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Mario Pischedda – Dissipatio M.P.
Il nucleo centrale della mostra si compone di 672 immagini inviate dall’artista via mail a Eugenio Alberti Schatz nell’arco esatto di un anno.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
20 ottobre - 3 novembre 2010
Galleria Quintocortile e Shake Edizioni
viale Bligny 42 - Milano
Mario Pischedda - Dissipatio M.P.
opere dal 10 dicembre 2008 al 10 dicembre 2009
a cura di Donatella Airoldi e Eugenio Alberti Schatz
Il nucleo centrale della mostra si compone di 672 immagini inviate dall’artista via mail a Eugenio Alberti Schatz nell’arco esatto di un anno. Ritratti, fotomontaggi, paesaggi, dettagli, appunti, invenzioni strabilianti: la fotografia compulsiva di Pischedda è uno sketchblog, una riflessione sulla realtà come scrigno di belle immagini, sul potere violento del diaframma e al tempo stesso sui grandi fiumi tranquilli che ci sommergono di giacimenti enormi di pixel. Accanto a questo ciclo, sono esposti lavori fotografici degli anni precedenti (2003, 2004, 2005) e il trittico esposto nel 2004 nell’ambito del Progetto Arti Visive del Festival Time in Jazz di Berchidda (l’edizione di quell’anno era dedicata alla follia).
inaugurazione mercoledì 20 ottobre ore 18
Nell’ambito della mostra, martedì 26 ottobre ore 21 da Shake Edizioni
Conversazione sulla bulimia delle immagini
Partecipano:
Mario Pischedda (artista)
Donatella Airoldi ed Eugenio Alberti Schatz (curatori della mostra)
Antonio Casilli (sociologo)
Filippo Pretolani (economista ed esperto di reti sociali)
L’incontro si chiuderà con un’asta delle opere battuta dall’artista
orario: da martedì a venerdì dalle 17,00 alle 19,00 (fino al 3 novembre 2010)
Donatella Airoldi
Scatti
“Quel tentare di andare al di là di me stesso che non fotografa mai l’esistente”.
Autoritratti, tanti, con gli occhi di fuoco, chiusi, aperti, la testa gialla, la barba di filo di ferro che sembra ricoprire la fronte, gli zigomi, il cranio, le orecchie, “fotografia non somigliante, crepuscolare, silenziosa, a colori”.
Mario Pischedda. C’è un suo autoritratto dove, schiacciati sul viso come se non li avesse mai tolti, campeggiano un paio d’occhialini da piscina o da mare con paperette ai lati gialle e rosse. Quasi fossilizzati dall’infanzia dannata o angelica gli occhialetti rubano il primo posto. E lui sembra cresciuto con loro. Impudico anche verso se stesso, la sua mano-mannaia cala impietosa sul pulsante del click per darci immagini in cui il piacevole si confonde con lo spiacevole, il bello col brutto e dove non c’è scampo per nessuno, nemmeno per se stesso. Scatti, furibondi scatti, miliardi di attimi rubati, incapsulati, trattenuti in una rete invisibile intessuta da una sorta di grande ragno carnivoro e titoli, frasi sibilline che ci conducono a letture ben al di là dell’apparenza. Ogni secondo dell’esistenza può essere fermato in immagini costanti ripetitive ossessive inclinate orizzontali allungate ristrette spezzettate. Una frammentazione della realtà che tradisce il desiderio di voler impossessarsi dell’universale, di ogni cosa che sta attorno, degli oggetti, delle persone, dei cieli e degli inferi per restituirci il loro grottesco, le loro altre mille dimensioni che spesso ci sfarfallano davanti e che non riusciamo a cogliere.
“Coppia in coppia”, attimo colto al volo, stesso passo, stessa gamba in avanti, stesso ritmo, come in una parata militare. Immagini nature e immagini manipolate, ci sono sezioni, raggruppamenti costituiti da metafore, da somiglianze, da angolature differenti di una stessa cosa. La foto di un personaggio vestito di rosso con una valigia rossa si intitola ‘green’, un suo autoritratto con gli occhiali dalle lenti non trasparenti “vedo male”. Il gusto del paradosso, dell’affermare negando e del negare affermando ci portano in una dimensione assolutamente surreale in cui lo scherzo si confonde con lo sbeffeggio e la tragedia si veste da ironia.
Immagini che sono soprattutto occasioni per parlare, per raccontare con parole e immagini, quasi uno story-board, la grande sceneggiatura dell’esistenza.
