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Bruno Di Bello – Antologia
La mostra, che occupa tutti i tre piani dello spazio, ripercorre l’iter di questo artista, dalle prime esperienze di incrocio tra pittura e fotografia degli anni ’60, alle opere che lo hanno visto vicino alla Mec Art milanese, ai grandi quadri dove fonde scrittura e fotografia, fino alle più recenti astrazioni digitali.
Comunicato stampa
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Il 15 settembre la Fondazione Marconi presenta una antologia di opere di Bruno Di Bello. La mostra, che occupa tutti i tre piani dello spazio, ripercorre l’iter di questo artista, dalle prime esperienze di incrocio tra pittura e fotografia degli anni ’60, alle opere che lo hanno visto vicino alla Mec Art milanese, ai grandi quadri dove fonde scrittura e fotografia, fino alle più recenti astrazioni digitali.
Bruno Di Bello fa il suo ingresso nel panorama artistico aderendo al Gruppo ’58 di Napoli ma il suo lavoro si distacca da quello dei suoi amici per un riferimento ad un’arte segnica, astratta, più vicina ad esperienze di azzeramento della pittura. Nel ’66 mostra personale a Napoli alla galleria Lucio Amelio. A questo periodo corrispondono i primi esperimenti di riporto su tela fotografica usando immagini come quella del volto di Moshe Dayan (Studio per ritratto di condottiero, 1965) o di altre figure riprese dalla cronaca del tempo.
Nel ‘67 si stabilisce a Milano nel laboratorio del “Quartiere delle Botteghe” di Sesto San Giovanni, all’epoca abitata da vari artisti e nel ’68 aderisce alla Mec-Art, teorizzata da Pierre Restany.
Di Bello indaga sulle possibilità di scomposizione dell’immagine rendendo omaggio ai protagonisti delle avanguardie storiche e ai propri miti artistici (Klee, Duchamp, Man Ray, Mondrian e i costruttivisti russi) sviluppando così un’idea di arte come riflessione sulla storia dell’arte, in particolare sulle icone del movimento moderno, ma allo stesso tempo come riflessione sulla struttura dell’ immagine stessa. L’artista sceglie quindi un medium più freddo della pittura: la tela fotosensibile su cui ferma con la luce l’ immagine, che poi scompone, analizza, restituendone la ricomposizione allo sguardo dello spettatore .
Il lavoro sulla tela fotografica prosegue poi come ricerca sulla scrittura: ampie griglie all’interno delle quali la parola o la singola lettera o la firma di un artista vengono scomposte e ridotte ad asettici segni grafici come in Variazioni sulla firma di Klee, 1975 o Procedimento, 1974. Altri lavori degli anni ‘70/80 sono eseguiti disegnando sulla tela sensibile direttamente con il raggio di luce di una pila.
Negli anni ‘80 Di Bello sperimenta un nuovo modo di usare la luce giustapponendo tra la fonte luminosa e il supporto figure umane ed oggetti che proiettano su quest’ultimo le loro ombre sviluppando poi la tela con larghe pennellate di rivelatore come “Apollo e Dafne nel terremoto” eseguito per la collezione Terrae motus allestita da Lucio Amelio nel 1967 ed esposta a Parigi - Palais Royale, ora in permanenza presso la Reggia di Caserta.
A partire dagli anni ’90 Di Bello si dedica allo studio di nuove tecnologie operando ricerche sulle immagini sintetiche, la fotografia digitale e le nuove geometrie visualizzabili dal computer. Le forme visive ricercate da Di Bello derivano da fondamenti matematici e trovano espressione nella gelida geometria dei frattali.
L’esposizione documenta quindi la ricerca di Bruno Di Bello in quel percorso di progressiva “disumanizzazione dell’ arte“ così definita e teorizzata dal filosofo napoletano Mario Costa che scrive a proposito dell’artista: “Bruno Di Bello ha capito che il massimo dell’aseità dell’immagine, dovuto alla sua natura logica e dunque mentale, coincide con il massimo della sua freddezza, cioè con quanto egli è andato cercando per tutta la vita. Ha capito che le immagini digitali non rimandano a nessun soggetto e a nessun oggetto, che non hanno referente alcuno e che devono esse stesse essere trattate come dei referenti, cioè come delle nuove cose con le quali misurarsi sul piano dell’estetico”.
Nell’ occasione sarà presentata la monografia Bruno Di Bello - Antologia edita da Silvana Editoriale per la VAF Stiftung di Stuttgart a cura di Volker Feierabend con testi di Michele Buonuomo, Mario Costa e Angela Tecce.
