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Restituzioni 2011. Tesori d’arte restaurati
In mostra più di 80 opere d’arte, dall’antichità all’età neoclassica, provenienti dal Nord al Sud dell’Italia, restaurate nel corso di una campagna di interventi nel biennio 2009-2010. Una sezione distaccata si trova al Museo di San Marco, curata da Magnolia Scudieri, Lia Brunori e Marco Ciatti, dedicata al Tabernacolo dei Linaioli, al cui restauro ha contribuito ARPAI, Associazione per il Restauro del Patrimonio Artistico Italiano.
Comunicato stampa
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NOVELLE PER UN RESTAURO
Liberamente tratte dalle schede del catalogo “Restituzioni 2011. Tesori d’arte restaurati”
Il programma di questa edizione di Restituzioni è anche una narrazione con tanti attori l’arte, il restauro, gli uomini e le donne, l’artista che ha realizzato l’opera ma anche l’archeologo che l’ha scoperta, il committente che l’ha voluta, il collezionista che l’ha gelosamente conservata, il luogo che l’ha accolta.
Le opere restaurate sono più di ottanta e ciascuna è protagonista di un suo racconto
Un armonico puzzle
Il Busto di Atena è una miracolosa fusione fra una testa antica, risalente alla prima metà del II sec. d.C. e un busto con corazza frutto di un audace restauro compiuto nel Cinquecento.
Se il volto della dea, vergine e guerriera, è l’eccellente copia romana da un prototipo greco classico, il busto rinascimentale è di superba perfezione e composto con una tecnica assai complessa. Per giungere ad una corretta datazione è risultata determinante la bellezza dei lineamenti del volto, idealizzati ma espressivi. L’opera proviene dalla donazione di Giovanni Grimani del 1587. Grimani patriarca di Aquileia, grande collezionista e antesignano del “completamento moderno”, era anche un grande mecenate e nel suo palazzo di Santa Maria Formosa aveva creato un cenacolo di artisti, dove erano accolti i più grandi del tempo, sia di formazione veneziana sia provenienti dalle regioni del Centro Italia. Della collezione facevano parte antichità giunte a Venezia dal Levante, da Roma e dalle terre dei Grimani entro i confini della Repubblica veneziana: Perché trasformare un frammento di testa in un imponente busto? È probabile che la scelta sia stata imputabile ad esigenze espositive: la tribuna di palazzo Grimani faceva della simmetria e delle corrispondenze armoniche uno dei suoi elementi di forza.
Il dono di un adulto convertito
Fra le opere di Restituzioni 2011 questo Cucchiaio liturgico in argento risalente al VI sec. d.C., spezzato in due parti,è la scoperta più recente: è stato infatti casualmente rinvenuto due anni fa nel territorio di Campagna Lupia, in provincia di Venezia.
La forma, la fattura e il tema rappresentato lo identificano come un cucchiaio da battesimo di produzione bizantina, l’unico finora rinvenuto nel Veneto. I cucchiai liturgici, collegati alla conversione e al battesimo di adulti, venivano in genere donati alla chiesa al termine della cerimonia.
Nella conca, all’interno di una fascia ad onde correnti, sono raffigurati due uomini di profilo, seduti l’uno di fronte all’altro, dentro una piccola nave a vela, con l’albero al centro. Uno regge un remo, l’altro il timone: sono giovanissimi, nudi e con i capelli corti. Piccole onde indicano il mare, altre, per rendere la trasparenza dell’acqua, si sovrappongono alla sagoma dello scafo. La rappresentazione costituisce un unicum: è un’allegoria cristiana, ma di difficile interpretazione. Enigmatici sono soprattutto i due uomini: se la barca è la Chiesa, il timoniere può essere Cristo e il rematore Pietro.
Una strage a tinte forti
Il monumentale Cratere apulo a figure rosse, attribuito al pittore di Baltimora, databile fra il 330 e il 310 a.C., è uno dei reperti più rappresentativi della collezione Jatta, formata nella prima metà dell’Ottocento ed esposta nel palazzo di famiglia di Ruvo di Puglia, luogo dei ritrovamenti di sepolture antiche e sontuosi corredi funerari: La collezione è stata acquisita dallo Stato negli anni 1990-1991.
