Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Giovanni Albore – Deadline
“Deadline” è il disegno di un pianeta fatto a pezzi dallo svuotamento del tempo e dai processi collettivi di una società a scadenza. Linee di confine, “linee della morte”, su cui si proiettano i presagi più o meno apocalittici di un’era globale in perenne stato di allerta.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Giovanni Albore – Deadline
Testo critico a cura di Roberto Lacarbonara
L’Estetica della sparizione di Paul Virilio comincia alla maniera di una sceneggiatura neorealista con il profilo psicologico instabile di un protagonista assai poco lucido. È la scena di un personaggio “picnolettico”, infermo a causa di sonni repentini e brevi crisi di attenzione; un atteggiamento soggettivo – ma ben rappresentativo del modello occidentale – che si attesta nella percezione di colui per il quale “non è successo nulla, il tempo assente non è esistito: ad ogni crisi, senza che egli se ne accorga, gli sfugge un poco della sua durata".
C’è tutto un “modello di mondo” dietro a questo gioco sul vuoto di coscienza, sul buio cognitivo e all’interno di un regime dell’assenza entro cui stanno le ciniche logiche della società di massa. E questo modello prevede, come unico scopo fondamentale e perseguibile, l’“eliminazione del mondo presente”.
“Deadline” è il disegno di un pianeta fatto a pezzi dallo svuotamento del tempo e dai processi collettivi di una società a scadenza. Linee di confine, letteralmente “linee della morte”, su cui si proiettano i presagi più o meno apocalittici di un era globale in perenne stato di allerta. E su tutte giganteggia inqueta l’ossessione energetica.
Giovanni Albore, artista che si muove agilmente tra una fotografia documentale ed un immaginario iporealista, invade nottetempo le imponenti stazioni di servizio della propria città, i grandi monumenti dedicati all’energia, quelli che i guardiani di notte hanno imparato a chiamare “obiettivi sensibili”. E la prima sensazione che ne viene è l’impossibile riconoscibilità urbanistica dei suoi oggetti di indagine; le gas stations baresi e quelle di New Delhi sono identiche, tanto vale stare a casa: pena e virtù di una globalizzazione prêt-à-porter.
La diffusa minaccia di una fine, perfettamente sovrapponibile a quella che vede restringersi inesorabilmente le risorse petrolifere planetarie, muove l’artista a tracciare ironicamente le coordinate di una “topologia della sparizione” ipotizzando uno sguardo rivolto all’indietro a partire da un futuro in cui la magnificenza delle aree di sosta carburante possa essere intesa per un carattere quasi “archeologico”. Forse si tratterà, in un futuro prossimo, di spazi su cui qualche risoluta lottizzazione imboccherà la strada della riconversione ad area verde. O forse, per effetto di una picnolessia collettiva, sarà tutto come prima, solo con liquidi diversi in serbatoio.
L’opera di Albore si inserisce in una già documentabile tradizione visuale legata alla perlustrazione della strada, ai paesaggi urbani delocalizzati, alla “fotografia democratica” di William Eggleston o agli ibridi insite-outside di Edward Hopper (di cui l’artista pugliese eredita e riedita l’antipaesaggismo dell’opera Gas station, 1940). Ma, ancora di più, gli scatti fotografici di “Deadline” generano dinamiche percettive calate nel solco della prepotente cinematografia americana: dai percorsi attraversati da Wim Wenders nella cosiddetta trilogia della strada (Alice nelle città, Falso movimento, Nel corso del tempo) alle inquietanti aree di sosta di Thelma e Louise (Ridley Scott); dai garage di A qualcuno piace caldo (Billy Wilder ) ai tragitti perdifiato di Easy Rider (Denis Hopper).
Vi è tuttavia una singolarissima scrittura estetica che rende il lavoro di Giovanni Albore stridente, estraneo a molte connotazioni o intuizioni paratestuali. Si tratta di un carattere fotografico impietosamente ingessato, freddo, decisamente antinarrativo. Ancora una volta è il cinema di Godard, Scorsese o Wenders a risultare efficace per avvicinare il carattere “anestetico” dell’opera, la sua distanza bipolare dall’effetto drammatico. L’artista opera nell’isolamento dell’oggetto, sia attraverso la disantropizzazione degli spazi, sia ricorrendo ad una quadratura focale in grado di estrarre dal nero e dal vuoto l’oggetto della visione. L’esito è un lavoro che Roland Barthes ammonirebbe per lo squilibrio timico a tutto vantaggio dello studium, di una visione priva di temperatura emotiva, distaccata. L’artista - nello svelamento del suo approccio di serial murder del medium fotografico - non concede turbamenti, asseconda la matrice elettrica che domina le immagini per via della evidente e onnipresente ipertrofia di luce bianca. E questa costruzione è sempre annessa ad una teoria di assenze e di interruzioni, di esilio cognitivo ed emotivo.
