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Pigi Contin – La Impressione del colore
Un’entusiasmante viaggio alla scoperta dei colori e dei mille volti della Mongolia.
Comunicato stampa
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La storia dell’arte.
Tra le tante immagini che possono evocarla mi viene in mente quella di un fiume. Un fiume lunghissimo, sgorgato dalle volte di una spelonca tappezzata di mani nascosta nella notte dei tempi il quale, da allora, non ha mai conosciuto le insidie della siccità. Perché anche nei momenti più difficili c’è sempre stato qualche “rabdomante illuminato“ che, con il bastoncino del suo genio, ha scoperto una sorgente nuova che lo alimentasse.
Gli esiti che la speculazione artistica ha partorito negli ultimi anni sono quanto di più logico, penso, ci si potesse aspettare da un processo di rinnovamento che, ultima propaggine di quella storia, posa le sue radici, grossomodo, nello studio del signor Nadar e da quegli altari non ha più avuto soluzione di continuità. Contestualmente, la ricerca scientifica, pigiando il piede sull’acceleratore, ci ha proiettati nel terzo millennio sulle ali inesauste di un processo di sviluppo della società che coinvolge ogni aspetto della nostra vita e al quale anche l’arte, com’era prevedibile, doveva pagare il suo tributo. Così è stato.
Naturalmente, non spetta a me valutare la portata di questo rinnovamento, soprattutto per quanto riguarda i suoi risvolti più recenti - l’incoronazione del “sublime tecnologico“, del resto, è sotto gli occhi di tutti.
Il punto è proprio questo: come sia cambiato il concetto di fare arte dipendentemente dalle variabili che fanno capo a un’idea, al mezzo che si è scelto per esprimerla, al luogo dove, secondo le circostanze, avviene il contatto con il pubblico (elemento che ha ottenuto una netta rivalutazione), nonché al ruolo che si intenda far giocare a quest’ultimo laddove la sua funzione “fruitrice“ è ormai universalmente riconosciuta. Fatta salva l’idea, il che attiene alla libertà di ognuno di pensarla un po’ come vuole, il nocciolo della discussione si è spostato soprattutto sul medium in cui si sostanzia quell’idea rispetto ad un sistema museale-galleristico del tutto nuovo; un sistema in cui il pubblico possa trovare le situazioni ambientali e psicologiche migliori per valersi pienamente della sua nuova posizione.
Ma vorrei entrare brevemente nel merito di questo concetto.
Secondo me, il perno attorno al quale gira la chiave di lettura di ogni possibile considerazione al riguardo è dato dal binomio “arte-cultura“. La nuova speculazione teorica tende al superamento di quell’arte che, ancora negli anni più recenti, si sostanziava nell’uso delle cosiddette “vecchie tecniche“ (penso, per esempio, alla Transavanguardia), spostando l’ago della bilancia sull’aspetto dialogico con il pubblico in una operazione di convergenze parallele artista, opera, spettatore-fruitore che avvengono all’interno di uno spazio-galleria-museo di tipo relazionale in cui chi vi accede, interagendo attivamente con l’opera, molto spesso trovandocisi coinvolto con il suo stesso corpo, si pone in relazione simmetrica con essa, supera le difficoltà del rapporto arte-cultura di tipo tradizionale e crea cultura egli stesso. Molto bene: il dettato Duchampiano è rispettato.
Ma cosa dire delle trame concettuali sempre più sofisticate e sottili – a volte imperscrutabili – che reggono l’impalcatura di performances, installazioni, video-proiezioni e chi più ne ha più ne metta, le quali sembrano appartenere sempre più ad una ristretta elite culturale di cui i soliti “addetti ai lavori“, a cominciare da alcuni artisti ben affermati per finire con onnipresenti curatori, sono la punta di diamante? E il pubblico? Non sembra esso letteralmente preso di mira da un bombardamento pubblicitario sapientemente mirato, che quasi lo obbliga a smarrirsi nei meandri di opere per la maggior parte incomprensibili assistendo, nel migliore dei casi divertito, all’ennesimo scandalo, spesso con buona pace delle istituzioni che hanno dato all’evento il loro interessato imprimatur - essendo esse stesse, paradossalmente, le vittime sacrificali di quel che sponsorizzano? Per non parlare di quel fertilissimo terreno in cui affonda ormai saldamente le sue radici l’arte che dipende dall’uso del computer, le cui potenzialità sono inimmaginabili.