Il cratere reca sul lato principale la rappresentazione del mito di Niobe, raramente documentata nella ceramica apula. Niobe, sposa del re di Tebe Anfione e madre di quattordici figli, osò parlare con disprezzo di Latona, che aveva generato soltanto Apollo e Artemide. Ai suoi due figli Latona affidò il compito di eseguire la punizione, uccidendo l’intera stirpe di Niobe, che venne poi tramutata in statua da Zeus. Nel vaso di Ruvo la rappresentazione dell’eccidio si dispone su tre registri: in alto le divinità assistono con completa serenità al compiersi del tragico evento; nel registro sottostante Apollo ferisce con i suoi dardi i figli di Niobe, che fuggono insieme ad un anziano pedagogo; in basso è Artemide a colpire le figlie di Niobe, che cercano rifugio presso la madre, la quale assiste impotente all’eccidio con le braccia levate.
Desta impressione il contrasto fra il forte dinamismo di vittime e carnefici e l’impostazione statica del registro superiore, con l’olimpica indifferenza delle divinità: la potenza delle figure è esaltata dai risultati di un restauro che ha comportato lo smontaggio, per immersione in acqua calda, di ogni singolo frammento del cratere e la loro paziente ricomposizione
Il lungo viaggio degli amanti ritrovati
Questa piccolissima opera, Bronzetto raffigurante una coppia abbracciata, deve il suo salvataggio ad una intuizione: quando venne ritrovato nell’area archeologica dell’antica Este, negli anni Trenta, era completamente irriconoscibile, tanto da poter essere scambiato per un semplice grumo di terra. Ma il suo “salvatore”. A. Callegari, allora Direttore del Museo Nazionale Atestino, così lo descriveva: “un oggetto di bronzo fuso, rovinatissimo dall’ossido, che sembra consti di due figure stanti sullo stesso piano, allacciate”. Solo specifiche analisi recenti di tipo radiografico e tomografiche computerizzate, hanno consentito di leggere la raffigurazione di due personaggi nell’atto di abbracciarsi, a conferma della corretta intuizione di Callegari. L’intervento di restauro ha permesso una lettura precisa e puntuale dell’iconografia che risulta un caso unico nei ritrovamenti archeologici del Veneto. Si tratta di una coppia a tutto tondo: i due personaggi sono raffigurati nudi, nell’atto di abbracciarsi, in un modo molto singolare. Risalente all’VIII - inizi VII sec. a.C., la coppietta bronzea rinvia a contesti funerari indigeni dell’Italia Meridionale e della Sicilia. Ma quando un oggetto così esotico è arrivato ad Este? Potrebbe essere di importazione antica oppure un monile, utilizzato in un primo tempo come ornamento nel suo ambito originario, e solo in un secondo momento, introdotto ad Este. Il mistero in questo caso rimane insoluto.
Un esercizio da maestro
Nel gruppo di pezzi provenienti dalla collezione di terrecotte del Museo Nazionale di Palazzo Venezia a Roma spicca l’estatica espressione del Volto di Santa Teresa d’Avila, risalente alla seconda metà del Seicento e realizzato all’interno della bottega di Gian Lorenzo Bernini. Si potrebbe pensare ad un modello per la figura scolpita in marmo dal grande artista sull’altare della cappella Cornaro nella chiesa di Santa Maria della Vittoria. In verità l’opera, per le dimensioni e per la diretta corrispondenza con la scultura della cappella Cornaro, potrebbe essere una esercitazione accademica.
Grazie all’esecuzione di un’ampia campagna di indagini scientifiche per la caratterizzazione dei materiali originali e di restauro è stato possibile intervenire sulle terrecotte con piena coscienza critica, rivelando dei falsi e svelando particolari sconosciuti. Oggi i bozzetti hanno recuperato la purezza formale del modellato e la bellezza cromatica originaria delle superfici, liberate da tutte le modifiche che ne avevano alterato l’aspetto ed oscurato lo splendore.
Identificazione di un uomo
Le sei tavolette raffiguranti altrettanti episodi della Storia di Cristo (Cattura di Cristo; Pilato si lava le mani; Cristo sale sulla croce; Crocifissione; Deposizione dalla croce; Giudizio universale) sono frammenti di un complesso più ampio, smembrato in epoca antica e appartengono al periodo più arcaico della produzione di Giovanni Baronzio, intorno al 1325. In questo caso il restauro ha prodotto un risultato di particolare eccellenza: le dimensioni molto ridotte delle tavolette, unite ad un cattivo stato di conservazione, ne compromettevano una corretta lettura. L’intervento conservativo ha riportato all’originaria luminosità la gamma cromatica delle storie veneziane evidenziando raffinate tonalità di verdi smeraldo, gialli aranciati o tenui rosa pastello. Uno dei risultati più interessanti ottenuti dalla pulitura è stata la recuperata leggibilità della figura posta alle spalle di Cristo nell’episodio di Pilato che si lava le mani. Sono emersi alcuni particolari curiosi come i rattoppi colorati della veste e uno squarcio che fa intravedere la pelle nuda del dorso. Si tratta con ogni probabilità di Simone da Cirene, detto anche il Cireneo, ricordato dai Vangeli come colui che fu obbligato dai soldati romani a trasportare la croce di Gesù.
