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Paolo Bovino – L’impero delle illusioni
In mostra l’opera pittorica “L’impero delle illusioni”
Comunicato stampa
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Bellezza ed enigma nell’arte di Paolo Bovino
di Rossella Pesce
Vi è una sorta di disvelamento esoterico nell’ispirazione artistica di Paolo Bovino, che fa risuonare, nella trama metafisica e compiutamente orchestrata dei suoi segni pittorici, suggestivi echi orfico-pitagorici, che aprono varchi mentali sulla trascendenza e sull’armonia del mondo.
Filosofica e frattalica, per un’idea di bellezza pervasa d’amore e di armonia – musicale, visiva, spirituale -, la sua arte delinea scenari neoplatonici costellati da simboli, quali il pentagono stellato, il numero aureo, la divina proporzione, la luce…
Ne L’Impero delle illusioni la citazione de Il tuffatore di Paestum d’epoca tardoantica, che sembra intravedersi ad uno scandaglio ermeneutico, ribadisce il carattere simbolico e iniziatico dell’opera, ma ne aggiorna il senso: non l’unicità di un’identità e di un destino – qual era il significato cristiano del dipinto sul sarcofago -, ma la metempsicosi, in cui la rinascita, attraverso molteplici esistenze fluttuanti in corpi maschili e femminili, esprime la legge dell’Essere, facendo coincidere l’Assoluto con la bellezza etica della redenzione spirituale.
Seguono apparato esegetico complementare e biografia dell’artista
Geometrismi del cielo
di Josephine Nicolaci
Fatica la luce a conquistare la terra nelle opere di Paolo Bovino e il giorno forse da tempo si è trasformato in una lunga sera in cui la speranza leva a stento il suo salvifico respiro. Una vasta solitudine destina però la nostra esistenza a un sentimento di nostalgia, in cui sopravviene il bisogno di ascoltare un’onda di silenziose risonanze che percorre lo spazio dall’inizio dell’eternità. Suoni la cui semplicità pura permette il passaggio a una diversa percezione di sé, a una elevatezza povera di esteriorità. L’aureo passaggio a un’autenticità che ci restituisca il sentimento prezioso della vita.
Tre carboncini di dimensioni considerevoli, intonati alle note di una musica non udita, ma visibile nell’intenso fluire di segni tra i più primitivi del mondo - linee, ondulazioni, figure geometriche in movimento - sono esposti insieme a un grande dipinto che dà il titolo all’intera mostra L’impero delle illusioni, in cui corpi a valanga, perduto il soffio interiore dell’anima, precipitano in una nuda abissalità priva di amore.
Sono esperienze epocali quelle descritte dall’arte di Paolo Bovino, immagini di un’umanità che non urla più e con occhi privi di pensiero, senza più emozione e senza più attesa, guarda muta. Non può che essere muta, se il dolore che ferisce investe dall’interno e se il pericolo consiste nella follia che sdoppia la mente in un rifrangersi di volti interiori spaventevoli. L’identità umana si destina a una crudele fragilità perseguitata da seducenti illusioni, abbaglianti come lucrosi diamanti, che bruciano spontaneità e innocenza. L’esistenza insegue il perverso movimento di strane sfere dalle diverse forme che si insinuano nel tutto della mente. Precipitano i corpi nella illusione che scintille di ardore possano dare ai propri sensi pienezza vitale, sono solo ceneri di istanti che hanno perduto il loro procedere. Precipitano i corpi senza aver conosciuto celeste incanto e senza aver accolto il principio della vita, l’inviolabilità di un codice impresso nella struttura genetica dell’universo che contiene la memoria della sua salvezza, della pura creatività espressa dalla propria inestinguibile forza femminea.
Lo spazio si dilata in una geometria delle forme che assumono il ritmo dell’istinto di vita, la partitura di una Sinfonia esagonale. Linee dinamiche che si traspongono in onde, che disegnano figure, che irrompono nel silenzio facendone suono, note musicali compatte che vibrano in altezze che salgono e scendono elettrizzando la materia, una sinfonia che non ha inizio e non ha fine eppure occupa la superficie esagonale di un concetto, intelligenza dialettica dell’esistenza, razionalità che trascende l’oppressione del corpo e della sua volontà. La musica permette il passaggio verso la percezione di un senso dell’esistenza che risuona inscritta nel ritmo del cosmo e nel battito del suo mistero. Consente il compimento di quell’oltre in cui si realizza l’aspirazione umana a protendersi oltre ogni finitezza. Oltre l’io, oltre ogni apparenza, oltre l’illusione, oltre la parola, oltre ogni convinzione, oltre noi stessi e la nostra fragilità. La musica traccia linee di consapevolezza nei disegni di Paolo Bovino, consapevolezza di dover seguire una corrente interiore che spinge la vita oltre i confini del corpo e del suo impero.
Bach, Variazioni Goldberg. E la musica mostra ciò che unisce la terra al cielo rendendo possibile alla mente di ascendere alla dolcezza emanata dalle note eseguite con il ritmo della serenità interiore. C’è un dinamismo leggiadro nel paesaggio, un gioco nell’aria, onde di delicatezza che volteggiano incantevoli, come i passi senza rumore eseguiti con veloce brillantezza da un ballerino, saltelli circolari che eccitano delicatamente la vita. C’è una trottola che srotola gioiosa e sottili prismi che emanano scoppiettii festosi. C’è una musica che libera le sue note, c’è una mano che ne traccia il loro dinamismo e un’intelligenza che intuisce la realtà nascosta di un mondo invisibile e a lungo sognato. C’è desiderio nell’aria. E una immensa solitudine. La solitudine del corpo, la solitudine dello spirito.