Ebbene, si può fare arte in tanti modi, spinti dalle motivazioni più diverse, abbracciando le più diverse cause e benedetto sia ogni mezzo che lo consente. Ma l’esaltazione dello spettatore-fruitore su cui tanto si punta non rischia di essere l’elemento debole della catena creativa se, come spesso accade, quest’ultima diventa fine a se stessa al solo scopo di riempire le tasche di accortissimi organizzatori? In questo modo, il processo della comunicazione delle idee, così sapientemente forzato, non viene messo a repentaglio proprio nel momento dell’approccio all’opera da parte del pubblico? E contestualmente, il carattere della cosiddetta neutralità dell’opera d’arte non risulta essere una discriminante talmente forte da eclissare ogni altro dato di pregio dell’opera stessa - mentre rappresenta, a mio modo di vedere, un peso inopportuno che non giova e, anzi, toglie ossigeno all’agone del confronto culturale?
Forse, nel delicato gioco degli equilibri tra le varie componenti che concorrono a determinare il valore di un’opera d’arte quel confronto, sotto l’egida di un filone d’avanguardia coreograficamente irreprensibile, rischia di farla (s)cadere irreparabilmente nell’imbuto senza fondo di quell’omologazione di marca che un certo sistema mistificante sta formalmente sempre più legittimando, trasformando la sostanza della protesta in quell’agire “politically correct“ che si voleva, invece, contestare. D’altra parte, negato il valore espressivo della rappresentazione perché ritenuto a priori fuorviante, la sintassi del procedimento operativo su cui si reggeva l’impianto della narrazione non avrebbe più ragion d’essere. Come non pensare alle conseguenze estreme che l’arte raggiunse, negli anni sessanta, con l’emergere delle posizioni minimaliste e concettualiste. E tuttavia, naturalmente, fare arte non è, o meglio, non è diventato solamente produzione dell’inutile. Quanti artisti, pur agendo nell’ambito della sperimentazione d’avanguardia, sono rimasti immuni dalla tentazione della facile provocazione fine a se stessa e, liberandosi dalle lusinghe di certa produzione “alla moda“ che privilegia la regola dello scandalo a tutti i costi, hanno costruito le loro opere sulla spina dorsale di un’idea forte che si candida come referente legittimo del dibattito culturale. Muovendosi nell’ottica di questo aggiustamento del metro di valutazione dei ruoli all’interno del processo di produzione artistica l’uomo, prima ancora dell’artista, si (ri)appropria di una centralità niente affatto accidentale che gli compete, da quando ha intrapreso il suo cammino nel mondo, come carattere intimo della sua natura di animale pensante che lo distingue da ogni altro essere vivente e di cui non può disfarsi, per dirla tutta, nemmeno quando agisce con i mezzi dell’arte. Ogni qual volta l’uomo si è dimenticato di questa sua peculiarità e, soprattutto, delle responsabilità che essa comporta, l’equilibrio delicatissimo che regge le sorti della vita sulla terra ne ha sofferto; a tal punto che, oggi, la nostra stessa sopravvivenza dipende in gran parte dalla presa di coscienza di quelle stesse responsabilità. Ma farsene carico non è facile. Specialmente se, indossando un casco e un paio di guanti collegati al computer, ci si può magicamente disfare dell’ingombrante impiccio gravitazionale gettandosi alle spalle la dura realtà di tutti i giorni pensando che ci sarà sempre qualcun altro a cui essa, prima o poi, farà pagare il conto. Ascoltando Milan Kundera, “…la realtà per l’uomo d’oggi è una terra sempre meno frequentata, e del resto a buon diritto non amata,…(dove) i risultati dei sondaggi sono diventati una sorta di realtà superiore, oppure,…sono diventati la verità…”; mentre il paradosso della modernità a tutti i costi rischia di trasformarci in tanti “…alleati dei nostri becchini.”. Chissà se, oggi, l’entusiasmo che Fontana aveva per il mezzo televisivo sarebbe vivo come allora?