Questo artista porta l’assurdo gioco dell’immensità in formati fotografati, poco digeriti, assimilati come corpi estranei e successivamente rigettati in piccoli formati cartacei, opachi o lucidi.
L’oggetto scelto viene captato nelle torri sagomate, nelle viuzze sarde, nell’oscurità della tempesta furiosa, nelle saracinesche chiuse, nelle strade a righe bianche e blu con punte accese annerite dal fuoco. O colto al volo nella fulmineità del presente.
In questi scatti a volte si intuisce un qualcosa che sta incombendo sulla scena, forse drammi nascosti, forse invadenti adiacenze, ma questo qualcosa non viene mai visualizzato, come in un non volutamente detto, per dare forse dubbio e sostanziale ambiguità. C’è un uomo incapsulato sulla spiaggia, plastificato quanto basta, una placenta contemporanea per un uomo che ha già preso troppa luce ed è un neo-nato un po’ adulto, già vestito. E ci sono, fondamentali, le variazioni-contaminazioni ottenute con il mezzo digitale che deformano, colorano, clonano, sfumano. E’ come se il campo focale fosse impazzito, ognuno con un proprio primo piano, la visione si allontana e nulla, del vero, si vede. C’è una continua opera di manipolazione e restituzione dell’immagine in chiave altra dall’origine, che è sempre semplicemente un pretesto, una tavolozza da cui inventare visioni del mondo assolutamente originali. Le fotografie di “Pixel” sono letture di realtà, sono proposizioni di realtà, sono tangibilità estrapolate dalle realtà visibili.
E lui continua incessantemente a raccogliere, ripigliare ogni cosa che lo sfiora.
‘La finitezza e la libertà dell’esserci sono dunque le condizioni che purificano l’orizzonte dell’apertura di ogni evento che non sia il libero e-venire dell’essere. La ventura dell’essere, poi accade secondo quella sorte misteriosa che è il presentarsi assentandosi’. (Heidegger)
Il telefono cellulare tenta di riconnettersi automaticamente al servizio fino a quando la connessione non viene terminata.
Le fotografie di Pischedda sono opere senza ultimo termine, doviziose di solitudine, corpi, segregazione, immensità, massa si presentano come un’immane confluenza di episodi contemporanei che diventano straordinari nella loro pregnanza magnetica.
Con un paragone un po’ azzardato potremmo accomunare queste opere al lavoro singolare di Bruno Munari che con le sue opere ironiche e di apparente semplice lettura aprono vortici di pensiero inusitati e irreali.
La creatività è una sensibilizzazione della bocca mentale, una capacità di comunicazione visiva inconsueta e non banale che strappa al fruitore una chiave di lettura con bomboletta spray rischiarando annebbiate menti banalizzate. Pischedda ci dilata la mente con una riflessione speculare su una quotidianità onnivora, sempre portatile e affamata di luoghi, corpi, ambienti, strutture, paesaggi, masse di gente. Fagocitati da un obbiettivo circolare con aspirapolvere annessa i soggetti sembrano essere espulsi da un computer digitale a ritmi alternati come in un’ eterna parodia dell’essere.
Elettroshock di lento esilio e di pillole dolor-famigliar-social formato fotografato.
