Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
14
giugno 2010
UNDICIDECIMI
Politica e opinioni
di aldo premoli
Chi disegna abiti, quando ha davvero talento, riesce a cogliere aspetti della vita quotidiana che la più strutturata ricerca di marketing nemmeno sfiora. Accade a musicisti, artisti visivi, poeti, teatranti, perché non dunque a uno stilista...
Chi disegna abiti, quando ha davvero talento, riesce a cogliere aspetti della vita quotidiana che la più strutturata ricerca di marketing nemmeno sfiora. Accade a musicisti, artisti visivi, poeti, teatranti, perché non dunque a uno stilista...
di Aldo Premoli
Dall’ultima
tornata di proposte moda maschili per l’autunno/inverno è emersa un’indicazione
che la vulgata ha chiamato “stile militare”, ma in questo caso la
semplificazione è davvero fuorviante. L’aspetto rilevante di questo genere di
abbigliamento non è infatti la mostrina da carabiniere o la spallina da
poliziotto sul golfino (purtroppo si è visto anche questo), quanto lo spirito
protettivo, difensivo, mimetico dei capi proposti. È l’outwear l’oggetto principe su cui si è concentrato lo sforzo
di progettazione: giubbotto, giaccone, cappotto, piumino, trench, giacca e
gilet imbottiti, accompagnati da hood
e cowl sulla testa da un lato e
dall’altro da boot e pedule con
suole carro armato. In un diluvio di pelli e peli, shirling, rettili dilavati e invecchiati, fibre tecniche,
imbottiture, ganci, velcro e cerniere…
È dunque il primo strato, quello più
esterno, a calamitare l’attenzione: cosa c’è sotto conta meno. Forse si ha meno
voglia di svelare il proprio corpo, o perlomeno di farlo per la strada, in
metropolitana, su un autobus: non è a disposizione di chiunque, non comunque,
non dovunque. L’abito è sempre stato innanzitutto uno strumento protettivo.
Indumento è ciò che difendeva dai graffi dei rovi, dalle asperità del terreno,
dai rigori del freddo o dalle bruciature del sole. Nomadi, cacciatori e
raccoglitori, gli uomini hanno iniziato a coprirsi il dorso con pelli di
animali, ad avvolgersi i piedi con legni e liane, a ripararsi dietro copricapo
di foglie e, dove il freddo mordeva, a tenere in grande considerazione le
pellicce degli animali.
Il terzo millennio, per la prima volta nella storia
dell’umanità, ha portato con sé il capovolgimento numerico nel rapporto tra chi
vive in città e chi risiede in campagna. Ma il sentimento di insicurezza, di
ansia, di timore che percorre il mondo occidentale sembra far tornare alle
radici l’abbigliamento maschile. Il paradigma secondo cui la città è il luogo
deputato all’ostentazione e la campagna quello della praticità non vale più. Il
sentimento urbano più adeguato richiede oggi meno decoro, meno colore, meno
comunicazione istantanea (tipici di epoche più spensierate e ottimiste) e
invece più funzione, più protezione, più mimetismo. Muoversi rapidamente,
piacevolmente e inosservati è la nuova aspirazione. Ci sono designer che lo
hanno capito prima degli altri e intorno a questo concetto hanno lavorato in
profondità: sono forse i più concettuali, i meno commerciali; certamente i più
interessanti. Alle loro creazioni bisogna guardare come a prototipi che finiranno
per influenzare tutta l’industria dell’abbigliamento.
Ne segnalo tre facilmente
raggiungibili attraverso il web. Il californiano Rick Owens, che ha sfilato a
Parigi, come pure la giapponese Rey Kawakubo (Comme des Garçons) e il belga
Lucas Ossendrijver (Lanvin). Distanti tra loro per nazionalità, esperienza e
generazione, eppure in qualche modo sintonizzati. Provate a guardare con
attenzione le loro proposte e ripensate alle rapide vestizioni e svestizioni
del protagonista del bellissimo The Hurt Locker di Kathryn Bigelow. L’accostamento non è azzardato.
tornata di proposte moda maschili per l’autunno/inverno è emersa un’indicazione
che la vulgata ha chiamato “stile militare”, ma in questo caso la
semplificazione è davvero fuorviante. L’aspetto rilevante di questo genere di
abbigliamento non è infatti la mostrina da carabiniere o la spallina da
poliziotto sul golfino (purtroppo si è visto anche questo), quanto lo spirito
protettivo, difensivo, mimetico dei capi proposti. È l’outwear l’oggetto principe su cui si è concentrato lo sforzo
di progettazione: giubbotto, giaccone, cappotto, piumino, trench, giacca e
gilet imbottiti, accompagnati da hood
e cowl sulla testa da un lato e
dall’altro da boot e pedule con
suole carro armato. In un diluvio di pelli e peli, shirling, rettili dilavati e invecchiati, fibre tecniche,
imbottiture, ganci, velcro e cerniere…
È dunque il primo strato, quello più
esterno, a calamitare l’attenzione: cosa c’è sotto conta meno. Forse si ha meno
voglia di svelare il proprio corpo, o perlomeno di farlo per la strada, in
metropolitana, su un autobus: non è a disposizione di chiunque, non comunque,
non dovunque. L’abito è sempre stato innanzitutto uno strumento protettivo.
Indumento è ciò che difendeva dai graffi dei rovi, dalle asperità del terreno,
dai rigori del freddo o dalle bruciature del sole. Nomadi, cacciatori e
raccoglitori, gli uomini hanno iniziato a coprirsi il dorso con pelli di
animali, ad avvolgersi i piedi con legni e liane, a ripararsi dietro copricapo
di foglie e, dove il freddo mordeva, a tenere in grande considerazione le
pellicce degli animali.
Il terzo millennio, per la prima volta nella storia
dell’umanità, ha portato con sé il capovolgimento numerico nel rapporto tra chi
vive in città e chi risiede in campagna. Ma il sentimento di insicurezza, di
ansia, di timore che percorre il mondo occidentale sembra far tornare alle
radici l’abbigliamento maschile. Il paradigma secondo cui la città è il luogo
deputato all’ostentazione e la campagna quello della praticità non vale più. Il
sentimento urbano più adeguato richiede oggi meno decoro, meno colore, meno
comunicazione istantanea (tipici di epoche più spensierate e ottimiste) e
invece più funzione, più protezione, più mimetismo. Muoversi rapidamente,
piacevolmente e inosservati è la nuova aspirazione. Ci sono designer che lo
hanno capito prima degli altri e intorno a questo concetto hanno lavorato in
profondità: sono forse i più concettuali, i meno commerciali; certamente i più
interessanti. Alle loro creazioni bisogna guardare come a prototipi che finiranno
per influenzare tutta l’industria dell’abbigliamento.
Ne segnalo tre facilmente
raggiungibili attraverso il web. Il californiano Rick Owens, che ha sfilato a
Parigi, come pure la giapponese Rey Kawakubo (Comme des Garçons) e il belga
Lucas Ossendrijver (Lanvin). Distanti tra loro per nazionalità, esperienza e
generazione, eppure in qualche modo sintonizzati. Provate a guardare con
attenzione le loro proposte e ripensate alle rapide vestizioni e svestizioni
del protagonista del bellissimo The Hurt Locker di Kathryn Bigelow. L’accostamento non è azzardato.
aldo premoli
cool
hunter
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 65. Te
l’eri perso? Abbonati!
[exibart]