Più bello dell’originale
Fra le serie di arazzi conservati in Italia, gli Atti degli Apostoli, nove pezzi tessuti su cartoni di Raffaello e oggi raccolti nel Palazzo Ducale di Mantova, sono fra i più preziosi. Da questa celebre serie, proviene la Lapidazione di santo Stefano, arazzo in lana e seta, realizzato intorno al 1550, dal cosiddetto Maestro della marca geometrica.
Raffaello e i suoi collaboratori prepararono, fra il 1514 e il 1516, dieci cartoni commissionati dal pontefice Leone X. Inviati a Bruxelles, fu Pieter van Aelst a trarne gli arazzi destinati alla Cappella Sistina. I cartoni rimasero nelle Fiandre e furono adoperati per la tessitura di ulteriori serie, anche dopo la morte di Van Aelst: una di queste tessiture successive venne acquistata dal cardinale Ercole Gonzaga.
Quando Pieter van Aelst realizzò la prima tessitura per papa Leone X introdusse alcuni cambiamenti rispetto al disegno originario: ingrossò le teste, arricchì le stoffe di oro e cremisi, caricò il modellato. Il Maestro della marca geometrica affrontò la tessitura con maggiore umiltà, ottenendo un risultato migliore. Per questo la serie mantovana è considerata una delle più importanti e fedeli ai modelli raffaelleschi: per molti studiosi infatti esalta la qualità delle invenzioni e dell’esecuzione tessile ancor più della tessitura destinata a Roma.
La nuova vita del figliol prodigo
Quasi 27mq di superficie; 24 kg di peso; 17.520 ore di lavoro, distribuite fra il 2005 e il 2010: il restauro dell’arazzo Il traviamento del figliol prodigo è stato un’avventura. Realizzato dalle manifatture di Bruxelles, risalente al 1520, in lana e seta, appartenente ad un complesso denominato Serie Blu, l’arazzo proviene dalla collezione del Museo del Tesoro del Duomo di Vigevano. L’intera serie venne donata alla chiesa ducale di Vigevano dal Duca di Milano, Francesco II Sforza, che l’aveva acquistata nelle Fiandre in un periodo sfolgorante per l’arte dell’arazzo, momento storico nel quale lo stile tardo-gotico lascia spazio ad un linguaggio più plastico. L’arazzo presenta diverse scene del Traviamento giustapposte, come a formare una miscellanea didattico-morale di “exempla” negativi, affollati di numerosi personaggi e relativi alla fragilità umana di fronte alle tentazioni.
Per questo impegnativo restauro, Intesa Sanpaolo è intervenuta accanto a Ministero per i Beni e le Attività
Culturali, ARPAI-Associazione per il Restauro del Patrimonio Artistico Italiano, Museo del Tesoro del Duomo di Vigevano, Fondazione Banca del Monte di Lombardia, Fondazione di Piacenza e Vigevano.
L’intervento, realizzato dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, ha confermato, una volta di più, la validità del metodo integrativo, che ha restituito all’arazzo l’aspetto più vicino a quello con il quale appariva all’uscita dalla manifattura, senza alcuna alterazione dell’originalità.
Paternità ritrovata
Strano destino quello toccato in sorte all’Andata al Calvario, opera del pittore forlivese Marco Palmezzano, dapprima celebrato come un capolavoro locale, poi accusato di essere un falso settecentesco ed escluso a lungo dall’esposizione al pubblico. La tavola in esame si inquadra nella produzione di immagini del Cristo portacroce, con una formulazione più complessa della scena, che affianca al Cristo e allo sgherro altri due personaggi tradizionalmente identificati con Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo.
Le indagini diagnostiche, condotte in vista del restauro, hanno sciolto ogni possibile dubbio e confermato l’autenticità dell’opera. Gli esami tecnici hanno infatti rivelato la piena conformità della tavola alle pratiche di Palmezzano, a partire dal disegno preparatorio a tratteggio che definisce le figure e a tratti appare persino più incisivo della stesura pittorica: La pittura vera e propria mostra tutte quelle finezze che caratterizzano la tecnica del pittore, dalla passione per le stesure compatte alla resa minuziosa dei fregi, fino al calibrato gioco di luci, ombre e volumi, retaggio di una formazione come “prospettico”.
