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Fatma Bucak – Figlia dell’uomo
Prima mostra personale in Italia di Fatma Bucak.
Comunicato stampa
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Nel suo intenso lavoro fotografico e video Fatma Bucak (Iskenderun - Turchia, 1982) interpreta da anni, in prima persona, i grandi archetipi all’origine delle culture e delle tradizioni mediterranee, restituendone tutta la potenza drammatica e narrativa ma, al tempo stesso, operando in essi un intimo e sotterraneo tradimento, necessario ad insinuarvi nuove possibilità di significazione e di interpretazione.
İl suo lavoro è performativo, video e fotografico ma in una qualche misura anche letterario, se si considera che l’intitolazione delle singole opere, spesso in latino, rimette in circolazione importanti riferimenti al mondo classico e rinascimentale, che vanno a collidere con la forza iconica, silenziosa, talvolta sofferente e talvolta monumentale, delle immagini. Per esempio le sonore risonanze classiche di Melancholia, titolo generale di due serie fotografiche elaborate nel corso di diversi anni, si precisano oggi grazie all’indicazione Father e Esso, che accompagnano alcune recenti opere esposte in questa mostra. Per realizzarle l’artista è tornata sul luogo del delitto, nel paesaggio straniato e arido dell’oriente anatolico in cui è nata, e si è messa in gioco insieme a un altro (in un solo caso un’altra) interprete in cui possiamo riconoscere il padre, la madre, il compagno. Giocando su immagini dallo straordinario impatto visivo, l’artista rimette in scena l’atavico, arcaico “dramma” della figlia in rapporto al padre, grande e temibile, biblico e coranico ma anche più genericamente mitico, greco e mediterraneo; e della donna rispetto all’uomo, relazione profana ma anche, anzi soprattutto, sacra, come dimostra la pesante pietra del rudere (un tempo una chiesa) che l’artista si carica in spalla, mentre la figura maschile, con le mani in mano, non guarda, volta le spalle e, semplicemente, attende.
İl titolo di questa opera, Esso, richiama un vecchio e poco noto film di Luis Buñuel, El, girato nel 1952 e dedicato, non a caso, all’ossessione di possesso e di controllo di tutto ciò che è la “donna” da parte del perturbato e paranoico protagonista maschile. Ma quello che per Buñuel si iscrive sullo sfondo del pensiero di Freud, quindi della psicanalisi, per Bucak, invece, si iscrive nello scenario delle grandi categorie archetipe, quindi ancora, più radicalmente, del mito.
Fortissimo è anche l’insieme costituito dalla piccola figura femminile, dalla squillante chioma rossa (la figlia), accucciata ai piedi di un uomo maturo, serio, vestito di nero (il padre). Intorno a loro un paesaggio straniante, un sassoso campo di grandi girasoli rinsecchiti e aridi, senza vita. L’artista indossa sempre un abito bianco e ha il viso nascosto dai capelli: solo gli altri hanno un volto, lei, la donna, colpevole, la donna giovane, il capro espiatorio cui tocca farsi carico di questa specie di peccato originale che si rinnova ogni volta e rimbalza da una generazione all’altra e da oriente a occidente, non ha identità ma solo una chioma a ripararla e a cancellarla. Lei è “tutte” e, naturalmente, “nessuno”.
İn queste grandi immagini silenziose, indecifrabili, antiche, rivivono antichi topoi della narrazione biblica e coranica ma sempre, come si è detto, leggermente alterati, rivissuti, ridiscussi, tanto da comprometterne il possibile significato originario. È la figlia, per esempio, che si affaccenda intorno all’agnello insanguinato sull’altare del sacrificio, mentre il Padre corrucciato le volta le spalle; è lei che si fa carico della sacra pietra di fronte all’uomo, è ancora lei che si lascia trascinare per i capelli dalla madre, sub specie di cadavere in un selvatico pellegrinaggio sulla terra screpolata delle steppe.
Fatma Bucak è una delle voci femminili più originali e coraggiose che emergono oggi dal Mediterraneo, che riesce a fondere insieme la perentoria presenza del testo sacro all’intensità della tragedia classica alle vibrazioni del vissuto reale, della narrazione autobiografica: di una giovane donna che nel suo percorso ha attraversato già tanti mondi.