Temo che la scena asettica che ci propone (o ci impone!) il Cyberspazio rischi di eliminare definitivamente, tra le pieghe necessariamente virtuali dei suoi orizzonti, la sacrosanta fatalità dell’errore umano sulla cui consapevolezza si fonda, probabilmente, gran parte della nostra evoluzione. E mentre i paesi del ricco Occidente si crogiolano sulla punta assolata dell’iceberg sognando il benessere eterno, sotto il livello dell’acqua il resto del pianeta rischia di colare a picco, schiacciato dalle problematiche sempre più urgenti che riguardano la sopravvivenza dell’umanità intera.
Alla luce di queste riflessioni, l’uso delle tecniche artistiche tradizionali può reclamare con forza la propria attualità sconfessando una volta per tutte quelli che, forse un po’ troppo sbrigativamente, le avevano già date per morte e sepolte. Quelli che, concentrati nello sforzo di perfezionare la macchina, scherniscono chi ancora perde il suo tempo a coltivare il grano.
Forse, lanciare nello stagno delle certezze che la cosiddetta “società civile” si è creata negli ultimi lustri il sasso del dubbio potrebbe ridare ossigeno all’acqua di silicio dell’utopia futuribile in cui essa sta così pericolosamente navigando!
All’uomo che immerge le mani nella materia infetta che cresce nei non-luoghi della città globale sia concesso il privilegio di ascoltare gli echi del crollo imminente; toccando le macerie di quel che resta della natura, possa egli scorgere il sangue uscire a fiotti dalla carne vessata degli esseri viventi ed annusare, esausto, l’aria del nuovo millennio alla ricerca di una speranza, di un segno che gli dia la forza di sopravvivere a se stesso. Ci sono ancora troppe risposte acquattate nel grembo della madre terra per permettersi il lusso di ignorarle, o per essere talmente sciocchi da deriderle…
“Pigi” Contin
Tra le tante immagini che possono evocarla mi viene in mente quella di un fiume. Un fiume lunghissimo, sgorgato dalle volte di una spelonca tappezzata di mani nascosta nella notte dei tempi il quale, da allora, non ha mai conosciuto le insidie della siccità. Perché anche nei momenti più difficili c’è sempre stato qualche “rabdomante illuminato“ che, con il bastoncino del suo genio, ha scoperto una sorgente nuova che lo alimentasse.
Gli esiti che la speculazione artistica ha partorito negli ultimi anni sono quanto di più logico, penso, ci si potesse aspettare da un processo di rinnovamento che, ultima propaggine di quella storia, posa le sue radici, grossomodo, nello studio del signor Nadar e da quegli altari non ha più avuto soluzione di continuità. Contestualmente, la ricerca scientifica, pigiando il piede sull’acceleratore, ci ha proiettati nel terzo millennio sulle ali inesauste di un processo di sviluppo della società che coinvolge ogni aspetto della nostra vita e al quale anche l’arte, com’era prevedibile, doveva pagare il suo tributo. Così è stato.
Naturalmente, non spetta a me valutare la portata di questo rinnovamento, soprattutto per quanto riguarda i suoi risvolti più recenti - l’incoronazione del “sublime tecnologico“, del resto, è sotto gli occhi di tutti.
Il punto è proprio questo: come sia cambiato il concetto di fare arte dipendentemente dalle variabili che fanno capo a un’idea, al mezzo che si è scelto per esprimerla, al luogo dove, secondo le circostanze, avviene il contatto con il pubblico (elemento che ha ottenuto una netta rivalutazione), nonché al ruolo che si intenda far giocare a quest’ultimo laddove la sua funzione “fruitrice“ è ormai universalmente riconosciuta. Fatta salva l’idea, il che attiene alla libertà di ognuno di pensarla un po’ come vuole, il nocciolo della discussione si è spostato soprattutto sul medium in cui si sostanzia quell’idea rispetto ad un sistema museale-galleristico del tutto nuovo; un sistema in cui il pubblico possa trovare le situazioni ambientali e psicologiche migliori per valersi pienamente della sua nuova posizione.
Ma vorrei entrare brevemente nel merito di questo concetto.