Biografia
Bruno Di Bello è nato a Torre del Greco nel 1938. Vive e lavora a Milano.
Nel ‘58 frequenta ancora l’Accademia di Belle Arti di Napoli ma già espone e, con Biasi, Del Pezzo, Fergola, Luca e Persico, forma il “gruppo ‘58”.
Nel ‘62 prima mostra personale alla Galleria 2000 di Bologna, nel ‘66 espone a Napoli alla Modern Art Agency di Lucio Amelio i primi lavori su tela fotografica. Nel ‘67 si stabilisce a Milano.
Espone per la prima volta a Milano da Toselli nel ‘69 e nel ‘70 alla Galleria Kuchels, Bochum, alla Biennale di Venezia, alla galleria Wspòlczesna, Varsavia ed alla Galleria Bertesca di Genova.
Nel ‘71 prima personale allo Studio Marconi: un’istallazione composta di 26 tele fotografiche con la scomposizione dell’ intero alfabeto. Da Marconi esporrà anche nel ‘74, nel ‘76, nel ’78, nell’81 e nel 2003.
Altre sue importanti personali sono quelle del ‘74 alla Galleria Art in Progress di Munchen ed alla Kunsthalle Bern, nel ’75 all’I.C.C. di Antwerpen e alla Galleria Plurima di Udine, nel ’77 alla Galleria Lucio Amelio di Napoli .
Espone nel ‘78 alla Galleria Rondanini di Roma e nell’estate ‘80 realizza un grande lavoro per il Festival di Spoleto.
Sue opere sono state acquisite dal museo Boymans di Rotterdam, dalla Galleria d’Arte Contemporanea di Parma, dal Mambo di Bologna, dal museo Rufino Tamayo di Mexico City, dal museo di Dortmund e, recentemente, dalla galleria dell’ Accademia e dal Museo del ‘900 di Napoli
Bruno Di Bello. Quale ordine presiede al disordine? A quali leggi rigorose obbedisce il caos? E come è possibile inserirsi in esse e creare le varianti di un linguaggio che assume i colori della creatività e dell’arte? Ecco la storia di un uomo che, dopo una vita artistica tutta “all’avanguardia”, da dieci anni percorre e trasforma in capolavori questi affascinanti e misteriosi territori.
“Quello che io provo è il piacere dell’esploratore. Mi muovo in territori sconosciuti. Sono i luoghi delle nuove geometrie, quelli in cui il caso genera – smentendo le nostre convinzioni sulla sua natura – un proprio ordine, un sorprendente equilibrio, una autentica armonia. È un mondo all’infinito mutevole, legato a fantasie matematiche, aperto a interventi creativi e a suggestioni cromatiche. Un mondo antichissimo, addirittura primordiale nella sua struttura e nelle sue regole, e al tempo stesso fortissimamente connesso alle nuove tecnologie informatiche. Soprattutto possiede un fascino inesauribile: quello della continua provocazione all’indagine, alla ricerca, alla scoperta”.
Bruno Di Bello racconta così gli ultimi dieci anni della sua attività d’artista, strettamente connessa al mondo della geometria dei frattali e alle sue funzioni matematiche. E rivela subito il carattere ri-creativo delle sue molte vite (ogni uomo ha molte vite, ma sovente tende ad appiattirle in una mono-tonia, anziché esaltarne le differenze e i contrasti) e la vitalità rigeneratrice del suo approccio allo studio e alla rappresentazione delle forme, delle immagini, dei pensieri, dei sogni.
Ma per capire il senso di un percorso che ormai è considerevolmente lungo (Di Bello è nato nel 1938), è bene raccontare le cose come si deve, partendo – come ogni storia che si rispetti – dal loro inizio, a Torre del Greco.
“Negli anni ’40 e ‘50”, dice Di Bello, “Torre del Greco era il paese dei coralli e dei cammei. E in quell’Italia di provincia e ancora senza televisione, con l’unico cinema, il Vittoria, che proiettava film in bianco e nero, c’erano tre modi per passare il tempo: recitare nella filodrammatica, dedicarsi alla musica strimpellando la chitarra o impegnandosi negli studi di piano o violino, oppure indirizzarsi verso il disegno e la pittura che, proprio per la presenza dell’artigianato del corallo e dei cammei, potevano contare sul sostegno di una scuola d’arte. Alcuni miei coetanei, come Salvatore Accardo, scelsero la musica. Io, che in famiglia avevo un nonno e uno zio incisori, decisi per il liceo artistico a Napoli, con l’obiettivo di passare poi ad architettura”.