Una forte valenza autobiografica sostanzia anche il video After a coup d’état when my father and his comrades were communist professors in Eastern Turkey. Anche in questo caso l’artista ritorna all’antefatto, si tuffa a capofitto nel passato per inquadrare una casa distrutta in un villaggio altrettanto devastato, deserto di qualunque essere vivente se non quella di un cane. Ambiguo, il cane, affettuoso e “migliore amico” in occidente, nell’Islam è una creatura impura e spregevole. Cosa segnala dunque la sua presenza in quel luogo che reca in se le cicatrici della devastazione, vagamente sinistro? La giovane artista, inginocchiata tra le rovine, lentamente si taglia i capelli mentre lo sguardo di un’altra telecamera esplora inquieto, una dopo l’altra, le stanze deturpate, gli ambienti offesi, volando sempre basso, tanto da non essere visibile attraverso le finestre. Un vecchio trucco quest’ultimo, largamente diffuso fra i perseguitati, che sono spiati da fuori e che hanno imparato ad abitare la propria casa senza rendersi visibili dall’esterno.
Fatma Bucak non spiega niente: anche in questo caso, non c’è parola, non si dice nulla. C’è però un padre, anzi non uno ma proprio quello, il suo, la persecuzione in un villaggio remoto, l’immenso silenzio delle rovine, l’espiazione simbolica della colpa. È mai possibile che in questi nostri tempi si parli di questo, ci sia attualità in cose così, che a qualcuno potrebbero sembrare soltanto retaggi di un remoto passato?! Ma certo. İl tempo non trascorre alla stessa velocità in tutte le diverse regioni del mondo, e in alcuni casi l’orologio sembra, anzi, girare al contrario.
È poi non c’è solo la “denuncia”, sarebbe troppo banale, troppo poco per Fatma Bucak, il cui lavoro è sempre fondato non su una soltanto ma su una serie di stratificazioni, ciascuna delle quali corrisponde a una possibilità e a un livello di senso; c’è l’immensa vitalità dell’archetipo in presenza del linguaggio “giusto”, della concentrazione adatta a riscuoterlo dalla suo torpore antico ma leggero. Quello dell’artista è un archetipo in prima, e sofferta, persona, un “femminile”, immensamente fragile ma che però ha la forza di scuotere tanti fantasmi, abitatori di tutte le epoche: fino a affondare, ancora, adesso nei nostri occhi e nelle nostre coscienze.
Martina Corgnati
İl suo lavoro è performativo, video e fotografico ma in una qualche misura anche letterario, se si considera che l’intitolazione delle singole opere, spesso in latino, rimette in circolazione importanti riferimenti al mondo classico e rinascimentale, che vanno a collidere con la forza iconica, silenziosa, talvolta sofferente e talvolta monumentale, delle immagini. Per esempio le sonore risonanze classiche di Melancholia, titolo generale di due serie fotografiche elaborate nel corso di diversi anni, si precisano oggi grazie all’indicazione Father e Esso, che accompagnano alcune recenti opere esposte in questa mostra. Per realizzarle l’artista è tornata sul luogo del delitto, nel paesaggio straniato e arido dell’oriente anatolico in cui è nata, e si è messa in gioco insieme a un altro (in un solo caso un’altra) interprete in cui possiamo riconoscere il padre, la madre, il compagno. Giocando su immagini dallo straordinario impatto visivo, l’artista rimette in scena l’atavico, arcaico “dramma” della figlia in rapporto al padre, grande e temibile, biblico e coranico ma anche più genericamente mitico, greco e mediterraneo; e della donna rispetto all’uomo, relazione profana ma anche, anzi soprattutto, sacra, come dimostra la pesante pietra del rudere (un tempo una chiesa) che l’artista si carica in spalla, mentre la figura maschile, con le mani in mano, non guarda, volta le spalle e, semplicemente, attende.
İl titolo di questa opera, Esso, richiama un vecchio e poco noto film di Luis Buñuel, El, girato nel 1952 e dedicato, non a caso, all’ossessione di possesso e di controllo di tutto ciò che è la “donna” da parte del perturbato e paranoico protagonista maschile. Ma quello che per Buñuel si iscrive sullo sfondo del pensiero di Freud, quindi della psicanalisi, per Bucak, invece, si iscrive nello scenario delle grandi categorie archetipe, quindi ancora, più radicalmente, del mito.