La bellezza diventa pensiero. Il portale aureo. Visione di qualcosa che percepiamo sacro, segreto, immensamente prezioso. Non sappiamo quale sia stato il percorso che ne permetta lo sguardo, ma una forza interiore di colore bianco ci ha consentito il passaggio dentro una memoria che assomiglia a un labirinto. E’ un labirinto in cui è impegnata la nostra esistenza, in cui si consuma il tempo dei nostri giorni, i misteri di attese, di lunghe attese andate eluse, rimaste deluse. Le nostre e quelle degli altri. Ma qui si smaterializzano le differenze, le storie, le identità, i vissuti. Si smaterializzano le cose e le loro forme. Rimangono solo delle linee che formano sottili lunghe concatenazioni, incantevole semplicità dello spazio, incantevoli ramificazioni della vita in formazione, formazione di elementi primari indispensabili alla vita, puro elettromagnetismo, forze che si uniscono tra loro. Sono la loro chimica che ci sospinge verso l’aureo sogno, la complessa semplicità di forze che si attraggono o si respingono e che dispiegano vita. L’insenatura di un corridoio, lo splendore di una porta, la luce della vita nel suo inspiegabile senso. Ma dove sono le cose, gli alberi, il vento, il cielo? Dove sono le ombre? Dove gli altri simili a me che incontro ogni giorno o che non incontrerò più? E’ un paesaggio della solitudine. E’ la solitudine in un paesaggio che diventa quello della nostalgia. A chi parlare?
Non si ode rumore, ma il silenzio sì.
L’amore che non unisce
di Paolo Bovino
In un modo provocatoriamente anacronistico interprete dello Zeitgeist, “L’impero delle illusioni” intende offrire una rappresentazione allegorica della nostra società umana, profondamente disgregata nelle sue relazioni intime. Come in chimica vi sono legami covalenti forti o effimere forze di Van der Vaals, così nelle comunità “avanzate” dell’Occidente uomini e donne sono vicendevomente attratti e respinti secondo il ciclo perverso e perpetuo della mancanza-desiderio-piacere-noia, confliggendo con la complessità del vivere quotidiano, dei caratteri e dei vissuti, delle idee e degli accidenti; creature travolte dalle tentazioni della carne e succubi, nel tempo, delle trasformazioni psico-fisiche, senza mai dare origine a unioni stabili, in grado di realizzare in terra quell’Assoluto che il sentimento dell’Amore porta sempre con sé.
Influenzato dalla famosa rappresentazione del V canto dell’Inferno dantesco data da Gustav Doré, ho così cercato di mettere in scena l’uomo nella sua totale nudità; l’uomo che, fugando la solitudine, anela disperatamente al proprio completamento in un altro essere. Ma pochi sono quelli che riescono a stabilire un contatto saldo e duraturo, poche sono le coppie che si svincolano dalle masse per innalzarsi nel cielo, oltre le scure nubi che incombono. Per rendere più attraente ed efficace questo messaggio, non ho esitato ad avvalermi dei canoni della bellezza classica, presentando l’avvenente protagonista (ovvero la figura più grande delle oltre trecento dipinte) nell’atto di librarsi in perfetto equilibrio sopra un’onda oceanica, come colei che sa quel che vuole. Infatti ha un’espressione radiosa, e molte donne intorno si allungano per lambirla e lasciarsi guidare.
A ben vedere, infatti, nel riecheggiare la figura del Cristo sulla croce, ella è perpendicolare alla linea dell’orizzonte ed è posta nel punto di sezione aurea, su cui convergono, da destra e da sinistra, agglomerati scomposti di esseri umani, ingenerando un notevole dinamismo nella percezione. Codesta figura, che appare portatrice di una volontà positiva e che, come una chiave di volta, regge tutta la composizione, in contrasto con l’apparente caos, è forse essa stessa un’illusione, un inganno? In effetti, esplorando la superficie, si scorge in basso, a destra, abbandonato su degli scogli, un gruppo di uomini dolenti che sembrano imprecare proprio contro quella donna per le proprie pene amorose, o forse contro lo strano asteroide infuocato, a foggia di elissoide, che, sul limitare dell’ampia onda destinata ad infrangersi, ingloba facce deformate della protagonista, dal ghigno inquietante.
Nonostante il procedimento adottato per dipingere i corpi sia rigorosamente mimetico-fotografico, mi sembra di notare che l’effetto finale sia quello di un realismo magico e straniante, che mette in relazione elementi che mai potrebbero esser visti in quel modo, secondo quelle interazioni luministico-cromatico-prospettiche. Ciascun corpo, infatti non presenta ombre riportate (nonostante si trovi spesso sovrapposto ad un altro) e riceve luce, più o meno intensa, da un particolare punto nello spazio. Il che non potrebbe avvenire nella realtà, così come risulterebbe evidente se si riuscisse a scattare una fotografia ad una tale massa di persone sospesa per aria sopra un oceano illuminato da un sole alto dietro le nubi. Aggiungo che in scarso conto è tenuta anche la prospettiva atmosferica, di leonardesca memoria, in quanto i corpi più lontani non perdono spesso di definizione e di saturazione cromatica. Parafrasando il Berenson, parrà così allo spettatore di trovarsi in un mondo ideale, in cui siano finalmente aboliti i limiti della vista umana.
Questa finzione, questa voluta natura posticcia della rappresentazione, a mio modo di sentire, bene si intona con il messaggio che intendevo trasmettere: un mondo falso e precario, in cui ciascuno è vittima della propria illusione. E le illusioni sono simboleggiate dai solidi platonici, dalle innumerevoli facce (cubi, piramidi, dodecaedri, ecc.) che, riflettendo in modo distorto ciò che è intorno, si pongono falsamente come immagini ideali per ogni essere concupiscente (una donna, un uomo), ma che continuamente fluttuano e sfuggono, fornendo errate indicazioni. Qua e là, nella massa volante, altri uomini impotenti e bramosi ne sono travolti; infine, più in alto, poche coppie avvinghiate riescono a sottrarsi al movimento imperante e puntano verso una dimensione di gioia.