Un’opera fra religione e potere
Un capolavoro eburneo d’importanza straordinaria, che ci riporta ai secoli X e XI quando gli Imperatori, pur ricominciando a riferirsi a Roma quale luogo cardine del Sacro Romano Impero, consideravano Milano il tramite con la penisola italiana e la capitale artistica. La Situla, ovvero secchiello per contenere l’acqua benedetta, proveniente dal Duomo di Milano, accompagnò l’intronazione alla cattedra arcivescovile di Gotofredo, sacerdote milanese di origini longobarde. La Vergine in trono e gli Apostoli dal deciso rilievo sono scolpiti in bassorilievo tutt’intorno, in troni e spazi sotto nitide arcate, in mezzo a una profusione di ornati e di iscrizioni in lettere capitali.
Il progetto iconografico illustrato dagli intagli è imperniato sulla figura del Cristo fonte di vita eterna, rappresentato in posizione centrale in grembo a Maria, del quale gli Evangelisti diffondono la venuta, proseguendone la Gloria. La Situla di Gotofredo propone tuttavia un originale adattamento del repertorio iconografico: le figure composte in modo classico non emulano alcun modello specifico e gli Evangelisti a fianco della Vergine, rappresentati nell’atto di scrivere il testo sacro, non sembrano avere precedenti in Occidente.
Un laico “miracolo”
Brescia armata è inginocchiata davanti alla Madonna, incoronata con le dodici stelle, che tende la mano nell’atto di presentare la sua supplica al Bambino, mentre l’angioletto mette in fuga la Peste brandendo una fiaccola. Alle spalle di Brescia, una colonna spezzata, simbolo della Fortezza: la città sullo sfondo è contraddistinta proprio dalla sagoma del castello.
Questa è la storia di un quasi “miracolo”. L’olio su tela Brescia supplica la Vergine di intercedere per liberare la città dalla peste (Madonna della Salute), opera di fine Seicento fra le più alte realizzazioni di Francesco Paglia, veniva da un pessimo stato di conservazione. Distacchi della superficie pittorica,
ridipinture che con il tempo erano diventate sempre più scure, supporti approssimativi e invasivi: L’intervento ha donato al quadro una perfetta leggibilità, con il pieno recupero dei colori originali. La matrice guercinesca (Francesco Paglia fu allievo del Guercino) è molto evidente nell’opera: la tonalità argentea è interrotta dalla ricchezza e dall’intensità di azzurro, rosa e bianco nella Madonna, viola, rosso e azzurro nell’allegoria di Brescia, realizzate con pigmenti finissimi, lacche rosse e verdi, tocchi d’oro. E la figura delle Peste, ad inizio restauro ridotta ad una macchia scura, emerge con un intenso pathos drammatico: una giovane donna coronata di fiori e vestita di nero che tiene nella destra un vaso da cui escono foglie e fiori e che, messa in fuga dalla fiaccola, sembra sprofondare con la gamba sinistra in una palude.
Angelica e Domenica, amiche del cuore
Chi è la bellissima giovane signora che dalla fine del Settecento ancora ci sorride con vaghezza? Il Ritratto di Domenica Volpato della pittrice svizzera Angelica Kauffmann, raffigura la figlia dell’incisore Giovanni Volpato, moglie di Raphael Morghen, anch’egli incisore. La Roma neoclassica è uno scenario ideale per il gossip: la splendida Domenica era stata fidanzata con Antonio Canova, prima di preferirgli l’allievo del padre.
Il quadro è un ritratto quasi affettivo, che si concreta in una immagine di grande comunicativa: la figura femminile è posta di tre quarti e abbigliata alla moda dell’epoca, con il turbante in testa e la camicia scollata stretta da una fascia sotto il seno.
La riflettografia ha rivelato l’assenza di disegno preparatorio e la sostanziale identità tra concezione originaria ed opera finita. La partecipazione al programma Restituzioni di Intesa Sanpaolo ha offerto l’opportunità di sottoporre l’opera ad un intervento di restauro integrale, finalizzato alla messa in sicurezza ed al recupero delle sue migliori potenzialità espressive. Alla fine l’opera è risultata splendida: l’incarnato roseo della figlia dell’incisore si presenta oggi di una delicatezza e di una freschezza inimmaginabili e i particolari decorativi - le perle sul turbante, la stoffa della ruche, i riccioli dei capelli - si mostrano nella loro finitezza rivelando la cura che la Kauffmann pose nella realizzazione del ritratto
Liberamente tratte dalle schede del catalogo “Restituzioni 2011. Tesori d’arte restaurati”
Il programma di questa edizione di Restituzioni è anche una narrazione con tanti attori l’arte, il restauro, gli uomini e le donne, l’artista che ha realizzato l’opera ma anche l’archeologo che l’ha scoperta, il committente che l’ha voluta, il collezionista che l’ha gelosamente conservata, il luogo che l’ha accolta.