Fortissimo è anche l’insieme costituito dalla piccola figura femminile, dalla squillante chioma rossa (la figlia), accucciata ai piedi di un uomo maturo, serio, vestito di nero (il padre). Intorno a loro un paesaggio straniante, un sassoso campo di grandi girasoli rinsecchiti e aridi, senza vita. L’artista indossa sempre un abito bianco e ha il viso nascosto dai capelli: solo gli altri hanno un volto, lei, la donna, colpevole, la donna giovane, il capro espiatorio cui tocca farsi carico di questa specie di peccato originale che si rinnova ogni volta e rimbalza da una generazione all’altra e da oriente a occidente, non ha identità ma solo una chioma a ripararla e a cancellarla. Lei è “tutte” e, naturalmente, “nessuno”.
İn queste grandi immagini silenziose, indecifrabili, antiche, rivivono antichi topoi della narrazione biblica e coranica ma sempre, come si è detto, leggermente alterati, rivissuti, ridiscussi, tanto da comprometterne il possibile significato originario. È la figlia, per esempio, che si affaccenda intorno all’agnello insanguinato sull’altare del sacrificio, mentre il Padre corrucciato le volta le spalle; è lei che si fa carico della sacra pietra di fronte all’uomo, è ancora lei che si lascia trascinare per i capelli dalla madre, sub specie di cadavere in un selvatico pellegrinaggio sulla terra screpolata delle steppe.
Fatma Bucak è una delle voci femminili più originali e coraggiose che emergono oggi dal Mediterraneo, che riesce a fondere insieme la perentoria presenza del testo sacro all’intensità della tragedia classica alle vibrazioni del vissuto reale, della narrazione autobiografica: di una giovane donna che nel suo percorso ha attraversato già tanti mondi.
Una forte valenza autobiografica sostanzia anche il video After a coup d’état when my father and his comrades were communist professors in Eastern Turkey. Anche in questo caso l’artista ritorna all’antefatto, si tuffa a capofitto nel passato per inquadrare una casa distrutta in un villaggio altrettanto devastato, deserto di qualunque essere vivente se non quella di un cane. Ambiguo, il cane, affettuoso e “migliore amico” in occidente, nell’Islam è una creatura impura e spregevole. Cosa segnala dunque la sua presenza in quel luogo che reca in se le cicatrici della devastazione, vagamente sinistro? La giovane artista, inginocchiata tra le rovine, lentamente si taglia i capelli mentre lo sguardo di un’altra telecamera esplora inquieto, una dopo l’altra, le stanze deturpate, gli ambienti offesi, volando sempre basso, tanto da non essere visibile attraverso le finestre. Un vecchio trucco quest’ultimo, largamente diffuso fra i perseguitati, che sono spiati da fuori e che hanno imparato ad abitare la propria casa senza rendersi visibili dall’esterno.
Fatma Bucak non spiega niente: anche in questo caso, non c’è parola, non si dice nulla. C’è però un padre, anzi non uno ma proprio quello, il suo, la persecuzione in un villaggio remoto, l’immenso silenzio delle rovine, l’espiazione simbolica della colpa. È mai possibile che in questi nostri tempi si parli di questo, ci sia attualità in cose così, che a qualcuno potrebbero sembrare soltanto retaggi di un remoto passato?! Ma certo. İl tempo non trascorre alla stessa velocità in tutte le diverse regioni del mondo, e in alcuni casi l’orologio sembra, anzi, girare al contrario.
È poi non c’è solo la “denuncia”, sarebbe troppo banale, troppo poco per Fatma Bucak, il cui lavoro è sempre fondato non su una soltanto ma su una serie di stratificazioni, ciascuna delle quali corrisponde a una possibilità e a un livello di senso; c’è l’immensa vitalità dell’archetipo in presenza del linguaggio “giusto”, della concentrazione adatta a riscuoterlo dalla suo torpore antico ma leggero. Quello dell’artista è un archetipo in prima, e sofferta, persona, un “femminile”, immensamente fragile ma che però ha la forza di scuotere tanti fantasmi, abitatori di tutte le epoche: fino a affondare, ancora, adesso nei nostri occhi e nelle nostre coscienze.
Martina Corgnati
11
marzo 2011
Fatma Bucak – Figlia dell’uomo
Dall'undici marzo al 21 maggio 2011
arte contemporanea
Location
Simondi
Torino, Via Della Rocca, 29, (Torino)
Torino, Via Della Rocca, 29, (Torino)
Orario di apertura
da lunedì a sabato ore 15.30-19.30
Vernissage
11 Marzo 2011, ore 19.00
Autore