Secondo me, il perno attorno al quale gira la chiave di lettura di ogni possibile considerazione al riguardo è dato dal binomio “arte-cultura“. La nuova speculazione teorica tende al superamento di quell’arte che, ancora negli anni più recenti, si sostanziava nell’uso delle cosiddette “vecchie tecniche“ (penso, per esempio, alla Transavanguardia), spostando l’ago della bilancia sull’aspetto dialogico con il pubblico in una operazione di convergenze parallele artista, opera, spettatore-fruitore che avvengono all’interno di uno spazio-galleria-museo di tipo relazionale in cui chi vi accede, interagendo attivamente con l’opera, molto spesso trovandocisi coinvolto con il suo stesso corpo, si pone in relazione simmetrica con essa, supera le difficoltà del rapporto arte-cultura di tipo tradizionale e crea cultura egli stesso. Molto bene: il dettato Duchampiano è rispettato.
Ma cosa dire delle trame concettuali sempre più sofisticate e sottili – a volte imperscrutabili – che reggono l’impalcatura di performances, installazioni, video-proiezioni e chi più ne ha più ne metta, le quali sembrano appartenere sempre più ad una ristretta elite culturale di cui i soliti “addetti ai lavori“, a cominciare da alcuni artisti ben affermati per finire con onnipresenti curatori, sono la punta di diamante? E il pubblico? Non sembra esso letteralmente preso di mira da un bombardamento pubblicitario sapientemente mirato, che quasi lo obbliga a smarrirsi nei meandri di opere per la maggior parte incomprensibili assistendo, nel migliore dei casi divertito, all’ennesimo scandalo, spesso con buona pace delle istituzioni che hanno dato all’evento il loro interessato imprimatur - essendo esse stesse, paradossalmente, le vittime sacrificali di quel che sponsorizzano? Per non parlare di quel fertilissimo terreno in cui affonda ormai saldamente le sue radici l’arte che dipende dall’uso del computer, le cui potenzialità sono inimmaginabili.
Ebbene, si può fare arte in tanti modi, spinti dalle motivazioni più diverse, abbracciando le più diverse cause e benedetto sia ogni mezzo che lo consente. Ma l’esaltazione dello spettatore-fruitore su cui tanto si punta non rischia di essere l’elemento debole della catena creativa se, come spesso accade, quest’ultima diventa fine a se stessa al solo scopo di riempire le tasche di accortissimi organizzatori? In questo modo, il processo della comunicazione delle idee, così sapientemente forzato, non viene messo a repentaglio proprio nel momento dell’approccio all’opera da parte del pubblico? E contestualmente, il carattere della cosiddetta neutralità dell’opera d’arte non risulta essere una discriminante talmente forte da eclissare ogni altro dato di pregio dell’opera stessa - mentre rappresenta, a mio modo di vedere, un peso inopportuno che non giova e, anzi, toglie ossigeno all’agone del confronto culturale?
Forse, nel delicato gioco degli equilibri tra le varie componenti che concorrono a determinare il valore di un’opera d’arte quel confronto, sotto l’egida di un filone d’avanguardia coreograficamente irreprensibile, rischia di farla (s)cadere irreparabilmente nell’imbuto senza fondo di quell’omologazione di marca che un certo sistema mistificante sta formalmente sempre più legittimando, trasformando la sostanza della protesta in quell’agire “politically correct“ che si voleva, invece, contestare. D’altra parte, negato il valore espressivo della rappresentazione perché ritenuto a priori fuorviante, la sintassi del procedimento operativo su cui si reggeva l’impianto della narrazione non avrebbe più ragion d’essere. Come non pensare alle conseguenze estreme che l’arte raggiunse, negli anni sessanta, con l’emergere delle posizioni minimaliste e concettualiste. E tuttavia, naturalmente, fare arte non è, o meglio, non è diventato solamente produzione dell’inutile. Quanti artisti, pur agendo nell’ambito della sperimentazione d’avanguardia, sono rimasti immuni dalla tentazione della facile provocazione fine a se stessa e, liberandosi dalle lusinghe di certa produzione “alla moda“ che