Quel che lega siffatta rappresentazione pittorica, affatto obbediente alla poetica surrealista, alle opere grafiche astratte presentate in mostra non è solo, evidentemente, una questione di “over-size”, di dimensioni eccedenti, ma proprio il principio di variazione, mutuato dalla musica, che da tempo applico ormai sistematicamente in molte mie creazioni (si veda, ad esempio, “La macchina nel tempo”). Come ne “L’impero delle illusioni”, infatti, viene esplorata ogni nuance del grigio, del rosa e del blu, e i corpi sono visti da molteplici angolazioni, così la linea si ispessisce o si assottiglia, è chiusa o è aperta, alterando rettangoli ed esagoni per sempre nuove figurazioni. E’ questo un mondo parallelo a quello riconoscibile, abitato dagli umani; governato dalle stesse leggi, ma - ai miei occhi - più puro ed elevato, in cui vorrei si riflettesse la meravigliosa varietà dell’universo.
Dalla partitura musicale alla sinfonia visiva
di Paolo Bovino
“Variazioni Goldberg” vuole essere una metafora delle famose composizioni di Bach per clavicembalo. Trattandosi di musica per un solo strumento, sono stato ancor più risoluto nel scegliere la grafica monocromatica piuttosto che la pittura per rappresentare le dinamiche sonore. Se, infatti, avessi fatto uso del colore, avrei aumentato a dismisura le variabili e mi sarei perso in mille idee. Ho scelto un formato rettangolare molto lungo per offrire una direzione alla temporalità e incoraggiare la normale fruizione da sinistra a destra, come se fosse una vera e propria partitura. Ho però abbandonato il formato di sedici noni, notoriamente più vicino alla visione bioculare dell'uomo, a favore di un rettangolo lievemente più stretto che corrispondesse al rapporto aureo, in modo da suggerire l'idea di un universo musicale conchiuso e perfetto. La sezione aurea è comparsa poi nella rappresentazione diverse volte, senza che me ne rendessi conto. Ho proceduto nell'esecuzione unicamente con il proposito di variare le forme da me scelte secondo tutte le possibilità che mi consentiva il segno, lasciando che la tridimensionalità venisse fuori come una mera conseguenza.
Nelle 32 variazioni esiste una grande uniformità tonale. Tutti i pezzi sono scritti in sol magg., ad eccezione del 15° in sol min. e del 25°, pressoché atonale. L'idea di questo sostegno armonico uniforme è stata resa nella partizione inferiore del disegno, determinata dal rapporto 6.318, mediante colonne di varia larghezza contenenti archi di cerchio, che creano una dinamica unicamente grazie alla vibrazione del segno più o meno spesso, più o meno scuro, più o meno graffiante, continuo o discontinuo, e grazie a dei rivolti (semicerchi opposti, parabole). La transizione alla parte superiore è data da un insieme di segmenti che in vario modo creano delle caselle, delle formazioni esagonali. Secondo la mia immaginazione sinestetica, questo complesso di linee spezzate rappresenta l'aria di apertura delle Goldberg, quella che originerà tutto il resto. Come nelle Goldberg la melodia ritorna in chiusura, così nel mio disegno le formazioni esagonali delimitano in basso la sezione dedicata alle variazioni. Il canone è la tecnica contrappuntistica che ho voluto esprimere attraverso la ripetizione nello spazio di una stesso arabesco.
L’opera “Sinfonia esagonale” mi ha fatto riflettere sul mito della musica visiva.
Estendere orizzontalmente il formato del quadro, ovvero allungare il rettangolo nelle arti visive statiche, fino raggiungere l'effetto "striscia", significa anzitutto imporre una direzione alla percezione. Per convenzione e abitudine, il fruitore occidentale, anche avendo la visione completa di codesta striscia, assai probabilmente comincerà a percorrerla con l'occhio da sinistra a destra, così come avviene per la scrittura. L'artista astratto non dovrà però trascurare il fatto che ciò è solo una convenzione e che l'assimilazione visiva lungo l'asse orizzontale può avvenire altrettanto naturalmente in senso opposto, e, per giunta, non necessariamente dagli estremi. Allo stesso modo, dovrà pensare che l'allungamento del rettangolo in verticale può ammettere ambedue le direzioni, dall'alto verso il basso e dal basso verso l'alto. Secondariamente, egli sarà obbligato a considerare lo sguardo lontano, ovvero l'effetto che una tale composizione, pur evidentemente concepita per la visione frazionata, ottiene se osservata ad una distanza tale da renderla visibile completamente in un colpo d'occhio. Infine è bene ricordare che la disposizione degli elementi nel caso di un'estensione della superficie oltre i limiti del campo visivo umano (il che si traduce in un assottigliamento della superficie, se si considera uno sguardo onnicomprensivo) soggiace sempre alle leggi della gravità; pertanto non sarà indifferente l'inversione della striscia, secondo il basso e l'alto.
Date queste premesse, la sequenzializzazione dei segni visivi è l'unico modo per il disegno di rendersi simile alla musica, poiché il tempo della visione sembra acquistare una freccia, che nell'assimilazione di un complesso di forme, fa gradualmente perdere nel ricordo quelle passate. Insomma, la difficoltà di cogliere la totalità e dunque di stabilire rapporti fra le parti è ciò che avvicinerebbe questa forma di espressione figurale alla musica.
Ecco che si potrebbe parlare di spazializzazione della musica, o di temporalizzazione della pittura.
