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Pietro Canale
L’attuale mostra al Palazzo Robellini di Acqui Terme parte dal momento in cui l’artista genovese prende coscienza della sua capacità di volgere in un diverso territorio quegli impulsi timbrici che facevano parte di un interessante, sensibile, personale patrimonio coltivato nel tempo con perspicacia.
Comunicato stampa
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GESTO COME ANNOTAZIONE ESISTENZIALE
Certi artisti riescono a trasferire efficacemente in un riflesso interiore le immagini del mondo esterno. Questo processo non si verifica di solito immediatamente. Ha infatti bisogno di un certo tempo di sedimentazione per raggiungere il suo scopo. Solo allora tutto ciò che viene recepito dallo sguardo corrisponde a quello che viene acquisito dall’anima e il risultato di una simile evoluzione visiva e percettiva si evidenzia sulla tela. Tale percorso non ha sovente un andamento lineare poiché i tentennamenti, i ripensamenti, i passi indietro, i dubbi si insinuano nei pensieri e nei gesti come il timore di non saper più ritrovare la via del ritorno da un viaggio intrapreso verso l’ignoto. Senza tener conto che in questi casi non esiste la conquista definitiva di una certezza ma solo la consapevolezza, man mano che si procede, di trovarsi nella giusta direzione operativa dove l’arrivo coincide col concetto di partenza se il comportamento segue le norme richieste dalla circostanza.
Da qualche tempo Pietro Canale ha scelto un simile approccio creativo avendo a lungo sondato un terreno prodigo di suggestioni post-impressioniste o fauves dove il colore si traduceva in macchia e la macchia in evocazione paesaggistica. Con implicazioni figurali più o meno marcate e talora con tentazioni ancora più descrittive che emozionali. Da qui il rischio ricorrente del passo indietro e la minaccia di vanificare l’intero progetto evolutivo. L’attuale mostra al Palazzo Robellini di Acqui Terme parte dal momento in cui l’artista genovese prende coscienza della sua capacità di volgere in un diverso territorio quegli impulsi timbrici che facevano parte di un interessante, sensibile, personale patrimonio coltivato nel tempo con perspicacia.
Le prime opere in rassegna, databili tra il 1996 e il 1998 a preannunciare il nuovo corso, sono da attribuirsi a quel travaglio figurale di cui si è appena detto. Infatti il Paesaggio del 1997 traduce in macchie le folte chiome dei due alberi in primo piano mentre un accenno di case compare sull’orizzonte serale caratterizzato da ripetute sovrapposizioni di pennellate orizzontali che intendono annullare ogni tentazione narrativa più dettagliata. E se a proposito di Ricordi è ancora leggibile qualche frammento figurale nell’impasto cromatico d’insieme, con Machine l’unica traccia da collegarsi al recente passato sembra affidata a quella linea che corre sulla tela col compito di contenitore. Seguono altre opere che affrontano il fantasma dell’immagine da trasferire in percezioni o in agglomerati compositivi dal seducente impatto timbrico. Il distacco definitivo dalle origini sembra affidato a un Senza titolo interpretato nei toni del blu che annuncia il deciso approdo di Canale nell’agognato territorio dell’informale.
A un simile momento di svolta è seguito un periodo di riflessione scandito da sperimentazioni eterogenee che sono proseguite per qualche anno per lasciare infine il passo a un ulteriore, interessante capitolo nel complesso percorso del nostro autore. Possiamo identificare in Fase 1, un grande acrilico del 2004, la definitiva conquista della linea precedentemente tracciata. Il dipinto in questione mantiene inalterate le qualità cromatiche, un patrimonio legato alle indubbie capacità percettive dell’artista, con l’aggiunta di accensioni segniche e di impronte gestuali fino a quel momento inespresse. Anche Percorsi, l’altro imponente quadro coevo, si dispiega in una felice libertà costruttiva che propone una bianca velatura capace di far emergere finestre di indagine ovvero un mondo sottostante costituito da fughe di luce e da fitte trame a trattenere sulla soglia della captazione un misterioso racconto.
Il 2005 è invece qui rappresentato da Amore mio e da Pezzi. Nel primo caso la scena è occupata centralmente da una struttura rettangolare che assorbe e diffonde intorno a sé la variante rossa e bruna di tante pennellate a cui la lumeggiatura ottenuta per lievi tocchi fornisce squarci di improvvisa leggerezza. Nel secondo caso sono i ritmici segni, ovvero le tracce di un blu squillante a disegnare la suggestione di un racconto sovrapposto e frammentario che si contrappone alle fughe prospettiche di certe forme sprofondate in un chiarore ovattato, latteo.