Eugenio Alberti Schatz
Cinque passi verso il delirio di Mario Pischedda
(…)
3. Herzog, il canto di vetro. “…L’estremo limite del mondo comincia a sprofondare. Tutto sprofonda, sempre di più. Si rovescia, e cade. Cade. Continua a cadere. E rapito da questo vortice, io guardo. Sento un risucchio avvolgermi, trascinarmi, portarvi via. Io precipito. Scivolo sempre più in basso. È la vertigine. (pausa) Sì, il mio sguardo ora è fisso su un punto di quella cascata. Io cerco un luogo, un rifugio dove i miei occhi possano trovare pace. E divento leggero, sempre più leggero. Il mio corpo si dissolve nel nulla, come ogni cosa intorno a me. Io volo in alto. E da questa caduta, questo volo, il primo sussulto di una nuova terra, nelle acque il ricordo di Atlantide. Io vedo una nuova terra che nasce.” È l’incipit del film di Werner Herzog Cuore di vetro, del 1975. Sono parole lette fuori campo sopra immagini sgranate e bruciate di un torrente, una cascata e poi anse di un fiume e viste di boschi morbidi. Parole dense e oscure come la mente del suo autore, ma a tratti fulminee e quasi sempre profetiche. Possono essere decrittate come un manifesto estetico; come un’impronta del ’68 (“c’è bisogno di distruggere una casa per costruirne una nuova”); o come una riflessione sui torrenti di immagini che premono sui bulbi oculari. Il film è la storia della perdita del segreto per soffiare il vetro rosso in un villaggio tedesco fuori dal tempo. Il vetro fragile e prezioso è al centro di un’ossessione collettiva, quel vetro-silicio con cui si fabbricano gli schermi che ci inseguono fino alla toilette. La salvezza di fronte allo scroscio delle immagini è fissare “un punto di quella cascata”. Un punto. Un punto su cui l’occhio può posare il piede e tentare una risalita di senso. La libertà nuova è che quel punto lo spettatore lo stabilisce a piacimento, in un mondo circolare, rotante. Siamo tutti dervisci dello sguardo. Panta rei: datemi un punto e vi solleverò il mondo. Non c’è più inizio o fine, ci sono cascate di immagini che portano in grembo un nuovo inizio in potenza a ogni passo, a ogni frame. Che importa se è preso a caso, importa che da quel punto io faccio gemmare un altro torrente, a dispetto di qualsiasi legge fisica o umana, il mio torrente. In un certo senso, la proliferazione virale delle immagini (sembra Andromeda), fa di noi tutti creativi, tutti critici, lo spettatore inerme non ha più senso. Siamo sfidati a mettere punti nella corrente, nessuno lo farà più in vece nostra. La fluidità, l’ammasso stellare di immagini, fanno brutale appello alla nostra intelligenza. Scoraggiano. Fanno venire il latte della nostalgia alle ginocchia, il rimpianto di un mondo ordinato e ricco di gerarchie. L’assenza di schemi toglie il fiato, produce immondizia e demagogia. Ma superata la vertigine, i margini di crescita individuale sono interessanti. Semmai, il costo elevato è sul piano sociale: ci siamo svegliati più intelligenti ma anche più soli e disarmati, perché i nuovi torrenti di cui siamo artefici raramente combaciano fra loro. Guardiamo al mondo con dolcezza, in un day after immersivo senza superstiti eccetto l’occhio che guarda se stesso mentre guarda.
(…)
Testo integrale su www.ladomir.com, sezione Eugenio Alberti, Critica d’arte.
Mario Pischedda (Pixel) è un artista-performer poliedrico che ha attraversato d’impeto gli ambiti della fotografia etnografica, delle immagini digitali, della videoarte, del blogging, delle performance e della poesia. Ha collaborato per molti anni con la rivista Frigidaire di Filippo Scozzari e Vincenzo Sparagna, pur mantenendo un’identità ‘sciolta’ rispetto alla cultura underground. Grande amico di Enrico Ghezzi, su cui ha girato un film, lo trovi una sera a un concerto di Paolo Fresu, e il giorno dopo a esporre le proprie immagini nelle strade di uno sperduto paesino. È stato selezionato fra gli artisti della Saatchi Gallery di Londra. Nel 2010 ha partecipato insieme a Stefano Daveti alla mostra Arte Avanzata – Korf 2010, al Camec Centro di Arte Moderna e Contemporanea di La Spezia. Vive e lavora a Tempio Pausania, in Sardegna, che utilizza come base per temerarie spedizioni in continente.
Di sé ha scritto: “Mariopischeddainmovement, smemorato di Collegno, improbabile autore, cortocircuitista della parola, in sovrappeso, in una età che avanza, ha deciso di aderire a sé in un mondo di espropriati di identità, fotografa in disordine, canta in solitudine e coltiva senza additivi chimici, l’arte è di tipo istantaneo e nella immagine e nella parola e nel suono e nel video, persegue un progetto entropico, asistematico e disordinato, caotico e stoico, rivoluzionario e conservatore, non ha archivi né più ricordi che vanno man mano affievolendosi, ogni momento è l’inizio della perenne contraddizione del vivere effimero di ognuno e della tautologia costante e inutile dell’arte e questa angoscia disperata e disperante è quanto cerca di testimoniare nelle rare occasioni che gli vengono concesse o che gli si presentano... Perché tutto è molto incosistente ed effimero etc. etc. etc. etcì.”