Le opere restaurate sono più di ottanta e ciascuna è protagonista di un suo racconto
Un armonico puzzle
Il Busto di Atena è una miracolosa fusione fra una testa antica, risalente alla prima metà del II sec. d.C. e un busto con corazza frutto di un audace restauro compiuto nel Cinquecento.
Se il volto della dea, vergine e guerriera, è l’eccellente copia romana da un prototipo greco classico, il busto rinascimentale è di superba perfezione e composto con una tecnica assai complessa. Per giungere ad una corretta datazione è risultata determinante la bellezza dei lineamenti del volto, idealizzati ma espressivi. L’opera proviene dalla donazione di Giovanni Grimani del 1587. Grimani patriarca di Aquileia, grande collezionista e antesignano del “completamento moderno”, era anche un grande mecenate e nel suo palazzo di Santa Maria Formosa aveva creato un cenacolo di artisti, dove erano accolti i più grandi del tempo, sia di formazione veneziana sia provenienti dalle regioni del Centro Italia. Della collezione facevano parte antichità giunte a Venezia dal Levante, da Roma e dalle terre dei Grimani entro i confini della Repubblica veneziana: Perché trasformare un frammento di testa in un imponente busto? È probabile che la scelta sia stata imputabile ad esigenze espositive: la tribuna di palazzo Grimani faceva della simmetria e delle corrispondenze armoniche uno dei suoi elementi di forza.
Il dono di un adulto convertito
Fra le opere di Restituzioni 2011 questo Cucchiaio liturgico in argento risalente al VI sec. d.C., spezzato in due parti,è la scoperta più recente: è stato infatti casualmente rinvenuto due anni fa nel territorio di Campagna Lupia, in provincia di Venezia.
La forma, la fattura e il tema rappresentato lo identificano come un cucchiaio da battesimo di produzione bizantina, l’unico finora rinvenuto nel Veneto. I cucchiai liturgici, collegati alla conversione e al battesimo di adulti, venivano in genere donati alla chiesa al termine della cerimonia.
Nella conca, all’interno di una fascia ad onde correnti, sono raffigurati due uomini di profilo, seduti l’uno di fronte all’altro, dentro una piccola nave a vela, con l’albero al centro. Uno regge un remo, l’altro il timone: sono giovanissimi, nudi e con i capelli corti. Piccole onde indicano il mare, altre, per rendere la trasparenza dell’acqua, si sovrappongono alla sagoma dello scafo. La rappresentazione costituisce un unicum: è un’allegoria cristiana, ma di difficile interpretazione. Enigmatici sono soprattutto i due uomini: se la barca è la Chiesa, il timoniere può essere Cristo e il rematore Pietro.
Una strage a tinte forti
Il monumentale Cratere apulo a figure rosse, attribuito al pittore di Baltimora, databile fra il 330 e il 310 a.C., è uno dei reperti più rappresentativi della collezione Jatta, formata nella prima metà dell’Ottocento ed esposta nel palazzo di famiglia di Ruvo di Puglia, luogo dei ritrovamenti di sepolture antiche e sontuosi corredi funerari: La collezione è stata acquisita dallo Stato negli anni 1990-1991.
Il cratere reca sul lato principale la rappresentazione del mito di Niobe, raramente documentata nella ceramica apula. Niobe, sposa del re di Tebe Anfione e madre di quattordici figli, osò parlare con disprezzo di Latona, che aveva generato soltanto Apollo e Artemide. Ai suoi due figli Latona affidò il compito di eseguire la punizione, uccidendo l’intera stirpe di Niobe, che venne poi tramutata in statua da Zeus. Nel vaso di Ruvo la rappresentazione dell’eccidio si dispone su tre registri: in alto le divinità assistono con completa serenità al compiersi del tragico evento; nel registro sottostante Apollo ferisce con i suoi dardi i figli di Niobe, che fuggono insieme ad un anziano pedagogo; in basso è Artemide a colpire le figlie di Niobe, che cercano rifugio presso la madre, la quale assiste impotente all’eccidio con le braccia levate.