In realtà, l'impulso al confronto è così cogente nella pittura e nel disegno che di fatto l'occhio spesso indugia e ritorna sui propri passi, non solo, ma ad un certo punto pretende la visione globale, facendo arretrare il punto di stazione. Una soluzione a questo problema da tempo è stata trovata nel cinematografo. D'altra parte, se la striscia fosse concepita per scorrere di fronte all'occhio, entro i limiti di un riquadro, si potrebbe pensare veramente ad una musica visiva. Il pensiero corre alle partiture musicali, che com'è noto, basate su un sistema di notazione, non sono altro che un espediente tecnico per l'esecuzione della musica. In altre parole esse sono un insieme di segni convenzionali, senza un vero rapporto con i suoni che rappresentano, e a caso o con intenzione possono risultare più o meno graficamente suggestive. Allora perché non concepire uno sviluppo per le forme esattamente come succede con i temi nella musica? Perché non concepire il ritmo nello spazio anziché nel tempo? Forme, le più semplici, le più complesse, o colori, più o meno variati, tornerebbero nell'arco spaziale, fino a dare l'idea di un'evoluzione astratta. L'artista anche in questo caso dovrà preoccuparsi di bilanciare la sua composizione, distribuendo i pesi euritmicamente lungo tutto lo spazio, e dunque dovrà allontanarsi dall'opera almeno tre volte e mezzo la misura del lato maggiore, per abbracciarla con un solo sguardo; ma comprensibile sarà il suo smarrimento di fronte alla perdita del "centro". Si potrebbe chiamare una tale opera "concrezione cinetica", assomigliando per molti versi ad un cardiogramma, o a un sismogramma, a o un encefalogramma, insomma alla traccia di un qualsiasi fenomeno naturale. Naturalmente però avrà quella qualità estetica, quell'espressiva intenzionalità in grado di coinvolgere l'apparato percettivo umano e innescare l'emotività del riguardante.
La dimensione narrativa delle arti visive è ancora sostanzialmente inesplorata, ma forse la bellezza delle opere al di là da venire meritano il tempo e la dedizione che occorrono. Nel mio primo lavoro del genere ho inteso utilizzare in senso dinamico e libero le figurazioni decorative, alla stregua di accordi o disegni melodici ricorrenti e variati timbricamente. Se volessi identificare la tonalità in qualche modulo di questa mia composizione grafica certamente indicherei il reticolato sottinteso al disegno. Posso parlare di modulazione quando una macrostruttura si trasforma in un altra. In dieci metri di "vita di forme" ho compiuto forse quattro modulazioni, ma non penso di aver mai messo in discussione la tonalità fondamentale, ovvero “il reticolo”. Nell'inventare e organizzare le forme ho davvero pensato secondo una logica musicale. Per esempio all'inizio, dopo alcuni tremoli degli archi e alcuni accordi dei legni, attraverso un grandioso crescendo ho voluto in qualche modo rappresentare l'incipit eroico degli ottoni, elaborando due linee ascendenti. Solo a posteriori mi sono avveduto che quelli che per me erano due temi musicali, erano da tutti scambiati per due uccelli meccanici. Più avanti nella composizione, avevo avvertito la necessità di un'entità curvilinea che contrastasse con il rigoroso schema contrappuntistico creato da quella sorta di circuito integrato preso a modello. L'ectoplasma che così è venuto fuori era per me una nota bassa e corposa dei contrabbassi o dei controfagotti. Gli altri invece non hanno esitato a vedervi un fantasma o un topo! Si potrà mai fare a meno di questa ingombrante realtà?
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PAOLO BOVINO, compositore visuale e filmaker
Nasce a Torino nel 1970. Insegnante di letteratura italiana e storia dell’arte, autore di un trattato di estetica I limiti delle arti secondo l’effetto (1995) e di un Manifesto del Neopurismo (1997), per alcuni anni si dedica alla alla biblioteconomia e alla critica musicale, scrivendo sulla rivista Musicalia. Come artista, essendo stato allievo di Giacomo Soffiantino, da un ventennio porta avanti la sua ricerca nell’ambito delle arti figurative con tecniche tradizionali, mirando all’astrattezza musicale, approdando a mostre quali “Dal suono al segno” (Torino, 2001), “Iuvenilia” (Basel, 2001) “I volti dell’eterno femminino” (Torino 2002), “Trasfigurazione” (Torino 2005), “La macchina nel tempo” (Torino 2007). Vincitore del premio “Casa Natale di Cesare Pavese” nel 1997, ha collaborato iconograficamente al volume “Il Millennio Composito di San Michele della Chiusa”, pubblicato da Melli. Di lui hanno parlato, fra gli altri, Angelo Caroli, Elisabetta Tolosano, Fernarda De Bernardi, Giangiorgio Massara. Assecondando la sua vocazione a cimentarsi in più campi espressivi, come videomaker ha prodotto documentari didattici in collaborazione con l’Istituto d’Arte “A. Passoni”, il Museo Nazionale del Cinema e la Fondazione Re Rebaudengo di Torino, nonché cortometraggi per l’Alpha Centauri Studium. Nel 2006 ha vinto il 1° premio al Civitavecchia Film Festival con l’opera Fra cielo e terra (8’) su musica di Shostakovic, trasmesso su Rai satellite, mentre recente è la collaborazione con l’attrice Elena Presti per un corto surreale su musica propria, Stupro (13’) girato nei luoghi storici di Torino, a sostegno dei diritti umani, contro la violenza alle donne. Nel 2009 la sua trasposizione filmica de “Il muro” di J. Sartre ottiene il “Premio Città di Torino” dal Museo diffuso della Resistenza.
Vive e lavora a Torino, in via Arduino 45.