Galleria Quintocortile e Shake Edizioni
viale Bligny 42 - Milano
Mario Pischedda - Dissipatio M.P.
opere dal 10 dicembre 2008 al 10 dicembre 2009
a cura di Donatella Airoldi e Eugenio Alberti Schatz
Il nucleo centrale della mostra si compone di 672 immagini inviate dall’artista via mail a Eugenio Alberti Schatz nell’arco esatto di un anno. Ritratti, fotomontaggi, paesaggi, dettagli, appunti, invenzioni strabilianti: la fotografia compulsiva di Pischedda è uno sketchblog, una riflessione sulla realtà come scrigno di belle immagini, sul potere violento del diaframma e al tempo stesso sui grandi fiumi tranquilli che ci sommergono di giacimenti enormi di pixel. Accanto a questo ciclo, sono esposti lavori fotografici degli anni precedenti (2003, 2004, 2005) e il trittico esposto nel 2004 nell’ambito del Progetto Arti Visive del Festival Time in Jazz di Berchidda (l’edizione di quell’anno era dedicata alla follia).
inaugurazione mercoledì 20 ottobre ore 18
Nell’ambito della mostra, martedì 26 ottobre ore 21 da Shake Edizioni
Conversazione sulla bulimia delle immagini
Partecipano:
Mario Pischedda (artista)
Donatella Airoldi ed Eugenio Alberti Schatz (curatori della mostra)
Antonio Casilli (sociologo)
Filippo Pretolani (economista ed esperto di reti sociali)
L’incontro si chiuderà con un’asta delle opere battuta dall’artista
orario: da martedì a venerdì dalle 17,00 alle 19,00 (fino al 3 novembre 2010)
Donatella Airoldi
Scatti
“Quel tentare di andare al di là di me stesso che non fotografa mai l’esistente”.
Autoritratti, tanti, con gli occhi di fuoco, chiusi, aperti, la testa gialla, la barba di filo di ferro che sembra ricoprire la fronte, gli zigomi, il cranio, le orecchie, “fotografia non somigliante, crepuscolare, silenziosa, a colori”.
Mario Pischedda. C’è un suo autoritratto dove, schiacciati sul viso come se non li avesse mai tolti, campeggiano un paio d’occhialini da piscina o da mare con paperette ai lati gialle e rosse. Quasi fossilizzati dall’infanzia dannata o angelica gli occhialetti rubano il primo posto. E lui sembra cresciuto con loro. Impudico anche verso se stesso, la sua mano-mannaia cala impietosa sul pulsante del click per darci immagini in cui il piacevole si confonde con lo spiacevole, il bello col brutto e dove non c’è scampo per nessuno, nemmeno per se stesso. Scatti, furibondi scatti, miliardi di attimi rubati, incapsulati, trattenuti in una rete invisibile intessuta da una sorta di grande ragno carnivoro e titoli, frasi sibilline che ci conducono a letture ben al di là dell’apparenza. Ogni secondo dell’esistenza può essere fermato in immagini costanti ripetitive ossessive inclinate orizzontali allungate ristrette spezzettate. Una frammentazione della realtà che tradisce il desiderio di voler impossessarsi dell’universale, di ogni cosa che sta attorno, degli oggetti, delle persone, dei cieli e degli inferi per restituirci il loro grottesco, le loro altre mille dimensioni che spesso ci sfarfallano davanti e che non riusciamo a cogliere.
“Coppia in coppia”, attimo colto al volo, stesso passo, stessa gamba in avanti, stesso ritmo, come in una parata militare. Immagini nature e immagini manipolate, ci sono sezioni, raggruppamenti costituiti da metafore, da somiglianze, da angolature differenti di una stessa cosa. La foto di un personaggio vestito di rosso con una valigia rossa si intitola ‘green’, un suo autoritratto con gli occhiali dalle lenti non trasparenti “vedo male”. Il gusto del paradosso, dell’affermare negando e del negare affermando ci portano in una dimensione assolutamente surreale in cui lo scherzo si confonde con lo sbeffeggio e la tragedia si veste da ironia.
Immagini che sono soprattutto occasioni per parlare, per raccontare con parole e immagini, quasi uno story-board, la grande sceneggiatura dell’esistenza.
Questo artista porta l’assurdo gioco dell’immensità in formati fotografati, poco digeriti, assimilati come corpi estranei e successivamente rigettati in piccoli formati cartacei, opachi o lucidi.