Desta impressione il contrasto fra il forte dinamismo di vittime e carnefici e l’impostazione statica del registro superiore, con l’olimpica indifferenza delle divinità: la potenza delle figure è esaltata dai risultati di un restauro che ha comportato lo smontaggio, per immersione in acqua calda, di ogni singolo frammento del cratere e la loro paziente ricomposizione
Il lungo viaggio degli amanti ritrovati
Questa piccolissima opera, Bronzetto raffigurante una coppia abbracciata, deve il suo salvataggio ad una intuizione: quando venne ritrovato nell’area archeologica dell’antica Este, negli anni Trenta, era completamente irriconoscibile, tanto da poter essere scambiato per un semplice grumo di terra. Ma il suo “salvatore”. A. Callegari, allora Direttore del Museo Nazionale Atestino, così lo descriveva: “un oggetto di bronzo fuso, rovinatissimo dall’ossido, che sembra consti di due figure stanti sullo stesso piano, allacciate”. Solo specifiche analisi recenti di tipo radiografico e tomografiche computerizzate, hanno consentito di leggere la raffigurazione di due personaggi nell’atto di abbracciarsi, a conferma della corretta intuizione di Callegari. L’intervento di restauro ha permesso una lettura precisa e puntuale dell’iconografia che risulta un caso unico nei ritrovamenti archeologici del Veneto. Si tratta di una coppia a tutto tondo: i due personaggi sono raffigurati nudi, nell’atto di abbracciarsi, in un modo molto singolare. Risalente all’VIII - inizi VII sec. a.C., la coppietta bronzea rinvia a contesti funerari indigeni dell’Italia Meridionale e della Sicilia. Ma quando un oggetto così esotico è arrivato ad Este? Potrebbe essere di importazione antica oppure un monile, utilizzato in un primo tempo come ornamento nel suo ambito originario, e solo in un secondo momento, introdotto ad Este. Il mistero in questo caso rimane insoluto.
Un esercizio da maestro
Nel gruppo di pezzi provenienti dalla collezione di terrecotte del Museo Nazionale di Palazzo Venezia a Roma spicca l’estatica espressione del Volto di Santa Teresa d’Avila, risalente alla seconda metà del Seicento e realizzato all’interno della bottega di Gian Lorenzo Bernini. Si potrebbe pensare ad un modello per la figura scolpita in marmo dal grande artista sull’altare della cappella Cornaro nella chiesa di Santa Maria della Vittoria. In verità l’opera, per le dimensioni e per la diretta corrispondenza con la scultura della cappella Cornaro, potrebbe essere una esercitazione accademica.
Grazie all’esecuzione di un’ampia campagna di indagini scientifiche per la caratterizzazione dei materiali originali e di restauro è stato possibile intervenire sulle terrecotte con piena coscienza critica, rivelando dei falsi e svelando particolari sconosciuti. Oggi i bozzetti hanno recuperato la purezza formale del modellato e la bellezza cromatica originaria delle superfici, liberate da tutte le modifiche che ne avevano alterato l’aspetto ed oscurato lo splendore.
Identificazione di un uomo
Le sei tavolette raffiguranti altrettanti episodi della Storia di Cristo (Cattura di Cristo; Pilato si lava le mani; Cristo sale sulla croce; Crocifissione; Deposizione dalla croce; Giudizio universale) sono frammenti di un complesso più ampio, smembrato in epoca antica e appartengono al periodo più arcaico della produzione di Giovanni Baronzio, intorno al 1325. In questo caso il restauro ha prodotto un risultato di particolare eccellenza: le dimensioni molto ridotte delle tavolette, unite ad un cattivo stato di conservazione, ne compromettevano una corretta lettura. L’intervento conservativo ha riportato all’originaria luminosità la gamma cromatica delle storie veneziane evidenziando raffinate tonalità di verdi smeraldo, gialli aranciati o tenui rosa pastello. Uno dei risultati più interessanti ottenuti dalla pulitura è stata la recuperata leggibilità della figura posta alle spalle di Cristo nell’episodio di Pilato che si lava le mani. Sono emersi alcuni particolari curiosi come i rattoppi colorati della veste e uno squarcio che fa intravedere la pelle nuda del dorso. Si tratta con ogni probabilità di Simone da Cirene, detto anche il Cireneo, ricordato dai Vangeli come colui che fu obbligato dai soldati romani a trasportare la croce di Gesù.
Più bello dell’originale
Fra le serie di arazzi conservati in Italia, gli Atti degli Apostoli, nove pezzi tessuti su cartoni di Raffaello e oggi raccolti nel Palazzo Ducale di Mantova, sono fra i più preziosi. Da questa celebre serie, proviene la Lapidazione di santo Stefano, arazzo in lana e seta, realizzato intorno al 1550, dal cosiddetto Maestro della marca geometrica.