Tel. 011-3017443; cell. 3498710909; paolobovino@alice.it
di Rossella Pesce
Vi è una sorta di disvelamento esoterico nell’ispirazione artistica di Paolo Bovino, che fa risuonare, nella trama metafisica e compiutamente orchestrata dei suoi segni pittorici, suggestivi echi orfico-pitagorici, che aprono varchi mentali sulla trascendenza e sull’armonia del mondo.
Filosofica e frattalica, per un’idea di bellezza pervasa d’amore e di armonia – musicale, visiva, spirituale -, la sua arte delinea scenari neoplatonici costellati da simboli, quali il pentagono stellato, il numero aureo, la divina proporzione, la luce…
Ne L’Impero delle illusioni la citazione de Il tuffatore di Paestum d’epoca tardoantica, che sembra intravedersi ad uno scandaglio ermeneutico, ribadisce il carattere simbolico e iniziatico dell’opera, ma ne aggiorna il senso: non l’unicità di un’identità e di un destino – qual era il significato cristiano del dipinto sul sarcofago -, ma la metempsicosi, in cui la rinascita, attraverso molteplici esistenze fluttuanti in corpi maschili e femminili, esprime la legge dell’Essere, facendo coincidere l’Assoluto con la bellezza etica della redenzione spirituale.
Seguono apparato esegetico complementare e biografia dell’artista
Geometrismi del cielo
di Josephine Nicolaci
Fatica la luce a conquistare la terra nelle opere di Paolo Bovino e il giorno forse da tempo si è trasformato in una lunga sera in cui la speranza leva a stento il suo salvifico respiro. Una vasta solitudine destina però la nostra esistenza a un sentimento di nostalgia, in cui sopravviene il bisogno di ascoltare un’onda di silenziose risonanze che percorre lo spazio dall’inizio dell’eternità. Suoni la cui semplicità pura permette il passaggio a una diversa percezione di sé, a una elevatezza povera di esteriorità. L’aureo passaggio a un’autenticità che ci restituisca il sentimento prezioso della vita.
Tre carboncini di dimensioni considerevoli, intonati alle note di una musica non udita, ma visibile nell’intenso fluire di segni tra i più primitivi del mondo - linee, ondulazioni, figure geometriche in movimento - sono esposti insieme a un grande dipinto che dà il titolo all’intera mostra L’impero delle illusioni, in cui corpi a valanga, perduto il soffio interiore dell’anima, precipitano in una nuda abissalità priva di amore.
Sono esperienze epocali quelle descritte dall’arte di Paolo Bovino, immagini di un’umanità che non urla più e con occhi privi di pensiero, senza più emozione e senza più attesa, guarda muta. Non può che essere muta, se il dolore che ferisce investe dall’interno e se il pericolo consiste nella follia che sdoppia la mente in un rifrangersi di volti interiori spaventevoli. L’identità umana si destina a una crudele fragilità perseguitata da seducenti illusioni, abbaglianti come lucrosi diamanti, che bruciano spontaneità e innocenza. L’esistenza insegue il perverso movimento di strane sfere dalle diverse forme che si insinuano nel tutto della mente. Precipitano i corpi nella illusione che scintille di ardore possano dare ai propri sensi pienezza vitale, sono solo ceneri di istanti che hanno perduto il loro procedere. Precipitano i corpi senza aver conosciuto celeste incanto e senza aver accolto il principio della vita, l’inviolabilità di un codice impresso nella struttura genetica dell’universo che contiene la memoria della sua salvezza, della pura creatività espressa dalla propria inestinguibile forza femminea.
Lo spazio si dilata in una geometria delle forme che assumono il ritmo dell’istinto di vita, la partitura di una Sinfonia esagonale. Linee dinamiche che si traspongono in onde, che disegnano figure, che irrompono nel silenzio facendone suono, note musicali compatte che vibrano in altezze che salgono e scendono elettrizzando la materia, una sinfonia che non ha inizio e non ha fine eppure occupa la superficie esagonale di un concetto, intelligenza dialettica dell’esistenza, razionalità che trascende l’oppressione del corpo e della sua volontà. La musica permette il passaggio verso la percezione di un senso dell’esistenza che risuona inscritta nel ritmo del cosmo e nel battito del suo mistero. Consente il compimento di quell’oltre in cui si realizza l’aspirazione umana a protendersi oltre ogni finitezza. Oltre l’io, oltre ogni apparenza, oltre l’illusione, oltre la parola, oltre ogni convinzione, oltre noi stessi e la nostra fragilità. La musica traccia linee di consapevolezza nei disegni di Paolo Bovino, consapevolezza di dover seguire una corrente interiore che spinge la vita oltre i confini del corpo e del suo impero.
Bach, Variazioni Goldberg. E la musica mostra ciò che unisce la terra al cielo rendendo possibile alla mente di ascendere alla dolcezza emanata dalle note eseguite con il ritmo della serenità interiore. C’è un dinamismo leggiadro nel paesaggio, un gioco nell’aria, onde di delicatezza che volteggiano incantevoli, come i passi senza rumore eseguiti con veloce brillantezza da un ballerino, saltelli circolari che eccitano delicatamente la vita. C’è una trottola che srotola gioiosa e sottili prismi che emanano scoppiettii festosi. C’è una musica che libera le sue note, c’è una mano che ne traccia il loro dinamismo e un’intelligenza che intuisce la realtà nascosta di un mondo invisibile e a lungo sognato. C’è desiderio nell’aria. E una immensa solitudine. La solitudine del corpo, la solitudine dello spirito.