L’oggetto scelto viene captato nelle torri sagomate, nelle viuzze sarde, nell’oscurità della tempesta furiosa, nelle saracinesche chiuse, nelle strade a righe bianche e blu con punte accese annerite dal fuoco. O colto al volo nella fulmineità del presente.
In questi scatti a volte si intuisce un qualcosa che sta incombendo sulla scena, forse drammi nascosti, forse invadenti adiacenze, ma questo qualcosa non viene mai visualizzato, come in un non volutamente detto, per dare forse dubbio e sostanziale ambiguità. C’è un uomo incapsulato sulla spiaggia, plastificato quanto basta, una placenta contemporanea per un uomo che ha già preso troppa luce ed è un neo-nato un po’ adulto, già vestito. E ci sono, fondamentali, le variazioni-contaminazioni ottenute con il mezzo digitale che deformano, colorano, clonano, sfumano. E’ come se il campo focale fosse impazzito, ognuno con un proprio primo piano, la visione si allontana e nulla, del vero, si vede. C’è una continua opera di manipolazione e restituzione dell’immagine in chiave altra dall’origine, che è sempre semplicemente un pretesto, una tavolozza da cui inventare visioni del mondo assolutamente originali. Le fotografie di “Pixel” sono letture di realtà, sono proposizioni di realtà, sono tangibilità estrapolate dalle realtà visibili.
E lui continua incessantemente a raccogliere, ripigliare ogni cosa che lo sfiora.
‘La finitezza e la libertà dell’esserci sono dunque le condizioni che purificano l’orizzonte dell’apertura di ogni evento che non sia il libero e-venire dell’essere. La ventura dell’essere, poi accade secondo quella sorte misteriosa che è il presentarsi assentandosi’. (Heidegger)
Il telefono cellulare tenta di riconnettersi automaticamente al servizio fino a quando la connessione non viene terminata.
Le fotografie di Pischedda sono opere senza ultimo termine, doviziose di solitudine, corpi, segregazione, immensità, massa si presentano come un’immane confluenza di episodi contemporanei che diventano straordinari nella loro pregnanza magnetica.
Con un paragone un po’ azzardato potremmo accomunare queste opere al lavoro singolare di Bruno Munari che con le sue opere ironiche e di apparente semplice lettura aprono vortici di pensiero inusitati e irreali.
La creatività è una sensibilizzazione della bocca mentale, una capacità di comunicazione visiva inconsueta e non banale che strappa al fruitore una chiave di lettura con bomboletta spray rischiarando annebbiate menti banalizzate. Pischedda ci dilata la mente con una riflessione speculare su una quotidianità onnivora, sempre portatile e affamata di luoghi, corpi, ambienti, strutture, paesaggi, masse di gente. Fagocitati da un obbiettivo circolare con aspirapolvere annessa i soggetti sembrano essere espulsi da un computer digitale a ritmi alternati come in un’ eterna parodia dell’essere.
Elettroshock di lento esilio e di pillole dolor-famigliar-social formato fotografato.
Eugenio Alberti Schatz
Cinque passi verso il delirio di Mario Pischedda
(…)
3. Herzog, il canto di vetro. “…L’estremo limite del mondo comincia a sprofondare. Tutto sprofonda, sempre di più. Si rovescia, e cade. Cade. Continua a cadere. E rapito da questo vortice, io guardo. Sento un risucchio avvolgermi, trascinarmi, portarvi via. Io precipito. Scivolo sempre più in basso. È la vertigine. (pausa) Sì, il mio sguardo ora è fisso su un punto di quella cascata. Io cerco un luogo, un rifugio dove i miei occhi possano trovare pace. E divento leggero, sempre più leggero. Il mio corpo si dissolve nel nulla, come ogni cosa intorno a me. Io volo in alto. E da questa caduta, questo volo, il primo sussulto di una nuova terra, nelle acque il ricordo di Atlantide. Io vedo una nuova terra che nasce.” È l’incipit del film di Werner Herzog Cuore di vetro, del 1975. Sono parole lette fuori campo sopra immagini sgranate e bruciate di un torrente, una cascata e poi anse di un fiume e viste di boschi morbidi. Parole dense e oscure come la mente del suo autore, ma a tratti fulminee e quasi sempre profetiche. Possono essere decrittate come un manifesto estetico; come un’impronta del ’68 (“c’è bisogno di distruggere una casa per