Fu al liceo che l’incontro con un insegnante bravissimo di figura e disegno, Renato Barisani, segnò la vita di Di Bello.
“Barisani”, ricorda, “sapeva cosa significa insegnare. Ti osservava, poi si sedeva al tuo posto, ti spiegava e ti correggeva. Nell’arte, come in tanti altri campi, non c’è migliore insegnamento dell’esempio diretto e concreto. Colsi al volo la possibilità di diventare, fuori dall’orario di lezione, il suo aiutante. Era un uomo colto e aggiornato, un artista d’avanguardia nel cui studio potevo consultare riviste e libri introvabili altrove, se non a Napoli, alla libreria americana dell’Usis. Picasso, Kandinsky, Klee: questi e tanti altri nomi li incontrai per la volta in quel periodo, imparando da Barisani cosa fosse l’arte e come si faceva. Poi, dopo il liceo, mi iscrissi all’attigua Accademia di belle arti. Quando si trattò di scegliere un artista sul quale scrivere la tesi (un saggio che doveva essere accompagnato da copie delle sue opere realizzate dallo studente) decisi per uno di quelli che preferivo, Paul Klee. Ma c’era un problema: non avevo mai visto i suoi quadri se non in riproduzioni fotografiche di qualità mediocre e che nulla mi dicevano delle sue tecniche stravaganti. Klee, per esempio, usava dipingere ad acquarello su un fondo di seta per aeromodelli spalmato di creta diluita. Quale modo avevo per approfondire conoscenze e argomenti così complessi e particolari, con i pochi mezzi che avevo a disposizione?”.
Il suggerimento giusto glielo diede un amico intraprendente, che lo consigliò di arrivare fino a Milano in treno e poi proseguire verso la Svizzera in autostop.
“Arrivare nel 1957 a Berna in autostop, presentarsi a casa Klee e incontrare il figlio Felix, mettere a frutto quel poco di francese che sapevo per imparare tutto quello che potevo, fu un’esperienza fondamentale. Mi fece capire che l’arte non si impara sui libri, ma davanti alle opere. C’è la stessa differenza che esiste tra leggere un libro sul sesso, e fare sesso”.
Fu così che i viaggi a Roma per vedere le mostre che solo la capitale poteva offrire, come quella importantissima su Picasso, si moltiplicarono, ed apparve anche evidente quanto fosse stantia l’aria che, contrariamente a quanto era avvenuto per il liceo, si respirava in Accademia. Il risultato inevitabile fu così che quando, nel 1958, una piccola fronda di giovani artisti diede vita al Gruppo 58 e con la rivista Documento Sud tagliò i ponti di netto con quel “piccolo mondo antico”, Di Bello fu tra i fondatori. Non fu un certo un caso se pochi mesi dopo, parlando di questa iniziativa, Enrico Baj – che con il Gruppo 58 condivise il Manifeste de Naples l’anno successivo – ebbe a scrivere che era “la prima volta dal 1700 che Napoli riprendeva un contatto artistico con le capitali dell’arte”.
Rompere con le regole codificate, si sa, ha un suo prezzo. Nessuno dei giovani ribelli ottenne mai un incarico, com’era invece tradizione, né al liceo né in Accademia. A soccorrere Di Bello sul versante economico furono le sue conoscenze e la sua passione per la grafica e la tipografia.
“Mi improvvisai grafico, una professione che a Napoli era quasi sconosciuta, e iniziai a lavorare per la Spi, la concessionaria di pubblicità del Mattino, il quotidiano della città. Realizzavo fotografie per conto dei clienti, sviluppavo e stampavo in camera oscura, studiavo l’impaginazione delle inserzioni. Ero sposato con Fernanda, la compagna di tutta la mia vita. Uno dopo l’altro erano arrivati quattro figli. Non c’era da stare con le mani in mano”.
Ma le mani, intanto, si muovevano anche sui sentieri diversi, ma in fondo paralleli, della ricerca artistica. All’inizio degli anni ’60 le opere di Di Bello sono già interessate dalla mutazione del linguaggio e delle parole, dalla loro scomposizione e ricomposizione, dal loro spezzarsi e ricrearsi in significati differenti. La stessa fotografia, pane quotidiano (anche in senso letterale) della vita lavorativa di ogni giorno, entra a pieno titolo in ricerche e sperimentazioni che sostituiscono il collage tradizionale, trasformando il documento di cronaca in suggestione grafica, in un continuo frazionamento e riposizionamento degli elementi visivi, quasi a suggerire la possibilità di letture differenti e spiazzanti.