Percorrono questa strada anche i due piccoli interventi di installazione e video che Albore introduce nello spazio espositivo. La teca con i flaconi di carburante (totem destinato a conservazione sterile e asettica) e lo schermo che trasmette – per intero – il film Interceptor. Il guerriero della strada (George Miller): una soluzione cui l’artista affida la sola possibilità di testualità al pari di una citazione inattingibile. Il film in questione è ambientato in un futuro di probabile evocazione, dove sono i caratteri della violenza e della sopraffazione a dominare la strada e la convivenza sociale.
Una deriva che serve all’artista per innescare questa ipotesi a ritroso lungo la visione di quello che resta, di quello che accade dopo la prossima prevedibile e incombente scadenza, imposta da logiche di profitto e produzione.
Vi è infine una ulteriore piega semantica della ricerca di Giovanni Albore. È un riferimento a quanto la costruzione di una iconografia contemporanea, quale quella proposta dall’artista stesso, sia imprescindibilmente legata al carattere della transizione, della accelerazione e del consumo, e forse anche ad una sorta di nomadismo in cui la macchina e la strada possono anche portare l’individuo a riappropriarsi di una esperienza spesso dematerializzata e inconcreta. In questo senso Albore dichiara l’esigenza di una mappatura del territorio basata sulle stazioni di rifornimento: quasi a mantenere il controllo di un sistema di sicurezza in grado di garantire la continuità tra le tappe di percorrimento. Va inteso, tuttavia, che il nomade – nella vivace accezione di Guy Debord – non è necessariamente colui che si muove: esistono anche viaggi all’interno di uno spazio statico, viaggi di intensità emotiva, senza l’esigenza del migrare ma attraverso un nomadismo svolto sul posto, senza farsi inghiottire dal posto, dai suoi codici, dalle sue preposte stazioni.
Testo critico a cura di Roberto Lacarbonara
L’Estetica della sparizione di Paul Virilio comincia alla maniera di una sceneggiatura neorealista con il profilo psicologico instabile di un protagonista assai poco lucido. È la scena di un personaggio “picnolettico”, infermo a causa di sonni repentini e brevi crisi di attenzione; un atteggiamento soggettivo – ma ben rappresentativo del modello occidentale – che si attesta nella percezione di colui per il quale “non è successo nulla, il tempo assente non è esistito: ad ogni crisi, senza che egli se ne accorga, gli sfugge un poco della sua durata".
C’è tutto un “modello di mondo” dietro a questo gioco sul vuoto di coscienza, sul buio cognitivo e all’interno di un regime dell’assenza entro cui stanno le ciniche logiche della società di massa. E questo modello prevede, come unico scopo fondamentale e perseguibile, l’“eliminazione del mondo presente”.
“Deadline” è il disegno di un pianeta fatto a pezzi dallo svuotamento del tempo e dai processi collettivi di una società a scadenza. Linee di confine, letteralmente “linee della morte”, su cui si proiettano i presagi più o meno apocalittici di un era globale in perenne stato di allerta. E su tutte giganteggia inqueta l’ossessione energetica.
Giovanni Albore, artista che si muove agilmente tra una fotografia documentale ed un immaginario iporealista, invade nottetempo le imponenti stazioni di servizio della propria città, i grandi monumenti dedicati all’energia, quelli che i guardiani di notte hanno imparato a chiamare “obiettivi sensibili”. E la prima sensazione che ne viene è l’impossibile riconoscibilità urbanistica dei suoi oggetti di indagine; le gas stations baresi e quelle di New Delhi sono identiche, tanto vale stare a casa: pena e virtù di una globalizzazione prêt-à-porter.
La diffusa minaccia di una fine, perfettamente sovrapponibile a quella che vede restringersi inesorabilmente le risorse petrolifere planetarie, muove l’artista a tracciare ironicamente le coordinate di una “topologia della sparizione” ipotizzando uno sguardo rivolto all’indietro a partire da un futuro in cui la magnificenza delle aree di sosta carburante possa essere intesa per un carattere quasi “archeologico”. Forse si tratterà, in un futuro prossimo, di spazi su cui qualche risoluta lottizzazione imboccherà la strada della riconversione ad area verde. O forse, per effetto di una picnolessia collettiva, sarà tutto come prima, solo con liquidi diversi in serbatoio.