Il momento successivo ci proietta nel 2009 caratterizzato da tre imponenti prove che non possiedono un titolo distintivo ma che testimoniano efficacemente il successivo stadio creativo di Pietro Canale che in un caso sembra aver effettuato il classico passo indietro per recuperare certe annotazioni vegetali da non declinare più in ambito naturalistico ma da affidare a un informale lirico consono alla sua sensibilità. Lo possiamo verificare in un dittico dalla palpabile ricchezza colorica anche grazie alla presenza di improvvise fioriture rosate nel magma verde-azzurro che giustifica l’insieme. In un’altra circostanza ricompare invece la trama blu già osservata in Pezzi col conforto ora di un substrato armonicamente modulato in senso tonale dai colpi di pennello.
L’ultimo quadro è particolarmente importante perché riguarda quell’approccio calligrafico che diventa il ricorrente motivo delle più recenti prove. Sembra che finalmente Canale si sia liberato da ogni remora interpretativa nel coniugare la lezione di Cy Twombly con quella di Mario Schifano per dispensare ampie campiture apparentemente monocrome che occupano quasi totalmente la tela su cui egli interviene con un ulteriore racconto segnico da affidare a una ideale lavagna ossessivamente proiettata contro l’infinito. Egli può finalmente sciogliere qui il personale spirito indagatore ponendolo di fronte a situazioni apparentemente non conciliabili, che invece trovano inattesi punti di concordia. Lo scopriamo nell’intricato groviglio di un’opera che emerge dal profondo e intenso grigio plumbeo d’insieme per aggredire la striscia bianca di respiro e di fuga che si profila nella parte superiore del quadro. In questo caso l’inconscio va a occupare compiutamente lo spazio attraverso una serie progressiva e tumultuosa di gesti automatici. In altre situazioni è il fondo trattato con pennellate più dense e uniformi che mimano una modulazione tonale in chiave monocroma ad accogliere un intervento diretto e liberatorio di “scrittura” impulsiva. Lo si può rinvenire nelle due tele concepite rispettivamente nelle varianti del rosso e del blu.
Il percorso sembra ora decisamente tracciato verso una sempre maggior consapevolezza di sé e del mondo da interrogare attraverso comportamenti immediati, dove la spontaneità e l’urgenza dichiarativa trovano l’opportuno, doveroso bilanciamento nel gusto cromatico e nel valore di ogni gesto. Infatti tutto ciò che sembra casuale è il ricercato frutto di un ordine interiore dettato dalla sensibilità e dalla qualità del dipinto che ne deriva. Tutto sembra ed è in bilico formale e creativo: anche in simile frangente l’arte, quella perseguita con entusiastica perseveranza da Pietro Canale, mima la vita.
Luciano Caprile
Certi artisti riescono a trasferire efficacemente in un riflesso interiore le immagini del mondo esterno. Questo processo non si verifica di solito immediatamente. Ha infatti bisogno di un certo tempo di sedimentazione per raggiungere il suo scopo. Solo allora tutto ciò che viene recepito dallo sguardo corrisponde a quello che viene acquisito dall’anima e il risultato di una simile evoluzione visiva e percettiva si evidenzia sulla tela. Tale percorso non ha sovente un andamento lineare poiché i tentennamenti, i ripensamenti, i passi indietro, i dubbi si insinuano nei pensieri e nei gesti come il timore di non saper più ritrovare la via del ritorno da un viaggio intrapreso verso l’ignoto. Senza tener conto che in questi casi non esiste la conquista definitiva di una certezza ma solo la consapevolezza, man mano che si procede, di trovarsi nella giusta direzione operativa dove l’arrivo coincide col concetto di partenza se il comportamento segue le norme richieste dalla circostanza.
Da qualche tempo Pietro Canale ha scelto un simile approccio creativo avendo a lungo sondato un terreno prodigo di suggestioni post-impressioniste o fauves dove il colore si traduceva in macchia e la macchia in evocazione paesaggistica. Con implicazioni figurali più o meno marcate e talora con tentazioni ancora più descrittive che emozionali. Da qui il rischio ricorrente del passo indietro e la minaccia di vanificare l’intero progetto evolutivo. L’attuale mostra al Palazzo Robellini di Acqui Terme parte dal momento in cui l’artista genovese prende coscienza della sua capacità di volgere in un diverso territorio quegli impulsi timbrici che facevano parte di un interessante, sensibile, personale patrimonio coltivato nel tempo con perspicacia.
Le prime opere in rassegna, databili tra il 1996 e il 1998 a preannunciare il nuovo corso, sono da attribuirsi a quel travaglio figurale di cui si è appena detto. Infatti il Paesaggio del 1997 traduce in macchie le folte chiome dei due alberi in primo piano mentre un accenno di case compare sull’orizzonte serale caratterizzato da ripetute sovrapposizioni di pennellate orizzontali che intendono annullare ogni tentazione narrativa più dettagliata. E se a proposito di Ricordi è ancora leggibile qualche frammento figurale nell’impasto cromatico d’insieme, con Machine l’unica traccia da collegarsi al recente passato sembra affidata a quella linea che corre sulla tela col compito di contenitore. Seguono altre opere che affrontano il fantasma dell’immagine da trasferire in percezioni o in agglomerati compositivi dal seducente impatto timbrico. Il distacco definitivo dalle origini sembra affidato a un Senza titolo interpretato nei toni del blu che annuncia il deciso approdo di Canale nell’agognato territorio dell’informale.