Il maggio francese è alle porte e spira già forte il vento dell’imminente periodo di contestazione che sta per investire anche l’Italia, quando Di Bello comprende che è tempo di cambiare, di lasciare la Spi, di trasferirsi a Milano in uno scantinato per il quale il proprietario costruttore non voleva denaro, ma opere dai giovani artisti che vi abitavano.
È qui che Di Bello elabora e realizza i suoi lavori sulla storia delle avanguardie, su Paul Klee, Marchel Duchamp, El Lissitzky. È qui che nascono le interpretazioni delle immagini fotografiche di Man Ray. È da qui che Di Bello parte nel 1970 per la sua prima volta alla Biennale di Venezia.
A Milano Di Bello sperimenta anche nuove ricerche in camera oscura, “incidendo” segni di luce direttamente sulla tela fotografica. “Un lavoro”, dice, “che mi affascinava per il fatto che aboliva il controllo dell’occhio sull’opera, provocando una sorta di sismogramma, registrando il diagramma di un gesto, di un’emozione”.
Poi, proprio mentre Di Bello è impegnato nei suoi esperimenti luminosi, con un contratto che da tempo lo lega alla Galleria Marconi, improvvisamente il buio.
“L’Italia”, spiega, “è un paese modaiolo. Forse per questo ha tanto successo nella moda: perché cambia a ogni stagione, e anche più spesso. Anche nell’arte è così. Con gli anni ’80 scoppiò la trans-avanguardia, e spazzò via tutto. La pittura, la fotografia, le tele: nulla sembrava più contare. Fu come se tutto quello che fino a lì era stato fatto non avesse più alcuna importanza, alcun interesse, alcun valore. Semplicemente non c’era più spazio, non c’era più lavoro. Chiuso. Finito. Ho smesso di fare l’artista per dieci anni. Duchamp, in fondo, si era preso un periodo analogo di assenza. Tornai a occuparmi di grafica e di fotografia commerciale, ma mi interessai anche ai primi computer, alle applicazioni che potevano avere nel campo in cui operavo, come la stampa laser. In fondo il ciclo di opere alle quali avevo dedicato tanti anni era evidentemente concluso, e non c’era ragione perché, come fanno altri, ripetessi esperienze esaurite. E i computer, con i quali timidamente tentavo di verificare se fosse mai possibile avviare qualcosa di nuovo, ponevano molti vincoli e tante perplessità in termini di creatività per quanto riguardava forme e colori”.
Finchè giunse il giorno in cui il caso, così provvidenziale quando lo si sappia cogliere, lo fece incontrare con la segnalazione giornalistica di un libro sulla geometria dei frattali, oggetti geometrici che ripropongono la loro struttura in modo immutato su differenti scale, secondo un progetto matematico ben presente anche in natura (un esempio classico è fornito per esempio dall’abete, nel quale ogni ramo è la riproduzione in scala dell’intero albero, ogni rametto lo è del ramo, e così via), realizzando uno straordinario processo di auto-similarità. Di Bello iniziò a studiare questo campo di recente teorizzazione (“frattale” è un neologismo coniato da Benoit Mandelbrot solo nel 1975) e a coglierne la “magica” sospensione tra scienza, natura ed arte.
Trovò in Olanda un software che consentiva la produzione e l’elaborazione di frattali a livelli informatici apprezzabili per applicazioni artistiche, e – ancora per uno straordinario “caso” – quando già aveva compreso che sarebbe stato questo l’immenso e inesplorato filone che lo avrebbe riportato alla vita artistica ritrovò, leggendo un articolo su una rivista specializzata, un amico d’infanzia assai prezioso, Mario Costa.
“Anche Mario”, dice sorridendo Di Bello, “è di Torre del Greco. Quando eravamo ragazzi voleva fare il poeta, lo scrittore. Lui mi parlava di letteratura, io gli parlavo di arte. E all’improvviso cosa scopro? Che è diventato professore di estetica all’Università di Salerno ma, soprattutto, che la sua specialità è il rapporto tra estetica e nuove tecnologie. Ci siamo ritrovati a fine anni ’90, dopo decenni. Abbiamo parlato a lungo. Mi ha invitato ad Art Media, un congresso di scrittori, tecnologi, artisti che si tiene alternativamente a Salerno e a Parigi. Ed è anche grazie a lui e ai frattali, grazie a questo mondo che coniuga regole matematiche e infinite possibilità creative, armonia sublime e caos apparente, che gli ultimi dieci anni sono diventati e continuano ad essere una vera, entusiasmante avventura”.