La bellezza diventa pensiero. Il portale aureo. Visione di qualcosa che percepiamo sacro, segreto, immensamente prezioso. Non sappiamo quale sia stato il percorso che ne permetta lo sguardo, ma una forza interiore di colore bianco ci ha consentito il passaggio dentro una memoria che assomiglia a un labirinto. E’ un labirinto in cui è impegnata la nostra esistenza, in cui si consuma il tempo dei nostri giorni, i misteri di attese, di lunghe attese andate eluse, rimaste deluse. Le nostre e quelle degli altri. Ma qui si smaterializzano le differenze, le storie, le identità, i vissuti. Si smaterializzano le cose e le loro forme. Rimangono solo delle linee che formano sottili lunghe concatenazioni, incantevole semplicità dello spazio, incantevoli ramificazioni della vita in formazione, formazione di elementi primari indispensabili alla vita, puro elettromagnetismo, forze che si uniscono tra loro. Sono la loro chimica che ci sospinge verso l’aureo sogno, la complessa semplicità di forze che si attraggono o si respingono e che dispiegano vita. L’insenatura di un corridoio, lo splendore di una porta, la luce della vita nel suo inspiegabile senso. Ma dove sono le cose, gli alberi, il vento, il cielo? Dove sono le ombre? Dove gli altri simili a me che incontro ogni giorno o che non incontrerò più? E’ un paesaggio della solitudine. E’ la solitudine in un paesaggio che diventa quello della nostalgia. A chi parlare?
Non si ode rumore, ma il silenzio sì.
L’amore che non unisce
di Paolo Bovino
In un modo provocatoriamente anacronistico interprete dello Zeitgeist, “L’impero delle illusioni” intende offrire una rappresentazione allegorica della nostra società umana, profondamente disgregata nelle sue relazioni intime. Come in chimica vi sono legami covalenti forti o effimere forze di Van der Vaals, così nelle comunità “avanzate” dell’Occidente uomini e donne sono vicendevomente attratti e respinti secondo il ciclo perverso e perpetuo della mancanza-desiderio-piacere-noia, confliggendo con la complessità del vivere quotidiano, dei caratteri e dei vissuti, delle idee e degli accidenti; creature travolte dalle tentazioni della carne e succubi, nel tempo, delle trasformazioni psico-fisiche, senza mai dare origine a unioni stabili, in grado di realizzare in terra quell’Assoluto che il sentimento dell’Amore porta sempre con sé.
Influenzato dalla famosa rappresentazione del V canto dell’Inferno dantesco data da Gustav Doré, ho così cercato di mettere in scena l’uomo nella sua totale nudità; l’uomo che, fugando la solitudine, anela disperatamente al proprio completamento in un altro essere. Ma pochi sono quelli che riescono a stabilire un contatto saldo e duraturo, poche sono le coppie che si svincolano dalle masse per innalzarsi nel cielo, oltre le scure nubi che incombono. Per rendere più attraente ed efficace questo messaggio, non ho esitato ad avvalermi dei canoni della bellezza classica, presentando l’avvenente protagonista (ovvero la figura più grande delle oltre trecento dipinte) nell’atto di librarsi in perfetto equilibrio sopra un’onda oceanica, come colei che sa quel che vuole. Infatti ha un’espressione radiosa, e molte donne intorno si allungano per lambirla e lasciarsi guidare.
A ben vedere, infatti, nel riecheggiare la figura del Cristo sulla croce, ella è perpendicolare alla linea dell’orizzonte ed è posta nel punto di sezione aurea, su cui convergono, da destra e da sinistra, agglomerati scomposti di esseri umani, ingenerando un notevole dinamismo nella percezione. Codesta figura, che appare portatrice di una volontà positiva e che, come una chiave di volta, regge tutta la composizione, in contrasto con l’apparente caos, è forse essa stessa un’illusione, un inganno? In effetti, esplorando la superficie, si scorge in basso, a destra, abbandonato su degli scogli, un gruppo di uomini dolenti che sembrano imprecare proprio contro quella donna per le proprie pene amorose, o forse contro lo strano asteroide infuocato, a foggia di elissoide, che, sul limitare dell’ampia onda destinata ad infrangersi, ingloba facce deformate della protagonista, dal ghigno inquietante.
Nonostante il procedimento adottato per dipingere i corpi sia rigorosamente mimetico-fotografico, mi sembra di notare che l’effetto finale sia quello di un realismo magico e straniante, che mette in relazione elementi che mai potrebbero esser visti in quel modo, secondo quelle interazioni luministico-cromatico-prospettiche. Ciascun corpo, infatti non presenta ombre riportate (nonostante si trovi spesso sovrapposto ad un altro) e riceve luce, più o meno intensa, da un particolare punto nello spazio. Il che non potrebbe avvenire nella realtà, così come risulterebbe evidente se si riuscisse a scattare una fotografia ad una tale massa di persone sospesa per aria sopra un oceano illuminato da un sole alto dietro le nubi. Aggiungo che in scarso conto è tenuta anche la prospettiva atmosferica, di leonardesca memoria, in quanto i corpi più lontani non perdono spesso di definizione e di saturazione cromatica. Parafrasando il Berenson, parrà così allo spettatore di trovarsi in un mondo ideale, in cui siano finalmente aboliti i limiti della vista umana.
Questa finzione, questa voluta natura posticcia della rappresentazione, a mio modo di sentire, bene si intona con il messaggio che intendevo trasmettere: un mondo falso e precario, in cui ciascuno è vittima della propria illusione. E le illusioni sono simboleggiate dai solidi platonici, dalle innumerevoli facce (cubi, piramidi, dodecaedri, ecc.) che, riflettendo in modo distorto ciò che è intorno, si pongono falsamente come immagini ideali per ogni essere concupiscente (una donna, un uomo), ma che continuamente fluttuano e sfuggono, fornendo errate indicazioni. Qua e là, nella massa volante, altri uomini impotenti e bramosi ne sono travolti; infine, più in alto, poche coppie avvinghiate riescono a sottrarsi al movimento imperante e puntano verso una dimensione di gioia.
