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Manuela de Merito – Frame
Manuela de Merito prende alla lettera l’etimologia della parola fotografia rendendola azione concreta, scrivendo con la luce il diario della sua esplorazione, un viaggio nella contestualizzazione del suo significato intimo, inseguito tra le pieghe della pelle e l’irresistibile disordine dei nervi
Comunicato stampa
Segnala l'evento
E’ una bella prigione, il corpo. Una cornice solitaria, un luogo dove
giacere in silenzio, un territorio indecifrabile. La sua immagine non
esiste. E’ un simulacro, fatto di rifrazioni, inconoscibile nella sua verità.,
perché non ne ha mai avuta una soltanto.
Se lo guardi, non lo vedi, è incolore.
Se lo ascolti non lo odi, è insonoro.
Se lo afferri, non lo prendi, è informe.
Una figura che non ha figura, un immagine senza materia, indistinta e
indeterminata. Eppure è vivo, si muove, prova tormento e piacere, se
lo mordi sanguina. Può divincolarsi, evadere, ma non può essere perso.
Viene consegnato integro nella maggior parte dei casi, e deve essere
mantenuto con cura, ma mai troppa. A volte l’involucro originale si può
lacerare, ma lui si rigenera nuovo dalla morbida crepa.
Quando si riflette nel corridoio tra una superficie e gli occhi, rimanda
centinaia di immagini diverse, e nel cortocircuito visivo si sceglie quella
che più si avvicina al nostro capriccio percettivo, alla somma delle parti
che decidiamo di intarsiare tra i pori.
La necessità diventa ossessione nella ricerca di un significato da attribuire
all’immagine, il corpo (s)fortunatamente non viene dotato di foglio
illustrativo alla nascita, la mente non possiede le istruzioni per l’uso,
non ci sono insegne, cartellini, titoli o descrizioni, e scivolando nei
rapporti con le immagini degli altri i nervi dell’artista impongono una
ricerca, smodata e sconosciuta. Il bisogno soffocato di essere tutto e
niente, di sparire e urlare, di vedersi e immaginarsi, di marchiare un
carattere che abbia la radice di vita e la desinenza di vuoto, secerne
dall’interno. Attraverso i pori della pelle si manifesta l’identità racchiusa
tra lisce superfici di un’estetica e di una volontà mentale. Esplorandosi,
l’immagine interiore evapora fuori dalla pelle e si manifesta secondo la
nostra percezione, che si disperde finalmente nell’aria e svanisce nelle
incarnazioni della realtà. Ma le domande non lasciano segni visibili,
non si trasformano in pagine di tatuaggi da sfogliare a piacimento della
personale riflessione, la ricerca deve essere silenziosa e insicura, lo
sguardo deve gattonare come un neonato sul suolo della pelle, mappa
tenue che non si rivela mai in una risposta chiara. Così chi cerca annega,
nella sua pelle, dentro se stesso, rientrando nei pori, dove tutto era
iniziato, come un fiume che annega nell’acqua.
Manuela de Merito prende alla lettera l’etimologia della parola fotografia
rendendola azione concreta, scrivendo con la luce il diario della sua
esplorazione, un viaggio nella contestualizzazione del suo significato
intimo, inseguito tra le pieghe della pelle e l’irresistibile disordine dei
nervi. I segni dell’immagine fotografica si depositano sulle superfici
come delle impronte, sono tracce lasciate dal passaggio della luce, non
delle semplici grafie simboliche e virtuali, ma dei calchi permanenti che
incidono l'immagine. Descrive ciò che già esiste ma che risulta ambiguo
e sfuggente, il suo corpo, la sua rappresentazione, che racchiude un
passato chiamato storia dell’umanità, e un presente chiamato società della
comunicazione, società di massa, società dei consumi, dove a consumarsi
sembra soltanto l’individuo, vittima del suo stesso inganno. Nel suo
difficile compito la macchina fotografica vaga come un flaneur per le
strade disegnate sull’epidermide, sulle rotondità delle ossa, nei crateri
conchi delle giunture, giocando una caccia al tesoro senza fine né inizio
preciso, senza indizi né traguardi, cieca.
E lei si vede, dove non si sente.
“Quello che c'è di più profondo nell'essere umano è la pelle.”