Bruno Di Bello fa il suo ingresso nel panorama artistico aderendo al Gruppo ’58 di Napoli ma il suo lavoro si distacca da quello dei suoi amici per un riferimento ad un’arte segnica, astratta, più vicina ad esperienze di azzeramento della pittura. Nel ’66 mostra personale a Napoli alla galleria Lucio Amelio. A questo periodo corrispondono i primi esperimenti di riporto su tela fotografica usando immagini come quella del volto di Moshe Dayan (Studio per ritratto di condottiero, 1965) o di altre figure riprese dalla cronaca del tempo.
Nel ‘67 si stabilisce a Milano nel laboratorio del “Quartiere delle Botteghe” di Sesto San Giovanni, all’epoca abitata da vari artisti e nel ’68 aderisce alla Mec-Art, teorizzata da Pierre Restany.
Di Bello indaga sulle possibilità di scomposizione dell’immagine rendendo omaggio ai protagonisti delle avanguardie storiche e ai propri miti artistici (Klee, Duchamp, Man Ray, Mondrian e i costruttivisti russi) sviluppando così un’idea di arte come riflessione sulla storia dell’arte, in particolare sulle icone del movimento moderno, ma allo stesso tempo come riflessione sulla struttura dell’ immagine stessa. L’artista sceglie quindi un medium più freddo della pittura: la tela fotosensibile su cui ferma con la luce l’ immagine, che poi scompone, analizza, restituendone la ricomposizione allo sguardo dello spettatore .
Il lavoro sulla tela fotografica prosegue poi come ricerca sulla scrittura: ampie griglie all’interno delle quali la parola o la singola lettera o la firma di un artista vengono scomposte e ridotte ad asettici segni grafici come in Variazioni sulla firma di Klee, 1975 o Procedimento, 1974. Altri lavori degli anni ‘70/80 sono eseguiti disegnando sulla tela sensibile direttamente con il raggio di luce di una pila.
Negli anni ‘80 Di Bello sperimenta un nuovo modo di usare la luce giustapponendo tra la fonte luminosa e il supporto figure umane ed oggetti che proiettano su quest’ultimo le loro ombre sviluppando poi la tela con larghe pennellate di rivelatore come “Apollo e Dafne nel terremoto” eseguito per la collezione Terrae motus allestita da Lucio Amelio nel 1967 ed esposta a Parigi - Palais Royale, ora in permanenza presso la Reggia di Caserta.
A partire dagli anni ’90 Di Bello si dedica allo studio di nuove tecnologie operando ricerche sulle immagini sintetiche, la fotografia digitale e le nuove geometrie visualizzabili dal computer. Le forme visive ricercate da Di Bello derivano da fondamenti matematici e trovano espressione nella gelida geometria dei frattali.
L’esposizione documenta quindi la ricerca di Bruno Di Bello in quel percorso di progressiva “disumanizzazione dell’ arte“ così definita e teorizzata dal filosofo napoletano Mario Costa che scrive a proposito dell’artista: “Bruno Di Bello ha capito che il massimo dell’aseità dell’immagine, dovuto alla sua natura logica e dunque mentale, coincide con il massimo della sua freddezza, cioè con quanto egli è andato cercando per tutta la vita. Ha capito che le immagini digitali non rimandano a nessun soggetto e a nessun oggetto, che non hanno referente alcuno e che devono esse stesse essere trattate come dei referenti, cioè come delle nuove cose con le quali misurarsi sul piano dell’estetico”.
Nell’ occasione sarà presentata la monografia Bruno Di Bello - Antologia edita da Silvana Editoriale per la VAF Stiftung di Stuttgart a cura di Volker Feierabend con testi di Michele Buonuomo, Mario Costa e Angela Tecce.
Biografia
Bruno Di Bello è nato a Torre del Greco nel 1938. Vive e lavora a Milano.
Nel ‘58 frequenta ancora l’Accademia di Belle Arti di Napoli ma già espone e, con Biasi, Del Pezzo, Fergola, Luca e Persico, forma il “gruppo ‘58”.
Nel ‘62 prima mostra personale alla Galleria 2000 di Bologna, nel ‘66 espone a Napoli alla Modern Art Agency di Lucio Amelio i primi lavori su tela fotografica. Nel ‘67 si stabilisce a Milano.