Quel che lega siffatta rappresentazione pittorica, affatto obbediente alla poetica surrealista, alle opere grafiche astratte presentate in mostra non è solo, evidentemente, una questione di “over-size”, di dimensioni eccedenti, ma proprio il principio di variazione, mutuato dalla musica, che da tempo applico ormai sistematicamente in molte mie creazioni (si veda, ad esempio, “La macchina nel tempo”). Come ne “L’impero delle illusioni”, infatti, viene esplorata ogni nuance del grigio, del rosa e del blu, e i corpi sono visti da molteplici angolazioni, così la linea si ispessisce o si assottiglia, è chiusa o è aperta, alterando rettangoli ed esagoni per sempre nuove figurazioni. E’ questo un mondo parallelo a quello riconoscibile, abitato dagli umani; governato dalle stesse leggi, ma - ai miei occhi - più puro ed elevato, in cui vorrei si riflettesse la meravigliosa varietà dell’universo.
Dalla partitura musicale alla sinfonia visiva
di Paolo Bovino
“Variazioni Goldberg” vuole essere una metafora delle famose composizioni di Bach per clavicembalo. Trattandosi di musica per un solo strumento, sono stato ancor più risoluto nel scegliere la grafica monocromatica piuttosto che la pittura per rappresentare le dinamiche sonore. Se, infatti, avessi fatto uso del colore, avrei aumentato a dismisura le variabili e mi sarei perso in mille idee. Ho scelto un formato rettangolare molto lungo per offrire una direzione alla temporalità e incoraggiare la normale fruizione da sinistra a destra, come se fosse una vera e propria partitura. Ho però abbandonato il formato di sedici noni, notoriamente più vicino alla visione bioculare dell'uomo, a favore di un rettangolo lievemente più stretto che corrispondesse al rapporto aureo, in modo da suggerire l'idea di un universo musicale conchiuso e perfetto. La sezione aurea è comparsa poi nella rappresentazione diverse volte, senza che me ne rendessi conto. Ho proceduto nell'esecuzione unicamente con il proposito di variare le forme da me scelte secondo tutte le possibilità che mi consentiva il segno, lasciando che la tridimensionalità venisse fuori come una mera conseguenza.
Nelle 32 variazioni esiste una grande uniformità tonale. Tutti i pezzi sono scritti in sol magg., ad eccezione del 15° in sol min. e del 25°, pressoché atonale. L'idea di questo sostegno armonico uniforme è stata resa nella partizione inferiore del disegno, determinata dal rapporto 6.318, mediante colonne di varia larghezza contenenti archi di cerchio, che creano una dinamica unicamente grazie alla vibrazione del segno più o meno spesso, più o meno scuro, più o meno graffiante, continuo o discontinuo, e grazie a dei rivolti (semicerchi opposti, parabole). La transizione alla parte superiore è data da un insieme di segmenti che in vario modo creano delle caselle, delle formazioni esagonali. Secondo la mia immaginazione sinestetica, questo complesso di linee spezzate rappresenta l'aria di apertura delle Goldberg, quella che originerà tutto il resto. Come nelle Goldberg la melodia ritorna in chiusura, così nel mio disegno le formazioni esagonali delimitano in basso la sezione dedicata alle variazioni. Il canone è la tecnica contrappuntistica che ho voluto esprimere attraverso la ripetizione nello spazio di una stesso arabesco.
L’opera “Sinfonia esagonale” mi ha fatto riflettere sul mito della musica visiva.
Estendere orizzontalmente il formato del quadro, ovvero allungare il rettangolo nelle arti visive statiche, fino raggiungere l'effetto "striscia", significa anzitutto imporre una direzione alla percezione. Per convenzione e abitudine, il fruitore occidentale, anche avendo la visione completa di codesta striscia, assai probabilmente comincerà a percorrerla con l'occhio da sinistra a destra, così come avviene per la scrittura. L'artista astratto non dovrà però trascurare il fatto che ciò è solo una convenzione e che l'assimilazione visiva lungo l'asse orizzontale può avvenire altrettanto naturalmente in senso opposto, e, per giunta, non necessariamente dagli estremi. Allo stesso modo, dovrà pensare che l'allungamento del rettangolo in verticale può ammettere ambedue le direzioni, dall'alto verso il basso e dal basso verso l'alto. Secondariamente, egli sarà obbligato a considerare lo sguardo lontano, ovvero l'effetto che una tale composizione, pur evidentemente concepita per la visione frazionata, ottiene se osservata ad una distanza tale da renderla visibile completamente in un colpo d'occhio. Infine è bene ricordare che la disposizione degli elementi nel caso di un'estensione della superficie oltre i limiti del campo visivo umano (il che si traduce in un assottigliamento della superficie, se si considera uno sguardo onnicomprensivo) soggiace sempre alle leggi della gravità; pertanto non sarà indifferente l'inversione della striscia, secondo il basso e l'alto.
Date queste premesse, la sequenzializzazione dei segni visivi è l'unico modo per il disegno di rendersi simile alla musica, poiché il tempo della visione sembra acquistare una freccia, che nell'assimilazione di un complesso di forme, fa gradualmente perdere nel ricordo quelle passate. Insomma, la difficoltà di cogliere la totalità e dunque di stabilire rapporti fra le parti è ciò che avvicinerebbe questa forma di espressione figurale alla musica.
Ecco che si potrebbe parlare di spazializzazione della musica, o di temporalizzazione della pittura.