A un simile momento di svolta è seguito un periodo di riflessione scandito da sperimentazioni eterogenee che sono proseguite per qualche anno per lasciare infine il passo a un ulteriore, interessante capitolo nel complesso percorso del nostro autore. Possiamo identificare in Fase 1, un grande acrilico del 2004, la definitiva conquista della linea precedentemente tracciata. Il dipinto in questione mantiene inalterate le qualità cromatiche, un patrimonio legato alle indubbie capacità percettive dell’artista, con l’aggiunta di accensioni segniche e di impronte gestuali fino a quel momento inespresse. Anche Percorsi, l’altro imponente quadro coevo, si dispiega in una felice libertà costruttiva che propone una bianca velatura capace di far emergere finestre di indagine ovvero un mondo sottostante costituito da fughe di luce e da fitte trame a trattenere sulla soglia della captazione un misterioso racconto.
Il 2005 è invece qui rappresentato da Amore mio e da Pezzi. Nel primo caso la scena è occupata centralmente da una struttura rettangolare che assorbe e diffonde intorno a sé la variante rossa e bruna di tante pennellate a cui la lumeggiatura ottenuta per lievi tocchi fornisce squarci di improvvisa leggerezza. Nel secondo caso sono i ritmici segni, ovvero le tracce di un blu squillante a disegnare la suggestione di un racconto sovrapposto e frammentario che si contrappone alle fughe prospettiche di certe forme sprofondate in un chiarore ovattato, latteo.
Il momento successivo ci proietta nel 2009 caratterizzato da tre imponenti prove che non possiedono un titolo distintivo ma che testimoniano efficacemente il successivo stadio creativo di Pietro Canale che in un caso sembra aver effettuato il classico passo indietro per recuperare certe annotazioni vegetali da non declinare più in ambito naturalistico ma da affidare a un informale lirico consono alla sua sensibilità. Lo possiamo verificare in un dittico dalla palpabile ricchezza colorica anche grazie alla presenza di improvvise fioriture rosate nel magma verde-azzurro che giustifica l’insieme. In un’altra circostanza ricompare invece la trama blu già osservata in Pezzi col conforto ora di un substrato armonicamente modulato in senso tonale dai colpi di pennello.
L’ultimo quadro è particolarmente importante perché riguarda quell’approccio calligrafico che diventa il ricorrente motivo delle più recenti prove. Sembra che finalmente Canale si sia liberato da ogni remora interpretativa nel coniugare la lezione di Cy Twombly con quella di Mario Schifano per dispensare ampie campiture apparentemente monocrome che occupano quasi totalmente la tela su cui egli interviene con un ulteriore racconto segnico da affidare a una ideale lavagna ossessivamente proiettata contro l’infinito. Egli può finalmente sciogliere qui il personale spirito indagatore ponendolo di fronte a situazioni apparentemente non conciliabili, che invece trovano inattesi punti di concordia. Lo scopriamo nell’intricato groviglio di un’opera che emerge dal profondo e intenso grigio plumbeo d’insieme per aggredire la striscia bianca di respiro e di fuga che si profila nella parte superiore del quadro. In questo caso l’inconscio va a occupare compiutamente lo spazio attraverso una serie progressiva e tumultuosa di gesti automatici. In altre situazioni è il fondo trattato con pennellate più dense e uniformi che mimano una modulazione tonale in chiave monocroma ad accogliere un intervento diretto e liberatorio di “scrittura” impulsiva. Lo si può rinvenire nelle due tele concepite rispettivamente nelle varianti del rosso e del blu.
Il percorso sembra ora decisamente tracciato verso una sempre maggior consapevolezza di sé e del mondo da interrogare attraverso comportamenti immediati, dove la spontaneità e l’urgenza dichiarativa trovano l’opportuno, doveroso bilanciamento nel gusto cromatico e nel valore di ogni gesto. Infatti tutto ciò che sembra casuale è il ricercato frutto di un ordine interiore dettato dalla sensibilità e dalla qualità del dipinto che ne deriva. Tutto sembra ed è in bilico formale e creativo: anche in simile frangente l’arte, quella perseguita con entusiastica perseveranza da Pietro Canale, mima la vita.
Luciano Caprile
17
luglio 2010
Pietro Canale
Dal 17 luglio al primo agosto 2010
arte contemporanea
Location
PALAZZO ROBELLINI
Acqui Terme, Piazza Levi, (Alessandria)
Acqui Terme, Piazza Levi, (Alessandria)
Orario di apertura
da martedì a domenica: 16.30 – 19.30, lunedì chiuso
Vernissage
17 Luglio 2010, ore 18
Editore
DE FERRARI EDITORE
Autore