Espone per la prima volta a Milano da Toselli nel ‘69 e nel ‘70 alla Galleria Kuchels, Bochum, alla Biennale di Venezia, alla galleria Wspòlczesna, Varsavia ed alla Galleria Bertesca di Genova.
Nel ‘71 prima personale allo Studio Marconi: un’istallazione composta di 26 tele fotografiche con la scomposizione dell’ intero alfabeto. Da Marconi esporrà anche nel ‘74, nel ‘76, nel ’78, nell’81 e nel 2003.
Altre sue importanti personali sono quelle del ‘74 alla Galleria Art in Progress di Munchen ed alla Kunsthalle Bern, nel ’75 all’I.C.C. di Antwerpen e alla Galleria Plurima di Udine, nel ’77 alla Galleria Lucio Amelio di Napoli .
Espone nel ‘78 alla Galleria Rondanini di Roma e nell’estate ‘80 realizza un grande lavoro per il Festival di Spoleto.
Sue opere sono state acquisite dal museo Boymans di Rotterdam, dalla Galleria d’Arte Contemporanea di Parma, dal Mambo di Bologna, dal museo Rufino Tamayo di Mexico City, dal museo di Dortmund e, recentemente, dalla galleria dell’ Accademia e dal Museo del ‘900 di Napoli
Bruno Di Bello. Quale ordine presiede al disordine? A quali leggi rigorose obbedisce il caos? E come è possibile inserirsi in esse e creare le varianti di un linguaggio che assume i colori della creatività e dell’arte? Ecco la storia di un uomo che, dopo una vita artistica tutta “all’avanguardia”, da dieci anni percorre e trasforma in capolavori questi affascinanti e misteriosi territori.
“Quello che io provo è il piacere dell’esploratore. Mi muovo in territori sconosciuti. Sono i luoghi delle nuove geometrie, quelli in cui il caso genera – smentendo le nostre convinzioni sulla sua natura – un proprio ordine, un sorprendente equilibrio, una autentica armonia. È un mondo all’infinito mutevole, legato a fantasie matematiche, aperto a interventi creativi e a suggestioni cromatiche. Un mondo antichissimo, addirittura primordiale nella sua struttura e nelle sue regole, e al tempo stesso fortissimamente connesso alle nuove tecnologie informatiche. Soprattutto possiede un fascino inesauribile: quello della continua provocazione all’indagine, alla ricerca, alla scoperta”.
Bruno Di Bello racconta così gli ultimi dieci anni della sua attività d’artista, strettamente connessa al mondo della geometria dei frattali e alle sue funzioni matematiche. E rivela subito il carattere ri-creativo delle sue molte vite (ogni uomo ha molte vite, ma sovente tende ad appiattirle in una mono-tonia, anziché esaltarne le differenze e i contrasti) e la vitalità rigeneratrice del suo approccio allo studio e alla rappresentazione delle forme, delle immagini, dei pensieri, dei sogni.
Ma per capire il senso di un percorso che ormai è considerevolmente lungo (Di Bello è nato nel 1938), è bene raccontare le cose come si deve, partendo – come ogni storia che si rispetti – dal loro inizio, a Torre del Greco.
“Negli anni ’40 e ‘50”, dice Di Bello, “Torre del Greco era il paese dei coralli e dei cammei. E in quell’Italia di provincia e ancora senza televisione, con l’unico cinema, il Vittoria, che proiettava film in bianco e nero, c’erano tre modi per passare il tempo: recitare nella filodrammatica, dedicarsi alla musica strimpellando la chitarra o impegnandosi negli studi di piano o violino, oppure indirizzarsi verso il disegno e la pittura che, proprio per la presenza dell’artigianato del corallo e dei cammei, potevano contare sul sostegno di una scuola d’arte. Alcuni miei coetanei, come Salvatore Accardo, scelsero la musica. Io, che in famiglia avevo un nonno e uno zio incisori, decisi per il liceo artistico a Napoli, con l’obiettivo di passare poi ad architettura”.
Fu al liceo che l’incontro con un insegnante bravissimo di figura e disegno, Renato Barisani, segnò la vita di Di Bello.