In realtà, l'impulso al confronto è così cogente nella pittura e nel disegno che di fatto l'occhio spesso indugia e ritorna sui propri passi, non solo, ma ad un certo punto pretende la visione globale, facendo arretrare il punto di stazione. Una soluzione a questo problema da tempo è stata trovata nel cinematografo. D'altra parte, se la striscia fosse concepita per scorrere di fronte all'occhio, entro i limiti di un riquadro, si potrebbe pensare veramente ad una musica visiva. Il pensiero corre alle partiture musicali, che com'è noto, basate su un sistema di notazione, non sono altro che un espediente tecnico per l'esecuzione della musica. In altre parole esse sono un insieme di segni convenzionali, senza un vero rapporto con i suoni che rappresentano, e a caso o con intenzione possono risultare più o meno graficamente suggestive. Allora perché non concepire uno sviluppo per le forme esattamente come succede con i temi nella musica? Perché non concepire il ritmo nello spazio anziché nel tempo? Forme, le più semplici, le più complesse, o colori, più o meno variati, tornerebbero nell'arco spaziale, fino a dare l'idea di un'evoluzione astratta. L'artista anche in questo caso dovrà preoccuparsi di bilanciare la sua composizione, distribuendo i pesi euritmicamente lungo tutto lo spazio, e dunque dovrà allontanarsi dall'opera almeno tre volte e mezzo la misura del lato maggiore, per abbracciarla con un solo sguardo; ma comprensibile sarà il suo smarrimento di fronte alla perdita del "centro". Si potrebbe chiamare una tale opera "concrezione cinetica", assomigliando per molti versi ad un cardiogramma, o a un sismogramma, a o un encefalogramma, insomma alla traccia di un qualsiasi fenomeno naturale. Naturalmente però avrà quella qualità estetica, quell'espressiva intenzionalità in grado di coinvolgere l'apparato percettivo umano e innescare l'emotività del riguardante.
La dimensione narrativa delle arti visive è ancora sostanzialmente inesplorata, ma forse la bellezza delle opere al di là da venire meritano il tempo e la dedizione che occorrono. Nel mio primo lavoro del genere ho inteso utilizzare in senso dinamico e libero le figurazioni decorative, alla stregua di accordi o disegni melodici ricorrenti e variati timbricamente. Se volessi identificare la tonalità in qualche modulo di questa mia composizione grafica certamente indicherei il reticolato sottinteso al disegno. Posso parlare di modulazione quando una macrostruttura si trasforma in un altra. In dieci metri di "vita di forme" ho compiuto forse quattro modulazioni, ma non penso di aver mai messo in discussione la tonalità fondamentale, ovvero “il reticolo”. Nell'inventare e organizzare le forme ho davvero pensato secondo una logica musicale. Per esempio all'inizio, dopo alcuni tremoli degli archi e alcuni accordi dei legni, attraverso un grandioso crescendo ho voluto in qualche modo rappresentare l'incipit eroico degli ottoni, elaborando due linee ascendenti. Solo a posteriori mi sono avveduto che quelli che per me erano due temi musicali, erano da tutti scambiati per due uccelli meccanici. Più avanti nella composizione, avevo avvertito la necessità di un'entità curvilinea che contrastasse con il rigoroso schema contrappuntistico creato da quella sorta di circuito integrato preso a modello. L'ectoplasma che così è venuto fuori era per me una nota bassa e corposa dei contrabbassi o dei controfagotti. Gli altri invece non hanno esitato a vedervi un fantasma o un topo! Si potrà mai fare a meno di questa ingombrante realtà?
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PAOLO BOVINO, compositore visuale e filmaker
Nasce a Torino nel 1970. Insegnante di letteratura italiana e storia dell’arte, autore di un trattato di estetica I limiti delle arti secondo l’effetto (1995) e di un Manifesto del Neopurismo (1997), per alcuni anni si dedica alla alla biblioteconomia e alla critica musicale, scrivendo sulla rivista Musicalia. Come artista, essendo stato allievo di Giacomo Soffiantino, da un ventennio porta avanti la sua ricerca nell’ambito delle arti figurative con tecniche tradizionali, mirando all’astrattezza musicale, approdando a mostre quali “Dal suono al segno” (Torino, 2001), “Iuvenilia” (Basel, 2001) “I volti dell’eterno femminino” (Torino 2002), “Trasfigurazione” (Torino 2005), “La macchina nel tempo” (Torino 2007). Vincitore del premio “Casa Natale di Cesare Pavese” nel 1997, ha collaborato iconograficamente al volume “Il Millennio Composito di San Michele della Chiusa”, pubblicato da Melli. Di lui hanno parlato, fra gli altri, Angelo Caroli, Elisabetta Tolosano, Fernarda De Bernardi, Giangiorgio Massara. Assecondando la sua vocazione a cimentarsi in più campi espressivi, come videomaker ha prodotto documentari didattici in collaborazione con l’Istituto d’Arte “A. Passoni”, il Museo Nazionale del Cinema e la Fondazione Re Rebaudengo di Torino, nonché cortometraggi per l’Alpha Centauri Studium. Nel 2006 ha vinto il 1° premio al Civitavecchia Film Festival con l’opera Fra cielo e terra (8’) su musica di Shostakovic, trasmesso su Rai satellite, mentre recente è la collaborazione con l’attrice Elena Presti per un corto surreale su musica propria, Stupro (13’) girato nei luoghi storici di Torino, a sostegno dei diritti umani, contro la violenza alle donne. Nel 2009 la sua trasposizione filmica de “Il muro” di J. Sartre ottiene il “Premio Città di Torino” dal Museo diffuso della Resistenza.
Vive e lavora a Torino, in via Arduino 45.
Tel. 011-3017443; cell. 3498710909; paolobovino@alice.it
18
marzo 2011
Paolo Bovino – L’impero delle illusioni
Dal 18 marzo al 18 maggio 2011
arte contemporanea
Location
GOLDEN PALACE
Torino, Via Dell'arcivescovado, 14, (Torino)
Torino, Via Dell'arcivescovado, 14, (Torino)
Vernissage
18 Marzo 2011, dalle ore 18 alle 23
Sito web
www.paolobovino.com
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