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Maria Grazia Filetto – Una storia bestiale
E’ l’immaginario in un bestiario come frutto della creatività di un’artista
che lega la molteplicità del segno calcografico alla poesia e alla denuncia.
Maria Grazia Filetto ci presenta questo suo rapporto con il mondo animale, e sembra volerci dire, o meglio: avvisare, di non fermarci qui.
Comunicato stampa
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L’immaginario in un bestiario dalle suggestioni medievali, quando il Bestiarium era il compendio descrittivo di animali, tra il reale e il fantastico, attraverso riferimenti religiosi e mitologici, ma soprattutto simbolici. E ieri come oggi, l’arte contemporanea ne trae spunto e riflessione in una sorta di richiamo alla natura per esorcizzarne i mali prodotti dall’uomo in un’epoca che tutto distrugge.
Maria Grazia Filetto ci presenta questo suo rapporto con il mondo animale, e sembra volerci dire, o meglio: avvisare, di non fermarci al caleidoscopico raffigurare un repertorio inesauribile nei secoli, ma quanto il penetrare e il cogliere non già un valore estetico ma quello del nostro vivere che sempre più va verso un animalesco egoismo e un edonismo cui solo la corona di un pavone può forse resistere.
L’intento, dunque, di questa rassegna è l’affermazione di una possibilità alla conoscenza umana di raggiungere i veri valori attraverso l’immagine zoomorfa assunta per parlare non già di una rivoluzione linguistica, sviluppata proprio nel Bestiario di inizio Novecento, ma come passaggio dal figurativo al non oggettivo. Non a caso, quindi, il riferimento ai bestiari medievali che iniziavano tutti con passi della Bibbia, in particolare della Genesi. Ne consegue che Maria Grazia Filetto in questa sua storia d’acqua, di terra e di cielo ponga le norme della vita morale e della felicità, invitando ad andare oltre l’io e l’inconscio, verso nuovi scenari, verso il presente che è già futuro e a rappresentarlo con i propri occhi, per sostituire ad esso il concreto dell’individuo, dell’essere persona, voltando pagina ed allargando il proprio sguardo in un paradigma per indagare intorno alla follia e insieme alla pochezza del mondo umano.
Nelle incisioni di Maria Grazia Filetto il segno scava nel profondo di immaterialità oniriche, nell’acribia di precise interpretazioni le cui qualità emergono con la forza del bianconero, nei dettagli torniti, che solo la maniera nera può dare, oppure perdersi nelle evanescenze dell’acquatinta che trova consistenza nella vernice allo zucchero, mentre l’acquaforte s’accompagna, in alcune delle opere in mostra, alla puntasecca. Così nelle xilografie, dove s’approccia il colore e le forme prendono corpo in allegorie tra intenti estetici e ritorno ai primordi, all’acqua che incede tra forme fluttuanti, in obbiettive e visuali rappresentazioni della natura, in agglomerate emanazioni di luce e guizzi sinuosi. Non mostri marini e neanche grifoni, dunque, unicorni o chimere, né gli esseri di Mary Shelley o le gorgoni della mitologia greca o i demoni di Bosch, ma semplicemente le creature che popolano il nostro universo e il mondo artistico di Filetto. Figure reali dal fantastico che trova posto soltanto nel suo personalissimo modo e stile di rappresentazione, come nelle conchiglie o nelle ali di farfalle in volo, che non sono altro se non lo smitizzare l’era della scienza e della tecnologia, le paure, qui rappresentate dall’urlo di un gorilla. Ed è proprio l’universo scimmiesco di Maria Grazia Filetto a farci ritornare in quel monstrum che ha del meraviglioso fin dalla tradizione antica, romanica e gotica, e che ha sempre attratto artisti, scrittori, poeti, drammaturghi.