“Barisani”, ricorda, “sapeva cosa significa insegnare. Ti osservava, poi si sedeva al tuo posto, ti spiegava e ti correggeva. Nell’arte, come in tanti altri campi, non c’è migliore insegnamento dell’esempio diretto e concreto. Colsi al volo la possibilità di diventare, fuori dall’orario di lezione, il suo aiutante. Era un uomo colto e aggiornato, un artista d’avanguardia nel cui studio potevo consultare riviste e libri introvabili altrove, se non a Napoli, alla libreria americana dell’Usis. Picasso, Kandinsky, Klee: questi e tanti altri nomi li incontrai per la volta in quel periodo, imparando da Barisani cosa fosse l’arte e come si faceva. Poi, dopo il liceo, mi iscrissi all’attigua Accademia di belle arti. Quando si trattò di scegliere un artista sul quale scrivere la tesi (un saggio che doveva essere accompagnato da copie delle sue opere realizzate dallo studente) decisi per uno di quelli che preferivo, Paul Klee. Ma c’era un problema: non avevo mai visto i suoi quadri se non in riproduzioni fotografiche di qualità mediocre e che nulla mi dicevano delle sue tecniche stravaganti. Klee, per esempio, usava dipingere ad acquarello su un fondo di seta per aeromodelli spalmato di creta diluita. Quale modo avevo per approfondire conoscenze e argomenti così complessi e particolari, con i pochi mezzi che avevo a disposizione?”.
Il suggerimento giusto glielo diede un amico intraprendente, che lo consigliò di arrivare fino a Milano in treno e poi proseguire verso la Svizzera in autostop.
“Arrivare nel 1957 a Berna in autostop, presentarsi a casa Klee e incontrare il figlio Felix, mettere a frutto quel poco di francese che sapevo per imparare tutto quello che potevo, fu un’esperienza fondamentale. Mi fece capire che l’arte non si impara sui libri, ma davanti alle opere. C’è la stessa differenza che esiste tra leggere un libro sul sesso, e fare sesso”.
Fu così che i viaggi a Roma per vedere le mostre che solo la capitale poteva offrire, come quella importantissima su Picasso, si moltiplicarono, ed apparve anche evidente quanto fosse stantia l’aria che, contrariamente a quanto era avvenuto per il liceo, si respirava in Accademia. Il risultato inevitabile fu così che quando, nel 1958, una piccola fronda di giovani artisti diede vita al Gruppo 58 e con la rivista Documento Sud tagliò i ponti di netto con quel “piccolo mondo antico”, Di Bello fu tra i fondatori. Non fu un certo un caso se pochi mesi dopo, parlando di questa iniziativa, Enrico Baj – che con il Gruppo 58 condivise il Manifeste de Naples l’anno successivo – ebbe a scrivere che era “la prima volta dal 1700 che Napoli riprendeva un contatto artistico con le capitali dell’arte”.
Rompere con le regole codificate, si sa, ha un suo prezzo. Nessuno dei giovani ribelli ottenne mai un incarico, com’era invece tradizione, né al liceo né in Accademia. A soccorrere Di Bello sul versante economico furono le sue conoscenze e la sua passione per la grafica e la tipografia.
“Mi improvvisai grafico, una professione che a Napoli era quasi sconosciuta, e iniziai a lavorare per la Spi, la concessionaria di pubblicità del Mattino, il quotidiano della città. Realizzavo fotografie per conto dei clienti, sviluppavo e stampavo in camera oscura, studiavo l’impaginazione delle inserzioni. Ero sposato con Fernanda, la compagna di tutta la mia vita. Uno dopo l’altro erano arrivati quattro figli. Non c’era da stare con le mani in mano”.
Ma le mani, intanto, si muovevano anche sui sentieri diversi, ma in fondo paralleli, della ricerca artistica. All’inizio degli anni ’60 le opere di Di Bello sono già interessate dalla mutazione del linguaggio e delle parole, dalla loro scomposizione e ricomposizione, dal loro spezzarsi e ricrearsi in significati differenti. La stessa fotografia, pane quotidiano (anche in senso letterale) della vita lavorativa di ogni giorno, entra a pieno titolo in ricerche e sperimentazioni che sostituiscono il collage tradizionale, trasformando il documento di cronaca in suggestione grafica, in un continuo frazionamento e riposizionamento degli elementi visivi, quasi a suggerire la possibilità di letture differenti e spiazzanti.
Il maggio francese è alle porte e spira già forte il vento dell’imminente periodo di contestazione che sta per investire anche l’Italia, quando Di Bello comprende che è tempo di cambiare, di lasciare la Spi, di trasferirsi a Milano in uno scantinato per il quale il proprietario costruttore non voleva denaro, ma opere dai giovani artisti che vi abitavano.
È qui che Di Bello elabora e realizza i suoi lavori sulla storia delle avanguardie, su Paul Klee, Marchel Duchamp, El Lissitzky. È qui che nascono le interpretazioni delle immagini fotografiche di Man Ray. È da qui che Di Bello parte nel 1970 per la sua prima volta alla Biennale di Venezia.
