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Flavio Paolucci
Lo Studio Dabbeni presenta una mostra personale dell’artista Flavio Paolucci (Torre, Cantone Ticino, 1934).
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Lo Studio Dabbeni presenta una mostra personale
dell’artista Flavio Paolucci (Torre, Cantone Ticino, 1934).
Un’immagine, a cui egli ha dato rappresentazione in molti
suoi lavori, suscita un profondo fascino sull’artista: si tratta
della visione di una casa abbandonata, in fondo alla valle,
in cui tra i ruderi logori, i lacerti di muro, ha preso il
sopravvento la natura. In un’opera, esposta in galleria, dei
rami di albero, bronzei, emergono dal tetto scoperchiato di
una piccola casa in rovina. Non sono paesaggi terrestri.
Sono paesaggi dell’anima.
Flavio Paolucci vive da sempre un rapporto intimo con la
natura. La natura prevale; l’artista pensa che “quando
l’uomo abbandona, è lei a dominare”. Egli ha compiuto una
scelta di vita: risiedere a Biasca, in Ticino, radicato alle sue
origini. In un atelier posto ai piedi della montagna, in cui la
luce penetra dalle enormi vetrate, l’artista lavora
instancabilmente, dando rappresentazione alle sue visioni.
Negli spazi dello Studio Dabbeni i lavori sembrano ruotare
attorno ad un nucleo, un’opera che costituisce il cuore
pulsante della mostra, posta nella sala centrale della
galleria. Essa è costituita da un tronco bronzeo, grande,
nodoso, possente, anche se ormai quasi caduto o deposto
a terra: è, infatti, appoggiato all’estremità superiore di una
cornice (di bronzo) che mostra entrambe le facce, costituite
da due superfici specchianti. Al suolo, di fronte ad ognuno
degli specchi, sono poste due esili foglie (una per lato),
anch’esse bronzee. L’artista, in questo lavoro, dà forma ad
un tutto, costituito da eterogenei elementi che cuce insieme
a filo doppio: il tronco, la cornice, gli specchi, le foglie. Ma
la visione nasconde un passaggio ulteriore: l’immagine
viene scomposta e frammentata dagli specchi.
Le opere di Flavio Paolucci richiedono allo spettatore di
essere contemplate in silenzio, a lungo, per essere davvero
percepite. La congiunzione di diversi elementi compositivi è
una caratteristica evidente del linguaggio dell’artista.
Paolucci posa i propri oggetti, come fossero creature, su
delle basi che pone a ridosso della parete ad una certa
altezza, in legno o in vetro, simili a mensole, che tracciano
idealmente la linea di un orizzonte o di un paesaggio. Esse
accolgono i singoli elementi che formano l’opera, e la
fissano a parete. In mostra, su una di queste mensole,
un’altra casa, in cui un raggio di sole, bronzeo, penetra
obliquamente. Si tratta spesso di brani desunti dalla natura.
“Io non penso che sia possibile tradire la relazione tra la
natura e l’uomo, che in ultima analisi ha origine dal giorno e
dalla notte, attraverso la vita e la morte, ma che
costantemente si rinnova” (Flavio Paolucci). Prevale, in
questi lavori, il gesto, la cura con cui da sempre l’artista
tratta ogni singolo elemento facente parte delle sue
composizioni, il controllo e la concentrazione di chi si è
sottratto ai ritmi incalzanti imposti dalla società, per vivere
appartato in un luogo suo.
La mostra si era aperta, nella prima sala della galleria, con
una serie di tre grandi carte caratterizzate da una
sostanziale uniformità degli sfondi. Il loro senso è stato
spiegato da Flavio Paolucci: l’artista ha voluto dare
rappresentazione ad un’ultima luce, alle ultime tracce di un
bagliore, che ci si lascia alle spalle prima di addentrarsi
nell’oscurità: un’esperienza che può essere vissuta
fisicamente e idealmente.
Nei suoi rigorosi e rarefatti lavori su carta, che si trovano
esposti in punti diversi della galleria, Paolucci tocca esiti in
cui la perfezione formale appare quasi matematica. La
carta, insieme al legno, è da sempre uno degli elementi più
amati e utilizzati dall’artista. Si era cimentato, in passato (a
partire dalla fine degli anni ’70), a rivestire di strati di carta e
colla i suoi legni, trovati nei boschi intorno alla casa, al
limitare di Biasca. Aveva così ottenuto su questi legni
naturali, una sorta di pelle, dai suggestivi colori del
sottobosco e delle rocce, che aveva fatto parlare Harald
Szeemann, in un suo saggio dedicato all’artista datato
1987, di “membrane di carta tesa e intessuta”,
riconoscendone il carattere di pelle, epitelio, derma (“Dalla
pelle al corpo – andata e ritorno” era il titolo del testo).
Szeemann, nel suo saggio, aveva ipotizzato una
conversione graduale del “pensiero dai tratti precisi
dell’artista in un linguaggio fluttuante, capace di trasportare
ed accentuare delicatamente il vago”. E, a tanti anni di
distanza, in questo giudizio può trovarsi qualcosa di valido
se si osservano i delicati lavori installativi a parete, che si
collocano all’interno degli spazi della galleria, in dialogo
costante con la terza dimensione.
Sono opere che paiono come sospese nel tempo.
Io trovo che i lavori di Flavio Paolucci siano densamente
romantici, ma di un romanticismo puro. (Valentina Bucco)
dell’artista Flavio Paolucci (Torre, Cantone Ticino, 1934).