Sono le scimmie il leitmotiv di questa mostra, così come per Mario Merz la lucertola, per Isgrò le formiche o per Pascali il rinoceronte o per Savinio i pesci - spesso richiamato in una simbologia cristiana – o i cavalli per il fratello De Chirico, cui potremmo riandare per l’impaginazione semantica da cui discende la calcografia di Filetto, perché in lei rimane non l’insoddisfazione né l’impossibilità di salvezza ma solo elementi che danno vita anelante.
Sono le scimmie di Maria Grazia Filetto, homo faber del globalismo, a costituire il punto di raccordo tra la necessità dell’andare al di là della consuetudine alienante e lo scoprire che possiamo e dobbiamo farlo, pur se calati in situazioni diverse, in una scena che questa storia riporta a tante altre storie, da quella dell’uomo protagonista agli aspetti misteriosi e sconvolgenti del vivere nel buio dei compromessi, sordi e ciechi al canto di un uccello, allo scorrere dell’acqua, al gridare delle scimmie, in una sorta di obnubilamento come nelle sonorità silenziose delle musiche di Mallarmé, pause dove collocare la dimenticanza dell’unicità dell’uomo che è la premessa per ogni disumanità. Ecco, allora, che il bestiario di Maria Grazia Filetto è come un filo d’Arianna, a portarci fuori dalla foresta nichilista, genesi del momento in cui l’uomo è diventato uomo e l’animale ne resta diviso, rifiutando le trasformazioni che la natura porta con sé, lasciando quel sapere simbolico se mai fosse necessario trovarne la chiave di lettura, così come attraverso il linguaggio l’uomo può tacere ciò che ha deciso di non comunicare. Peculiarità che cambierebbero il corso dell’umanità, come a studiare la metamorfosi kafkiana, in una storia tremendamente drammatica e violenta a rappresentare l’uomo contemporaneo, schiacciato da una realtà che lo opprime e che non riesce più a capire.
Sono i principi di una diversa antropologia cui Filetto guarda con la cultura che pure muove le sue scelte, vibranti grazie alla capacità tecnica e fuori da tutti i possibili riti descrittivi sotto la pelle di acquetinte radicate dai tempi di cui si è persa la memoria. Ognuna delle incisioni esposte, infatti, richiede una certa attenzione, per fugare l’enigmaticità di alcune alterazioni metamorfiche, a partire dal suo Autoritratto, ma pure ad andare tra fascino e inquietudine nel bosco della nostra anima, nella suggestione di una metafora che è arte colta, che non disdegna l’immaginifico e non dimentica quanto Plutarco affermava sugli animali che possono servire da esempio agli uomini.
Oppure nell’Urlo di Maria Grazia Filetto assurto a icona di una storia bestiale permette di comunicare con chi non ha voce ed è il ponte che supera il silenzio tra uomo e animale, simbolo di una condizione irrazionale e originaria dell’essere umano, straziante nella voragine che s’apre a dare spazio a una migrazione del pensiero verso dimensioni interiori capaci di far vivere al fruitore sensazioni d’immersione in un luogo selvaggio dove orientarsi o disorientarsi per disegnare altre vie, per tradurre la propria esistenza in una natura intesa come “libro scritto dal dito di Dio”, teofania contenente il codice cifrato della Creazione, nei signum incisi sulle lastre che rivelano il raccontare zoomorfo dell’artista che si muove fra tradizione e avanguardia di una umanità forte di passioni.
Sono allusioni come puro dadaismo nella fantasia di un canovaccio disegnato anche con impressioni autobiografiche, in cui prende vita una fauna immaginifica. Ecco allora che la storia di Maria Grazia Filetto dopo aver quasi sbeffeggiato la modernità evanescente ritorna alle sue conchiglie che si perdono nell’Oceano al tempo, svaniscono, s’attorcigliano, si lacerano in un cubismo orfico, in polimorfe spirali materiche che restituiscono lo scheletrico profilo di arcaiche illusioni, di imponderabili incarnazioni e negli istanti da catturare in una realtà in fuga. E’ l’immaginario in un bestiario come frutto della creatività di un’artista che lega la molteplicità del segno calcografico alla poesia e alla denuncia.