A Milano Di Bello sperimenta anche nuove ricerche in camera oscura, “incidendo” segni di luce direttamente sulla tela fotografica. “Un lavoro”, dice, “che mi affascinava per il fatto che aboliva il controllo dell’occhio sull’opera, provocando una sorta di sismogramma, registrando il diagramma di un gesto, di un’emozione”.
Poi, proprio mentre Di Bello è impegnato nei suoi esperimenti luminosi, con un contratto che da tempo lo lega alla Galleria Marconi, improvvisamente il buio.
“L’Italia”, spiega, “è un paese modaiolo. Forse per questo ha tanto successo nella moda: perché cambia a ogni stagione, e anche più spesso. Anche nell’arte è così. Con gli anni ’80 scoppiò la trans-avanguardia, e spazzò via tutto. La pittura, la fotografia, le tele: nulla sembrava più contare. Fu come se tutto quello che fino a lì era stato fatto non avesse più alcuna importanza, alcun interesse, alcun valore. Semplicemente non c’era più spazio, non c’era più lavoro. Chiuso. Finito. Ho smesso di fare l’artista per dieci anni. Duchamp, in fondo, si era preso un periodo analogo di assenza. Tornai a occuparmi di grafica e di fotografia commerciale, ma mi interessai anche ai primi computer, alle applicazioni che potevano avere nel campo in cui operavo, come la stampa laser. In fondo il ciclo di opere alle quali avevo dedicato tanti anni era evidentemente concluso, e non c’era ragione perché, come fanno altri, ripetessi esperienze esaurite. E i computer, con i quali timidamente tentavo di verificare se fosse mai possibile avviare qualcosa di nuovo, ponevano molti vincoli e tante perplessità in termini di creatività per quanto riguardava forme e colori”.
Finchè giunse il giorno in cui il caso, così provvidenziale quando lo si sappia cogliere, lo fece incontrare con la segnalazione giornalistica di un libro sulla geometria dei frattali, oggetti geometrici che ripropongono la loro struttura in modo immutato su differenti scale, secondo un progetto matematico ben presente anche in natura (un esempio classico è fornito per esempio dall’abete, nel quale ogni ramo è la riproduzione in scala dell’intero albero, ogni rametto lo è del ramo, e così via), realizzando uno straordinario processo di auto-similarità. Di Bello iniziò a studiare questo campo di recente teorizzazione (“frattale” è un neologismo coniato da Benoit Mandelbrot solo nel 1975) e a coglierne la “magica” sospensione tra scienza, natura ed arte.
Trovò in Olanda un software che consentiva la produzione e l’elaborazione di frattali a livelli informatici apprezzabili per applicazioni artistiche, e – ancora per uno straordinario “caso” – quando già aveva compreso che sarebbe stato questo l’immenso e inesplorato filone che lo avrebbe riportato alla vita artistica ritrovò, leggendo un articolo su una rivista specializzata, un amico d’infanzia assai prezioso, Mario Costa.
“Anche Mario”, dice sorridendo Di Bello, “è di Torre del Greco. Quando eravamo ragazzi voleva fare il poeta, lo scrittore. Lui mi parlava di letteratura, io gli parlavo di arte. E all’improvviso cosa scopro? Che è diventato professore di estetica all’Università di Salerno ma, soprattutto, che la sua specialità è il rapporto tra estetica e nuove tecnologie. Ci siamo ritrovati a fine anni ’90, dopo decenni. Abbiamo parlato a lungo. Mi ha invitato ad Art Media, un congresso di scrittori, tecnologi, artisti che si tiene alternativamente a Salerno e a Parigi. Ed è anche grazie a lui e ai frattali, grazie a questo mondo che coniuga regole matematiche e infinite possibilità creative, armonia sublime e caos apparente, che gli ultimi dieci anni sono diventati e continuano ad essere una vera, entusiasmante avventura”.
15
settembre 2010
Bruno Di Bello – Antologia
Dal 15 settembre al 30 ottobre 2010
fotografia
arte contemporanea
arte contemporanea
Location
FONDAZIONE MARCONI
Milano, Via Alessandro Tadino, 15, (Milano)
Milano, Via Alessandro Tadino, 15, (Milano)
Orario di apertura
da martedì a sabato 10.30-12.30 e 15.30 -19
Vernissage
15 Settembre 2010, ore 19
Editore
SILVANA EDITORIALE
Ufficio stampa
CRISTINA PARISET
Autore