costruirne una nuova”); o come una riflessione sui torrenti di immagini che premono sui bulbi oculari. Il film è la storia della perdita del segreto per soffiare il vetro rosso in un villaggio tedesco fuori dal tempo. Il vetro fragile e prezioso è al centro di un’ossessione collettiva, quel vetro-silicio con cui si fabbricano gli schermi che ci inseguono fino alla toilette. La salvezza di fronte allo scroscio delle immagini è fissare “un punto di quella cascata”. Un punto. Un punto su cui l’occhio può posare il piede e tentare una risalita di senso. La libertà nuova è che quel punto lo spettatore lo stabilisce a piacimento, in un mondo circolare, rotante. Siamo tutti dervisci dello sguardo. Panta rei: datemi un punto e vi solleverò il mondo. Non c’è più inizio o fine, ci sono cascate di immagini che portano in grembo un nuovo inizio in potenza a ogni passo, a ogni frame. Che importa se è preso a caso, importa che da quel punto io faccio gemmare un altro torrente, a dispetto di qualsiasi legge fisica o umana, il mio torrente. In un certo senso, la proliferazione virale delle immagini (sembra Andromeda), fa di noi tutti creativi, tutti critici, lo spettatore inerme non ha più senso. Siamo sfidati a mettere punti nella corrente, nessuno lo farà più in vece nostra. La fluidità, l’ammasso stellare di immagini, fanno brutale appello alla nostra intelligenza. Scoraggiano. Fanno venire il latte della nostalgia alle ginocchia, il rimpianto di un mondo ordinato e ricco di gerarchie. L’assenza di schemi toglie il fiato, produce immondizia e demagogia. Ma superata la vertigine, i margini di crescita individuale sono interessanti. Semmai, il costo elevato è sul piano sociale: ci siamo svegliati più intelligenti ma anche più soli e disarmati, perché i nuovi torrenti di cui siamo artefici raramente combaciano fra loro. Guardiamo al mondo con dolcezza, in un day after immersivo senza superstiti eccetto l’occhio che guarda se stesso mentre guarda.
(…)
Testo integrale su www.ladomir.com, sezione Eugenio Alberti, Critica d’arte.
Mario Pischedda (Pixel) è un artista-performer poliedrico che ha attraversato d’impeto gli ambiti della fotografia etnografica, delle immagini digitali, della videoarte, del blogging, delle performance e della poesia. Ha collaborato per molti anni con la rivista Frigidaire di Filippo Scozzari e Vincenzo Sparagna, pur mantenendo un’identità ‘sciolta’ rispetto alla cultura underground. Grande amico di Enrico Ghezzi, su cui ha girato un film, lo trovi una sera a un concerto di Paolo Fresu, e il giorno dopo a esporre le proprie immagini nelle strade di uno sperduto paesino. È stato selezionato fra gli artisti della Saatchi Gallery di Londra. Nel 2010 ha partecipato insieme a Stefano Daveti alla mostra Arte Avanzata – Korf 2010, al Camec Centro di Arte Moderna e Contemporanea di La Spezia. Vive e lavora a Tempio Pausania, in Sardegna, che utilizza come base per temerarie spedizioni in continente.
Di sé ha scritto: “Mariopischeddainmovement, smemorato di Collegno, improbabile autore, cortocircuitista della parola, in sovrappeso, in una età che avanza, ha deciso di aderire a sé in un mondo di espropriati di identità, fotografa in disordine, canta in solitudine e coltiva senza additivi chimici, l’arte è di tipo istantaneo e nella immagine e nella parola e nel suono e nel video, persegue un progetto entropico, asistematico e disordinato, caotico e stoico, rivoluzionario e conservatore, non ha archivi né più ricordi che vanno man mano affievolendosi, ogni momento è l’inizio della perenne contraddizione del vivere effimero di ognuno e della tautologia costante e inutile dell’arte e questa angoscia disperata e disperante è quanto cerca di testimoniare nelle rare occasioni che gli vengono concesse o che gli si presentano... Perché tutto è molto incosistente ed effimero etc. etc. etc. etcì.”
20
ottobre 2010
Mario Pischedda – Dissipatio M.P.
Dal 20 ottobre al 03 novembre 2010
fotografia
Location
QUINTOCORTILE
Milano, Viale Bligny, 42, (Milano)
Milano, Viale Bligny, 42, (Milano)
Orario di apertura
da martedì a venerdì dalle 17 alle 19
Vernissage
20 Ottobre 2010, ore 18,00
Autore
Curatore