16 luglio 2010

fino al 23.VII.2010 Andreas Golinski Milano, Alessandro De March

 
Debita appropriazione di uno spazio espositivo. Ovvero, come superare il concetto di site specific riflettendo sul dialogo spazio/forma. Con rigore, ma anche un po’ di ironia. Ovviamente nera...

di

Deve davvero esserci uno zeitgeist, un incontrollabile e
irreprensibile sentire comune che, nella Germania unitaria di oggi, induce gli
artisti all’indagine su spazio e spazi; alla riflessione sul costruito; all’azione/inter-azione
e appropriazione di ambienti che vivono e vibrano ben oltre la dimensione del
percepito.

Un discorso che vale, ad esempio, per le installazioni
effimere di un Weileder; ma anche, in un senso forse meno immediato ma altrettanto vibrante,
per i mantra visuali
di Wolfgang Laib.
Un discorso che, oggi, Andreas Golinski (Essen, 1979; vive a Berlino, Essen e Cantù, Como) interpreta
con eccezionale rigore, segnando un passaggio di ulteriore rarefazione e
tensione verso l’essenzialità del linguaggio. Viene dall’industrial design,
Golinski, ha conosciuto architetti e si vede: la forma invade lo spazio con
incedere chirurgico, se ne appropria pervasiva, fino a determinare luoghi
rinnovati e ritrovati. “Ho lavorato spesso con architetti e ingegneri”, ci rivela, “ho imparato a
controllare tutto agendo in grandi e vuoti spazi industriali, trattandoli come
un bambino farebbe con il proprio parco giochi”
.


Grandi spazi, quelli cui è abituato Golinski, che in alcuni
dei suoi lavori – vedi il labirintico Lost Dreams portato due anni fa a Viafarini a
Milano – sembrava aver fatto propria la monumentale carica drammatica di un Kounellis. Una carica tutt’altro che
stemperata, semmai concentrata, nei lavori che oggi presenta negli spazi
minimal concessi
da Alessandro De March. “Amo i site specific”, confessa, “ma non sempre sono
possibili, così provo a considerare lo spazio alla stregua di un foglio bianco,
nel quale inserire i miei lavori come se non lo conoscessi affatto”.

Un compromesso che porta alla mente il Simon Dybbroe Møller
di Mass,
weight and volume
,
che ha prodotto all’interno di una scatola la caduta casuale delle bacchette
dello shanghai e le ha tradotte, in scala, in una sala della Fondazione
Giuliani in Roma. Ma, tornando a Golinski, ecco allora sulla parete bianca
scoppiare il grido beffardo del telaio di finestra nero, i vetri completamente
oscurati. Ed ecco ancora l’assemblage plastico in scala di grigi, soluzione
formale di grande equilibrio, quasi un omaggio in bassorilievo al Suprematismo
di Malevic. Ecco
infine il colore saturarsi al punto da smettere i panni del puro cromatismo e
accogliere quelli della materia: una trasfigurazione che si consuma nella
continua stratificazione e sovrapposizione di livelli.


Così che i due pannelli che Golinski incornicia sul
pavimento, nella felicità di una simmetria fermamente calcolata, si rileggono
gli echi delle due lavagnette che a metà anni ’70 Beuys aveva scelto come punto di fuga
nella sua Zeige Deine Wunde, quando un’installazione ambientale al solito ricchissima
si accendeva magnetica nel nero d’ardesia.

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dal 19 maggio al 23 luglio 2010

Andreas Golinski – Le intoccabili prospettive terrene

Galleria Alessandro De March

Via
Massimiano, 25 (zona Ventura) – 20134 Milano

Orario: da
martedì a venerdì ore 12-19; sabato ore 14-19 o su appuntamento

Ingresso
libero

Info: tel./fax
+39 026685580; info@alessandrodemarch.it; www.alessandrodemarch.it

[exibart]

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