Un’immagine, a cui egli ha dato rappresentazione in molti
suoi lavori, suscita un profondo fascino sull’artista: si tratta
della visione di una casa abbandonata, in fondo alla valle,
in cui tra i ruderi logori, i lacerti di muro, ha preso il
sopravvento la natura. In un’opera, esposta in galleria, dei
rami di albero, bronzei, emergono dal tetto scoperchiato di
una piccola casa in rovina. Non sono paesaggi terrestri.
Sono paesaggi dell’anima.
Flavio Paolucci vive da sempre un rapporto intimo con la
natura. La natura prevale; l’artista pensa che “quando
l’uomo abbandona, è lei a dominare”. Egli ha compiuto una
scelta di vita: risiedere a Biasca, in Ticino, radicato alle sue
origini. In un atelier posto ai piedi della montagna, in cui la
luce penetra dalle enormi vetrate, l’artista lavora
instancabilmente, dando rappresentazione alle sue visioni.
Negli spazi dello Studio Dabbeni i lavori sembrano ruotare
attorno ad un nucleo, un’opera che costituisce il cuore
pulsante della mostra, posta nella sala centrale della
galleria. Essa è costituita da un tronco bronzeo, grande,
nodoso, possente, anche se ormai quasi caduto o deposto
a terra: è, infatti, appoggiato all’estremità superiore di una
cornice (di bronzo) che mostra entrambe le facce, costituite
da due superfici specchianti. Al suolo, di fronte ad ognuno
degli specchi, sono poste due esili foglie (una per lato),
anch’esse bronzee. L’artista, in questo lavoro, dà forma ad
un tutto, costituito da eterogenei elementi che cuce insieme
a filo doppio: il tronco, la cornice, gli specchi, le foglie. Ma
la visione nasconde un passaggio ulteriore: l’immagine
viene scomposta e frammentata dagli specchi.
Le opere di Flavio Paolucci richiedono allo spettatore di
essere contemplate in silenzio, a lungo, per essere davvero
percepite. La congiunzione di diversi elementi compositivi è
una caratteristica evidente del linguaggio dell’artista.
Paolucci posa i propri oggetti, come fossero creature, su
delle basi che pone a ridosso della parete ad una certa
altezza, in legno o in vetro, simili a mensole, che tracciano
idealmente la linea di un orizzonte o di un paesaggio. Esse
accolgono i singoli elementi che formano l’opera, e la
fissano a parete. In mostra, su una di queste mensole,
un’altra casa, in cui un raggio di sole, bronzeo, penetra
obliquamente. Si tratta spesso di brani desunti dalla natura.
“Io non penso che sia possibile tradire la relazione tra la
natura e l’uomo, che in ultima analisi ha origine dal giorno e
dalla notte, attraverso la vita e la morte, ma che
costantemente si rinnova” (Flavio Paolucci). Prevale, in
questi lavori, il gesto, la cura con cui da sempre l’artista
tratta ogni singolo elemento facente parte delle sue
composizioni, il controllo e la concentrazione di chi si è
sottratto ai ritmi incalzanti imposti dalla società, per vivere
appartato in un luogo suo.
La mostra si era aperta, nella prima sala della galleria, con
una serie di tre grandi carte caratterizzate da una
sostanziale uniformità degli sfondi. Il loro senso è stato
spiegato da Flavio Paolucci: l’artista ha voluto dare
rappresentazione ad un’ultima luce, alle ultime tracce di un
bagliore, che ci si lascia alle spalle prima di addentrarsi
nell’oscurità: un’esperienza che può essere vissuta
fisicamente e idealmente.
Nei suoi rigorosi e rarefatti lavori su carta, che si trovano
esposti in punti diversi della galleria, Paolucci tocca esiti in
cui la perfezione formale appare quasi matematica. La
carta, insieme al legno, è da sempre uno degli elementi più
amati e utilizzati dall’artista. Si era cimentato, in passato (a
partire dalla fine degli anni ’70), a rivestire di strati di carta e
colla i suoi legni, trovati nei boschi intorno alla casa, al
limitare di Biasca. Aveva così ottenuto su questi legni
naturali, una sorta di pelle, dai suggestivi colori del
sottobosco e delle rocce, che aveva fatto parlare Harald
Szeemann, in un suo saggio dedicato all’artista datato
1987, di “membrane di carta tesa e intessuta”,
riconoscendone il carattere di pelle, epitelio, derma (“Dalla
pelle al corpo – andata e ritorno” era il titolo del testo).
Szeemann, nel suo saggio, aveva ipotizzato una
conversione graduale del “pensiero dai tratti precisi
dell’artista in un linguaggio fluttuante, capace di trasportare
ed accentuare delicatamente il vago”. E, a tanti anni di
distanza, in questo giudizio può trovarsi qualcosa di valido
se si osservano i delicati lavori installativi a parete, che si
collocano all’interno degli spazi della galleria, in dialogo
costante con la terza dimensione.
Sono opere che paiono come sospese nel tempo.
Io trovo che i lavori di Flavio Paolucci siano densamente
romantici, ma di un romanticismo puro. (Valentina Bucco)
10
dicembre 2009
Flavio Paolucci
Dal 10 dicembre 2009 al 27 febbraio 2010
arte contemporanea
Location
STUDIO D’ARTE CONTEMPORANEA DABBENI
Lugano, Corso Enrico Pestalozzi, 1, (Lugano)
Lugano, Corso Enrico Pestalozzi, 1, (Lugano)
Orario di apertura
Da martedì a venerdì ore 09.30 – 12.00 / 14.30 – 18.30,
sabato ore 09.30 – 12.00 / 14.30 – 17.00 / domenica e lunedì chiuso
Vernissage
10 Dicembre 2009, ore 18,00
Autore