privilegia la regola dello scandalo a tutti i costi, hanno costruito le loro opere sulla spina dorsale di un’idea forte che si candida come referente legittimo del dibattito culturale. Muovendosi nell’ottica di questo aggiustamento del metro di valutazione dei ruoli all’interno del processo di produzione artistica l’uomo, prima ancora dell’artista, si (ri)appropria di una centralità niente affatto accidentale che gli compete, da quando ha intrapreso il suo cammino nel mondo, come carattere intimo della sua natura di animale pensante che lo distingue da ogni altro essere vivente e di cui non può disfarsi, per dirla tutta, nemmeno quando agisce con i mezzi dell’arte. Ogni qual volta l’uomo si è dimenticato di questa sua peculiarità e, soprattutto, delle responsabilità che essa comporta, l’equilibrio delicatissimo che regge le sorti della vita sulla terra ne ha sofferto; a tal punto che, oggi, la nostra stessa sopravvivenza dipende in gran parte dalla presa di coscienza di quelle stesse responsabilità. Ma farsene carico non è facile. Specialmente se, indossando un casco e un paio di guanti collegati al computer, ci si può magicamente disfare dell’ingombrante impiccio gravitazionale gettandosi alle spalle la dura realtà di tutti i giorni pensando che ci sarà sempre qualcun altro a cui essa, prima o poi, farà pagare il conto. Ascoltando Milan Kundera, “…la realtà per l’uomo d’oggi è una terra sempre meno frequentata, e del resto a buon diritto non amata,…(dove) i risultati dei sondaggi sono diventati una sorta di realtà superiore, oppure,…sono diventati la verità…”; mentre il paradosso della modernità a tutti i costi rischia di trasformarci in tanti “…alleati dei nostri becchini.”. Chissà se, oggi, l’entusiasmo che Fontana aveva per il mezzo televisivo sarebbe vivo come allora?
Temo che la scena asettica che ci propone (o ci impone!) il Cyberspazio rischi di eliminare definitivamente, tra le pieghe necessariamente virtuali dei suoi orizzonti, la sacrosanta fatalità dell’errore umano sulla cui consapevolezza si fonda, probabilmente, gran parte della nostra evoluzione. E mentre i paesi del ricco Occidente si crogiolano sulla punta assolata dell’iceberg sognando il benessere eterno, sotto il livello dell’acqua il resto del pianeta rischia di colare a picco, schiacciato dalle problematiche sempre più urgenti che riguardano la sopravvivenza dell’umanità intera.
Alla luce di queste riflessioni, l’uso delle tecniche artistiche tradizionali può reclamare con forza la propria attualità sconfessando una volta per tutte quelli che, forse un po’ troppo sbrigativamente, le avevano già date per morte e sepolte. Quelli che, concentrati nello sforzo di perfezionare la macchina, scherniscono chi ancora perde il suo tempo a coltivare il grano.
Forse, lanciare nello stagno delle certezze che la cosiddetta “società civile” si è creata negli ultimi lustri il sasso del dubbio potrebbe ridare ossigeno all’acqua di silicio dell’utopia futuribile in cui essa sta così pericolosamente navigando!
All’uomo che immerge le mani nella materia infetta che cresce nei non-luoghi della città globale sia concesso il privilegio di ascoltare gli echi del crollo imminente; toccando le macerie di quel che resta della natura, possa egli scorgere il sangue uscire a fiotti dalla carne vessata degli esseri viventi ed annusare, esausto, l’aria del nuovo millennio alla ricerca di una speranza, di un segno che gli dia la forza di sopravvivere a se stesso. Ci sono ancora troppe risposte acquattate nel grembo della madre terra per permettersi il lusso di ignorarle, o per essere talmente sciocchi da deriderle…
“Pigi” Contin
05
febbraio 2012
Pigi Contin – La Impressione del colore
Dal 05 al 19 febbraio 2012
arte contemporanea
Location
11DREAMS ART GALLERY
Tortona, Via Rinarolo, 11/c, (Alessandria)
Tortona, Via Rinarolo, 11/c, (Alessandria)
Orario di apertura
da martedì a venerdì ore 16-19:30
sabato ore 10-12:30 e 16-19:30
domenica e festivi ore 16-19:30
Vernissage
5 Febbraio 2012, ore 18
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