargli maggior vibrazione. Calcolare la tonalità che deriva dalla
mescola dei pigmenti primari che si scaldano sotto il torchio per creare verdi
bottiglia, viola e marroni, garanza e gerani, fucsia e aranciati e rosa e terre
bruciate. È come aprire un sentiero, tracciare una via di salita, segnare una
pista. Rinnovare, fare rinascere quello che era stato dimenticato, lasciato in
disparte, trascurato e vilipeso perché troppo arduo, perché passato di moda.
Ci puoi entrare, percorrerli, i suoi legni: dalla valle, ampia, su, per prati e
sentieri, rocce e seracchi, su, per cenge e bivacchi e creste e strapiombi,
ancora oltre, su, fino alla vetta che buca il cielo, dove si rifrange il vento che
culla i cristalli della tormenta.
Verna è artista da sempre.
Cinquantacinque anni fa il suo esordio, in quella che si chiamava Libreria
Petrini, in corso Francia a Torino, dove fu premiato quindicenne ad un
concorso per giovani artisti. Il suo quadro fece esprimere ad Angelo Dragone
un apprezzamento tanto sintetico quanto efficace: «Vivo senso del colore».
Un giudizio scarno, che sarebbe anche potuto sembrare di circostanza, e che
ha accompagnato come un viatico Gianni, lo ha incoraggiato nei momenti bui,
lo ha spinto a dar vita iridea alle sue incisioni, sfidando l’opinione corrente,
perseguita anche da Dragone in questo caso un po’ incoerente, che voleva e
ancora ahimè vuole le stampe piccole e in bianco e nero. Per conservarle in
cartella, e lasciarle morire asfittiche, dimenticate in un cassetto.
Il perseguire con caparbia pervicacia questo linguaggio è suo merito
precipuo, e lo ha portato ad essere il capofila degli xilografi oggi attivi
in Italia. “Linguaggio” silografico, sia ben chiaro, non tecnica. Perché la
xilografia non è soltanto tecnica - e così si dica per ogni altra forma d’arte -
ma espressione completa di una forma che deriva dall’intaglio stampato con
una matrice incisa e inchiostrata sul rilievo.
Quale sia il suo lavoro per la preparazione della matrice lo dichiarano i
legni che è solito esporre accanto ai fogli che ne derivano. La sua azione
è parallela a quella dello scultore. In mettere e in levare, perché ciò che
il legno non ha avuto da madre natura è compito dell’artista fornirlo. Così
l’intervento delle sgorbie e degli scalpelli si bilancia con quello degli stucchi e
dei tasselli, a complementare e correggere, a sostenere e smagrire, a creare
e distruggere. Non si tratta più, nell’era della riproduzione meccanica, di
riportare sulla tavola un disegno, di togliere i bianchi e risparmiare gli scuri, di
seguire come monocoli una traccia per perseguire la mimesi. Bensì di creare
sulla tavola il disegno da moltiplicare attraverso tutti i mezzi che un incisore
oggi ha a disposizione, senza escludere il trapano grosso del falegname e
quello fino del dentista, per non dire di frese e dischi flessibili, di spazzole e
raspe, di grattugie e punte dentate.
Per coprire di scaglie le loriche di un coccodrillo e definire il timone e le
remiganti di uno sparviero, pettinare le pelli di un orso e dar impeto alle
corna dello stambecco, aguzzare le spine di un istrice e levigare il rostro del
gipeto. Ma anche di indagare tra le elitre dello scarabeo e carezzare le ali
della farfalla, distendere le dita di un ranocchio e la spirale della coda del
topo, lucidare la pelliccia di una marmotta e profumare la corolla di un fiore. O
ancora competere con la memoria dei colleghi antichi a intagliar motti e versi
su ben lisciate tabelle, per farne le pagine di libri raffinati.
Verna è tutto questo, pensiero e azione che si accavallano senza quartiere,
ora sfiorando il cielo della perfezione ora sprofondando nell’abisso dell’errore,
ma sempre restando vigile sulla rotta della qualità, da non tradire a nessun
costo.
Perché arte - è il succo del discorso da ripetere e ribadire - significa lavoro di
testa e di mano. E in fin dei conti, così sapeva Flaubert, è ancora il lavoro il
mezzo migliore per far arte.
Gianfranco Schialvino
12
maggio 2012
Gianni Verna – Dove osano le aquile
Dal 12 maggio al 09 giugno 2012
disegno e grafica
Location
GALLERIA IL QUADRATO
Chieri, Via Della Pace, 8, (Torino)
Chieri, Via Della Pace, 8, (Torino)
Orario di apertura
dal martedì al sabato dalle 16,30 alle 19,00
Vernissage
12 Maggio 2012, ore 18
Autore