Andrea Barretta
Maria Grazia Filetto ci presenta questo suo rapporto con il mondo animale, e sembra volerci dire, o meglio: avvisare, di non fermarci al caleidoscopico raffigurare un repertorio inesauribile nei secoli, ma quanto il penetrare e il cogliere non già un valore estetico ma quello del nostro vivere che sempre più va verso un animalesco egoismo e un edonismo cui solo la corona di un pavone può forse resistere.
L’intento, dunque, di questa rassegna è l’affermazione di una possibilità alla conoscenza umana di raggiungere i veri valori attraverso l’immagine zoomorfa assunta per parlare non già di una rivoluzione linguistica, sviluppata proprio nel Bestiario di inizio Novecento, ma come passaggio dal figurativo al non oggettivo. Non a caso, quindi, il riferimento ai bestiari medievali che iniziavano tutti con passi della Bibbia, in particolare della Genesi. Ne consegue che Maria Grazia Filetto in questa sua storia d’acqua, di terra e di cielo ponga le norme della vita morale e della felicità, invitando ad andare oltre l’io e l’inconscio, verso nuovi scenari, verso il presente che è già futuro e a rappresentarlo con i propri occhi, per sostituire ad esso il concreto dell’individuo, dell’essere persona, voltando pagina ed allargando il proprio sguardo in un paradigma per indagare intorno alla follia e insieme alla pochezza del mondo umano.
Nelle incisioni di Maria Grazia Filetto il segno scava nel profondo di immaterialità oniriche, nell’acribia di precise interpretazioni le cui qualità emergono con la forza del bianconero, nei dettagli torniti, che solo la maniera nera può dare, oppure perdersi nelle evanescenze dell’acquatinta che trova consistenza nella vernice allo zucchero, mentre l’acquaforte s’accompagna, in alcune delle opere in mostra, alla puntasecca. Così nelle xilografie, dove s’approccia il colore e le forme prendono corpo in allegorie tra intenti estetici e ritorno ai primordi, all’acqua che incede tra forme fluttuanti, in obbiettive e visuali rappresentazioni della natura, in agglomerate emanazioni di luce e guizzi sinuosi. Non mostri marini e neanche grifoni, dunque, unicorni o chimere, né gli esseri di Mary Shelley o le gorgoni della mitologia greca o i demoni di Bosch, ma semplicemente le creature che popolano il nostro universo e il mondo artistico di Filetto. Figure reali dal fantastico che trova posto soltanto nel suo personalissimo modo e stile di rappresentazione, come nelle conchiglie o nelle ali di farfalle in volo, che non sono altro se non lo smitizzare l’era della scienza e della tecnologia, le paure, qui rappresentate dall’urlo di un gorilla. Ed è proprio l’universo scimmiesco di Maria Grazia Filetto a farci ritornare in quel monstrum che ha del meraviglioso fin dalla tradizione antica, romanica e gotica, e che ha sempre attratto artisti, scrittori, poeti, drammaturghi.
Sono le scimmie il leitmotiv di questa mostra, così come per Mario Merz la lucertola, per Isgrò le formiche o per Pascali il rinoceronte o per Savinio i pesci - spesso richiamato in una simbologia cristiana – o i cavalli per il fratello De Chirico, cui potremmo riandare per l’impaginazione semantica da cui discende la calcografia di Filetto, perché in lei rimane non l’insoddisfazione né l’impossibilità di salvezza ma solo elementi che danno vita anelante.