Raffaello e i suoi collaboratori prepararono, fra il 1514 e il 1516, dieci cartoni commissionati dal pontefice Leone X. Inviati a Bruxelles, fu Pieter van Aelst a trarne gli arazzi destinati alla Cappella Sistina. I cartoni rimasero nelle Fiandre e furono adoperati per la tessitura di ulteriori serie, anche dopo la morte di Van Aelst: una di queste tessiture successive venne acquistata dal cardinale Ercole Gonzaga.
Quando Pieter van Aelst realizzò la prima tessitura per papa Leone X introdusse alcuni cambiamenti rispetto al disegno originario: ingrossò le teste, arricchì le stoffe di oro e cremisi, caricò il modellato. Il Maestro della marca geometrica affrontò la tessitura con maggiore umiltà, ottenendo un risultato migliore. Per questo la serie mantovana è considerata una delle più importanti e fedeli ai modelli raffaelleschi: per molti studiosi infatti esalta la qualità delle invenzioni e dell’esecuzione tessile ancor più della tessitura destinata a Roma.
La nuova vita del figliol prodigo
Quasi 27mq di superficie; 24 kg di peso; 17.520 ore di lavoro, distribuite fra il 2005 e il 2010: il restauro dell’arazzo Il traviamento del figliol prodigo è stato un’avventura. Realizzato dalle manifatture di Bruxelles, risalente al 1520, in lana e seta, appartenente ad un complesso denominato Serie Blu, l’arazzo proviene dalla collezione del Museo del Tesoro del Duomo di Vigevano. L’intera serie venne donata alla chiesa ducale di Vigevano dal Duca di Milano, Francesco II Sforza, che l’aveva acquistata nelle Fiandre in un periodo sfolgorante per l’arte dell’arazzo, momento storico nel quale lo stile tardo-gotico lascia spazio ad un linguaggio più plastico. L’arazzo presenta diverse scene del Traviamento giustapposte, come a formare una miscellanea didattico-morale di “exempla” negativi, affollati di numerosi personaggi e relativi alla fragilità umana di fronte alle tentazioni.
Per questo impegnativo restauro, Intesa Sanpaolo è intervenuta accanto a Ministero per i Beni e le Attività
Culturali, ARPAI-Associazione per il Restauro del Patrimonio Artistico Italiano, Museo del Tesoro del Duomo di Vigevano, Fondazione Banca del Monte di Lombardia, Fondazione di Piacenza e Vigevano.
L’intervento, realizzato dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, ha confermato, una volta di più, la validità del metodo integrativo, che ha restituito all’arazzo l’aspetto più vicino a quello con il quale appariva all’uscita dalla manifattura, senza alcuna alterazione dell’originalità.
Paternità ritrovata
Strano destino quello toccato in sorte all’Andata al Calvario, opera del pittore forlivese Marco Palmezzano, dapprima celebrato come un capolavoro locale, poi accusato di essere un falso settecentesco ed escluso a lungo dall’esposizione al pubblico. La tavola in esame si inquadra nella produzione di immagini del Cristo portacroce, con una formulazione più complessa della scena, che affianca al Cristo e allo sgherro altri due personaggi tradizionalmente identificati con Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo.
Le indagini diagnostiche, condotte in vista del restauro, hanno sciolto ogni possibile dubbio e confermato l’autenticità dell’opera. Gli esami tecnici hanno infatti rivelato la piena conformità della tavola alle pratiche di Palmezzano, a partire dal disegno preparatorio a tratteggio che definisce le figure e a tratti appare persino più incisivo della stesura pittorica: La pittura vera e propria mostra tutte quelle finezze che caratterizzano la tecnica del pittore, dalla passione per le stesure compatte alla resa minuziosa dei fregi, fino al calibrato gioco di luci, ombre e volumi, retaggio di una formazione come “prospettico”.
Un’opera fra religione e potere
Un capolavoro eburneo d’importanza straordinaria, che ci riporta ai secoli X e XI quando gli Imperatori, pur ricominciando a riferirsi a Roma quale luogo cardine del Sacro Romano Impero, consideravano Milano il tramite con la penisola italiana e la capitale artistica. La Situla, ovvero secchiello per contenere l’acqua benedetta, proveniente dal Duomo di Milano, accompagnò l’intronazione alla cattedra arcivescovile di Gotofredo, sacerdote milanese di origini longobarde. La Vergine in trono e gli Apostoli dal deciso rilievo sono scolpiti in bassorilievo tutt’intorno, in troni e spazi sotto nitide arcate, in mezzo a una profusione di ornati e di iscrizioni in lettere capitali.