L’opera di Albore si inserisce in una già documentabile tradizione visuale legata alla perlustrazione della strada, ai paesaggi urbani delocalizzati, alla “fotografia democratica” di William Eggleston o agli ibridi insite-outside di Edward Hopper (di cui l’artista pugliese eredita e riedita l’antipaesaggismo dell’opera Gas station, 1940). Ma, ancora di più, gli scatti fotografici di “Deadline” generano dinamiche percettive calate nel solco della prepotente cinematografia americana: dai percorsi attraversati da Wim Wenders nella cosiddetta trilogia della strada (Alice nelle città, Falso movimento, Nel corso del tempo) alle inquietanti aree di sosta di Thelma e Louise (Ridley Scott); dai garage di A qualcuno piace caldo (Billy Wilder ) ai tragitti perdifiato di Easy Rider (Denis Hopper).
Vi è tuttavia una singolarissima scrittura estetica che rende il lavoro di Giovanni Albore stridente, estraneo a molte connotazioni o intuizioni paratestuali. Si tratta di un carattere fotografico impietosamente ingessato, freddo, decisamente antinarrativo. Ancora una volta è il cinema di Godard, Scorsese o Wenders a risultare efficace per avvicinare il carattere “anestetico” dell’opera, la sua distanza bipolare dall’effetto drammatico. L’artista opera nell’isolamento dell’oggetto, sia attraverso la disantropizzazione degli spazi, sia ricorrendo ad una quadratura focale in grado di estrarre dal nero e dal vuoto l’oggetto della visione. L’esito è un lavoro che Roland Barthes ammonirebbe per lo squilibrio timico a tutto vantaggio dello studium, di una visione priva di temperatura emotiva, distaccata. L’artista - nello svelamento del suo approccio di serial murder del medium fotografico - non concede turbamenti, asseconda la matrice elettrica che domina le immagini per via della evidente e onnipresente ipertrofia di luce bianca. E questa costruzione è sempre annessa ad una teoria di assenze e di interruzioni, di esilio cognitivo ed emotivo.
Percorrono questa strada anche i due piccoli interventi di installazione e video che Albore introduce nello spazio espositivo. La teca con i flaconi di carburante (totem destinato a conservazione sterile e asettica) e lo schermo che trasmette – per intero – il film Interceptor. Il guerriero della strada (George Miller): una soluzione cui l’artista affida la sola possibilità di testualità al pari di una citazione inattingibile. Il film in questione è ambientato in un futuro di probabile evocazione, dove sono i caratteri della violenza e della sopraffazione a dominare la strada e la convivenza sociale.
Una deriva che serve all’artista per innescare questa ipotesi a ritroso lungo la visione di quello che resta, di quello che accade dopo la prossima prevedibile e incombente scadenza, imposta da logiche di profitto e produzione.
Vi è infine una ulteriore piega semantica della ricerca di Giovanni Albore. È un riferimento a quanto la costruzione di una iconografia contemporanea, quale quella proposta dall’artista stesso, sia imprescindibilmente legata al carattere della transizione, della accelerazione e del consumo, e forse anche ad una sorta di nomadismo in cui la macchina e la strada possono anche portare l’individuo a riappropriarsi di una esperienza spesso dematerializzata e inconcreta. In questo senso Albore dichiara l’esigenza di una mappatura del territorio basata sulle stazioni di rifornimento: quasi a mantenere il controllo di un sistema di sicurezza in grado di garantire la continuità tra le tappe di percorrimento. Va inteso, tuttavia, che il nomade – nella vivace accezione di Guy Debord – non è necessariamente colui che si muove: esistono anche viaggi all’interno di uno spazio statico, viaggi di intensità emotiva, senza l’esigenza del migrare ma attraverso un nomadismo svolto sul posto, senza farsi inghiottire dal posto, dai suoi codici, dalle sue preposte stazioni.
13
aprile 2012
Giovanni Albore – Deadline
Dal 13 aprile al 04 maggio 2012
arte contemporanea
Location
FORMAQUATTRO
Bari, Via Argiro, 73, (Bari)
Bari, Via Argiro, 73, (Bari)
Vernissage
13 Aprile 2012, h 19
Autore
Curatore