Sono le scimmie di Maria Grazia Filetto, homo faber del globalismo, a costituire il punto di raccordo tra la necessità dell’andare al di là della consuetudine alienante e lo scoprire che possiamo e dobbiamo farlo, pur se calati in situazioni diverse, in una scena che questa storia riporta a tante altre storie, da quella dell’uomo protagonista agli aspetti misteriosi e sconvolgenti del vivere nel buio dei compromessi, sordi e ciechi al canto di un uccello, allo scorrere dell’acqua, al gridare delle scimmie, in una sorta di obnubilamento come nelle sonorità silenziose delle musiche di Mallarmé, pause dove collocare la dimenticanza dell’unicità dell’uomo che è la premessa per ogni disumanità. Ecco, allora, che il bestiario di Maria Grazia Filetto è come un filo d’Arianna, a portarci fuori dalla foresta nichilista, genesi del momento in cui l’uomo è diventato uomo e l’animale ne resta diviso, rifiutando le trasformazioni che la natura porta con sé, lasciando quel sapere simbolico se mai fosse necessario trovarne la chiave di lettura, così come attraverso il linguaggio l’uomo può tacere ciò che ha deciso di non comunicare. Peculiarità che cambierebbero il corso dell’umanità, come a studiare la metamorfosi kafkiana, in una storia tremendamente drammatica e violenta a rappresentare l’uomo contemporaneo, schiacciato da una realtà che lo opprime e che non riesce più a capire.
Sono i principi di una diversa antropologia cui Filetto guarda con la cultura che pure muove le sue scelte, vibranti grazie alla capacità tecnica e fuori da tutti i possibili riti descrittivi sotto la pelle di acquetinte radicate dai tempi di cui si è persa la memoria. Ognuna delle incisioni esposte, infatti, richiede una certa attenzione, per fugare l’enigmaticità di alcune alterazioni metamorfiche, a partire dal suo Autoritratto, ma pure ad andare tra fascino e inquietudine nel bosco della nostra anima, nella suggestione di una metafora che è arte colta, che non disdegna l’immaginifico e non dimentica quanto Plutarco affermava sugli animali che possono servire da esempio agli uomini.
Oppure nell’Urlo di Maria Grazia Filetto assurto a icona di una storia bestiale permette di comunicare con chi non ha voce ed è il ponte che supera il silenzio tra uomo e animale, simbolo di una condizione irrazionale e originaria dell’essere umano, straziante nella voragine che s’apre a dare spazio a una migrazione del pensiero verso dimensioni interiori capaci di far vivere al fruitore sensazioni d’immersione in un luogo selvaggio dove orientarsi o disorientarsi per disegnare altre vie, per tradurre la propria esistenza in una natura intesa come “libro scritto dal dito di Dio”, teofania contenente il codice cifrato della Creazione, nei signum incisi sulle lastre che rivelano il raccontare zoomorfo dell’artista che si muove fra tradizione e avanguardia di una umanità forte di passioni.
Sono allusioni come puro dadaismo nella fantasia di un canovaccio disegnato anche con impressioni autobiografiche, in cui prende vita una fauna immaginifica. Ecco allora che la storia di Maria Grazia Filetto dopo aver quasi sbeffeggiato la modernità evanescente ritorna alle sue conchiglie che si perdono nell’Oceano al tempo, svaniscono, s’attorcigliano, si lacerano in un cubismo orfico, in polimorfe spirali materiche che restituiscono lo scheletrico profilo di arcaiche illusioni, di imponderabili incarnazioni e negli istanti da catturare in una realtà in fuga. E’ l’immaginario in un bestiario come frutto della creatività di un’artista che lega la molteplicità del segno calcografico alla poesia e alla denuncia.
Andrea Barretta
08
gennaio 2011
Maria Grazia Filetto – Una storia bestiale
Dall'otto gennaio al 26 febbraio 2011
arte contemporanea
Location
GALLERIA AB/ARTE
Brescia, Vicolo San Nicola, 6, (Brescia)
Brescia, Vicolo San Nicola, 6, (Brescia)
Biglietti
Ingresso libero
Orario di apertura
giovedì 15,30-19,30 venerdì e sabato 9,30-12,30 e 15,30-19,30
Vernissage
8 Gennaio 2011, Ore 18,00
Autore
Curatore