Il progetto iconografico illustrato dagli intagli è imperniato sulla figura del Cristo fonte di vita eterna, rappresentato in posizione centrale in grembo a Maria, del quale gli Evangelisti diffondono la venuta, proseguendone la Gloria. La Situla di Gotofredo propone tuttavia un originale adattamento del repertorio iconografico: le figure composte in modo classico non emulano alcun modello specifico e gli Evangelisti a fianco della Vergine, rappresentati nell’atto di scrivere il testo sacro, non sembrano avere precedenti in Occidente.
Un laico “miracolo”
Brescia armata è inginocchiata davanti alla Madonna, incoronata con le dodici stelle, che tende la mano nell’atto di presentare la sua supplica al Bambino, mentre l’angioletto mette in fuga la Peste brandendo una fiaccola. Alle spalle di Brescia, una colonna spezzata, simbolo della Fortezza: la città sullo sfondo è contraddistinta proprio dalla sagoma del castello.
Questa è la storia di un quasi “miracolo”. L’olio su tela Brescia supplica la Vergine di intercedere per liberare la città dalla peste (Madonna della Salute), opera di fine Seicento fra le più alte realizzazioni di Francesco Paglia, veniva da un pessimo stato di conservazione. Distacchi della superficie pittorica,
ridipinture che con il tempo erano diventate sempre più scure, supporti approssimativi e invasivi: L’intervento ha donato al quadro una perfetta leggibilità, con il pieno recupero dei colori originali. La matrice guercinesca (Francesco Paglia fu allievo del Guercino) è molto evidente nell’opera: la tonalità argentea è interrotta dalla ricchezza e dall’intensità di azzurro, rosa e bianco nella Madonna, viola, rosso e azzurro nell’allegoria di Brescia, realizzate con pigmenti finissimi, lacche rosse e verdi, tocchi d’oro. E la figura delle Peste, ad inizio restauro ridotta ad una macchia scura, emerge con un intenso pathos drammatico: una giovane donna coronata di fiori e vestita di nero che tiene nella destra un vaso da cui escono foglie e fiori e che, messa in fuga dalla fiaccola, sembra sprofondare con la gamba sinistra in una palude.
Angelica e Domenica, amiche del cuore
Chi è la bellissima giovane signora che dalla fine del Settecento ancora ci sorride con vaghezza? Il Ritratto di Domenica Volpato della pittrice svizzera Angelica Kauffmann, raffigura la figlia dell’incisore Giovanni Volpato, moglie di Raphael Morghen, anch’egli incisore. La Roma neoclassica è uno scenario ideale per il gossip: la splendida Domenica era stata fidanzata con Antonio Canova, prima di preferirgli l’allievo del padre.
Il quadro è un ritratto quasi affettivo, che si concreta in una immagine di grande comunicativa: la figura femminile è posta di tre quarti e abbigliata alla moda dell’epoca, con il turbante in testa e la camicia scollata stretta da una fascia sotto il seno.
La riflettografia ha rivelato l’assenza di disegno preparatorio e la sostanziale identità tra concezione originaria ed opera finita. La partecipazione al programma Restituzioni di Intesa Sanpaolo ha offerto l’opportunità di sottoporre l’opera ad un intervento di restauro integrale, finalizzato alla messa in sicurezza ed al recupero delle sue migliori potenzialità espressive. Alla fine l’opera è risultata splendida: l’incarnato roseo della figlia dell’incisore si presenta oggi di una delicatezza e di una freschezza inimmaginabili e i particolari decorativi - le perle sul turbante, la stoffa della ruche, i riccioli dei capelli - si mostrano nella loro finitezza rivelando la cura che la Kauffmann pose nella realizzazione del ritratto
21
marzo 2011
Restituzioni 2011. Tesori d’arte restaurati
Dal 21 marzo al 05 giugno 2011
arte antica
Location
PALAZZO PITTI
Firenze, Piazza Dei Pitti, (Firenze)
Firenze, Piazza Dei Pitti, (Firenze)
Biglietti
L’ingresso alla mostra è incluso nel prezzo del biglietto della Galleria Palatina
e Galleria d’Arte Moderna.
Prezzo del biglietto intero: € 8,50; € 12,00 dal 17 maggio,
gratuità di legge (come da DM 20/04/2006 n.239 e successive modifiche)
Accesso gratuito nella Settimana della Cultura (9 - 17 aprile 2011)
Orario di apertura
giorno di chiusura: lunedì
chiusure durante l’anno 1° gennaio - 1° maggio - 25 dicembre
ORARIO: martedì - domenica dalle ore 8,15 alle ore 18,50
Vernissage
21 Marzo 2011, ore 18 su invito
Editore
EDIFIR
Ufficio stampa
NOVELLA MIRRI
Ufficio stampa
MARIA BONMASSAR
Curatore