Paul Valéry
giacere in silenzio, un territorio indecifrabile. La sua immagine non
esiste. E’ un simulacro, fatto di rifrazioni, inconoscibile nella sua verità.,
perché non ne ha mai avuta una soltanto.
Se lo guardi, non lo vedi, è incolore.
Se lo ascolti non lo odi, è insonoro.
Se lo afferri, non lo prendi, è informe.
Una figura che non ha figura, un immagine senza materia, indistinta e
indeterminata. Eppure è vivo, si muove, prova tormento e piacere, se
lo mordi sanguina. Può divincolarsi, evadere, ma non può essere perso.
Viene consegnato integro nella maggior parte dei casi, e deve essere
mantenuto con cura, ma mai troppa. A volte l’involucro originale si può
lacerare, ma lui si rigenera nuovo dalla morbida crepa.
Quando si riflette nel corridoio tra una superficie e gli occhi, rimanda
centinaia di immagini diverse, e nel cortocircuito visivo si sceglie quella
che più si avvicina al nostro capriccio percettivo, alla somma delle parti
che decidiamo di intarsiare tra i pori.
La necessità diventa ossessione nella ricerca di un significato da attribuire
all’immagine, il corpo (s)fortunatamente non viene dotato di foglio
illustrativo alla nascita, la mente non possiede le istruzioni per l’uso,
non ci sono insegne, cartellini, titoli o descrizioni, e scivolando nei
rapporti con le immagini degli altri i nervi dell’artista impongono una
ricerca, smodata e sconosciuta. Il bisogno soffocato di essere tutto e
niente, di sparire e urlare, di vedersi e immaginarsi, di marchiare un
carattere che abbia la radice di vita e la desinenza di vuoto, secerne
dall’interno. Attraverso i pori della pelle si manifesta l’identità racchiusa
tra lisce superfici di un’estetica e di una volontà mentale. Esplorandosi,
l’immagine interiore evapora fuori dalla pelle e si manifesta secondo la
nostra percezione, che si disperde finalmente nell’aria e svanisce nelle
incarnazioni della realtà. Ma le domande non lasciano segni visibili,
non si trasformano in pagine di tatuaggi da sfogliare a piacimento della
personale riflessione, la ricerca deve essere silenziosa e insicura, lo
sguardo deve gattonare come un neonato sul suolo della pelle, mappa
tenue che non si rivela mai in una risposta chiara. Così chi cerca annega,
nella sua pelle, dentro se stesso, rientrando nei pori, dove tutto era
iniziato, come un fiume che annega nell’acqua.
Manuela de Merito prende alla lettera l’etimologia della parola fotografia
rendendola azione concreta, scrivendo con la luce il diario della sua
esplorazione, un viaggio nella contestualizzazione del suo significato
intimo, inseguito tra le pieghe della pelle e l’irresistibile disordine dei
nervi. I segni dell’immagine fotografica si depositano sulle superfici
come delle impronte, sono tracce lasciate dal passaggio della luce, non
delle semplici grafie simboliche e virtuali, ma dei calchi permanenti che
incidono l'immagine. Descrive ciò che già esiste ma che risulta ambiguo
e sfuggente, il suo corpo, la sua rappresentazione, che racchiude un
passato chiamato storia dell’umanità, e un presente chiamato società della
comunicazione, società di massa, società dei consumi, dove a consumarsi
sembra soltanto l’individuo, vittima del suo stesso inganno. Nel suo
difficile compito la macchina fotografica vaga come un flaneur per le
strade disegnate sull’epidermide, sulle rotondità delle ossa, nei crateri
conchi delle giunture, giocando una caccia al tesoro senza fine né inizio
preciso, senza indizi né traguardi, cieca.
E lei si vede, dove non si sente.
“Quello che c'è di più profondo nell'essere umano è la pelle.”
Paul Valéry
28
luglio 2011
Manuela de Merito – Frame
Dal 28 luglio al 28 agosto 2011
fotografia
Location
MUSEO TOMMASO CAMPAILLA – EX OSPEDALE CAMPAILLA
Modica, Strada Campailla, (Ragusa)
Modica, Strada Campailla, (Ragusa)
Orario di apertura
dal martedì al sabato dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 19, domenica dalle 17 alle 20
Vernissage
28 Luglio 2011, ORE 19.30
Autore
Curatore