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H Khan | Nusrat | Suleman – Svelando l’utopia
La galleria Alberto Peola ha il piacere di presentare Svelando l’Utopia, un progetto che coinvolge tre nomi della nuova scena artistica femminile internazionale.
Comunicato stampa
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Adeela Suleman, Naiza H Khan, Seema Nusrat appartengono a quell’élite culturale che gioca un ruolo decisivo nel progresso del pensiero e della società del Pakistan contemporaneo, della cui cultura ancora poco si conosce in Europa. Nella valutazione della loro esperienza e, in generale, nella valutazione della nuova scena artistica di Karachi il confronto-scontro con l’India e la sua nuova identità di superpotenza non va escluso. In Europa spesso le due culture vengono confuse, generando equivoci che non aiutano la comprensione delle singole identità.
È pur vero che le due civiltà, indiana e pakistana, sono i due rami di uno stesso fiume che nella sorgente del Sub-Continente trova la sua prima e indimenticabile origine, ed è quindi evidente che le due esperienze giungano a risultati paralleli. Ma non solo: nella ricerca artistica di Karachi c’è il desiderio (forse un po’ più sentito che non da parte indiana) di rimarcare questo territorio comune. Ricucire insomma una geografia dell’anima che, nella pacifica convivenza dei suoi elementi, possa supplire alle divisioni che la geografia politica sembra, di rimando, insistere nell’accentuare. Questo territorio comune non è il punto di arrivo della scena di Karachi, al contrario è uno dei punti di partenza, una delle basi per successive evoluzioni nel percorso dei singoli artisti. E in tale percorso si sommano condizionamenti (più o meno impliciti) derivati dalla tradizione musulmana e sufica, ampliamenti presi dalle problematiche sociali del mondo contemporaneo quali l’identità femminile, lo scontro tra le classi, l’instabilità che un’eccessiva militarizzazione comporta. Il risultato è un’esperienza del tutto nuova e autonoma rispetto ai modelli indigeni preesistenti e rispetto ai risultati dei cugini di Delhi e Mumbai.
Il lavoro di Naiza H Khan offre il miglior esempio di come un’esperienza stilistica e filosofica sappia progredire dai modelli autoctoni, fino a lambire le più estreme esperienze umane ed esistenziali dell’antropologia globale. Ed è proprio la chiave antropologica quella che ci consente una lettura più appropriata dell’utopia che il lavoro di Naiza H Khan desidera svelare. Le sue sculture rimandano alla gioielleria cosi come è stata affrontata nell’opera Bihishti Zewar, un testo in urdu del maestro sufi indiano Ashraf Ali Thanawi. L’opera, rivolta a un pubblico femminile, tratta argomenti vari, da quello giuridico a quello comportamentale. Un lavoro, quello di Naiza H Khan, che osa attraversare in modo tangente la cultura intera del Sub-Continente indiano, nella sua matrice musulmano-riformata. Da qui procede per affrontare problematiche contemporanee della cultura musulmana, soprattutto quegli elementi stereotipati e demonizzati dai media occidentali (il burqa, il velo, la femminilità negata). Entrando in contatto con la nostra cultura, l’opera di Naiza H Khan (i corsetti in metallo, le cinture di castità…) ci ricorda che il nostro passato ha umiliato l’identità femminile e che tutt’ora la donna, nella cultura occidentale, è vista a volte come puro oggetto di piacere e di consumo, alla cui fisicità sono abbinati oggetti legati al rito masochista e feticista; le sculture di Naiza H Khan possono avere anche in questo senso un forte riferimento simbolico.
Con le dovute differenze, anche nell’opera di Seema Nusrat gioca un ruolo importante il rapporto tra oggetto e feticismo: cinture in pelle, cravatte, stoffe, oggetti di uso comune sono carichi di una forte valenza comportamentale. Inoltre va sottolineato come nell’opera di Nusrat il corpo assente svolga un ruolo di protagonista. Le sue sculture definiscono lo spazio nell’assenza del corpo, e tale assenza va intesa non come negazione ma come una forte allusione a esso. L’impatto visivo delle sue opere ricorda le decorazioni e le crittografie delle moschee islamiche, lì dove è l’assenza-presenza di Dio a essere oggetto di culto. Anche l’apparente casualità della forma, nelle sculture di Nusrat, rimanda all’assenza di un preciso ordine stilistico. Ma è anche qui un’allusione, poiché tutto è studiato, calcolato e bilanciato con una determinazione quasi maniacale. L’opera racconta sé stessa e rimanda a sé stessa attraverso le pieghe più nascoste che la stoffa, una cravatta, una cintura riescono ad articolare. Il lavoro di Seema Nusrat affronta un’area più concettuale, rispetto a coeve esperienze della scena di Karachi. È il materiale, è l’idea, è la forma-non forma che esaltano sé stessi e che annunciano un ormai avvenuto crepuscolo della narrazione.
Se è l’utopia della superiorità culturale a essere denunciata nell’opera di Naiza H Khan, oppure l’utopia della forma nelle sculture di Seema Nusrat, è l’utopia del significato a giocare un ruolo importante nell’opera di Adeela Suleman. Fin dai suoi primi lavori l’artista ha saputo cogliere l’ambiguità dell’opera d’arte, nell’assemblaggio di semplici utensili di uso quotidiano, che il suo peregrinare nei mercati di Karachi la portava a raccogliere. Scodelle, vasi, tazze si trasformavano in caschi, elmetti protettivi; marmitte da motocicletta, rubinetti e tubi diventavano sculture astratte in precario ma costante equilibrio tra pieno e vuoto. Eppure, questa polivalenza della forma rimanda a una polivalenza della struttura interna dell’opera, ancor più evidente nell’ultimo ciclo di lavori, apparentemente più narrativi, in cui l’artista sembra concedere alla materia un forma più precisa. È il caso dell’installazione Big Tree dove un grande albero attrae intorno a sé una selezione di oggetti scelti da Suleman per la loro valenza metaforica. «The whole idea that they can be moved and placed differently would change the story excites me» dice Suleman riguardo agli oggetti e al loro significato. Ed è questa una vera e propria dichiarazione di poetica. L’albero, supremo simbolo naturale della crescita dinamica; il pappagallo, che nelle narrazioni della cultura popolare pakistana riveste il ruolo di depositario di un segreto e della sua possibile rivelazione; il pavone, simbolo della radianza solare e di immortalità ma il cui grido, nelle leggende pakistane, può anche essere messaggero di morte; le rose rosse che simbolizzano il sangue, martirio, morte e resurrezione. Questi elementi significano poco di per sé, è la loro interazione a esser carica di una moltitudine di significati, determinata dalla variazione del ruolo che l’oggetto tende ad assumere nelle eventuali, e pur possibili, modificazioni della scena. Ed è ciò che si augura Suleman, nella cui opera convivono gli elementi non solo di una raffinata poetica visiva, ma anche di una precisa semiotica della stessa.
Davide Gallo
È pur vero che le due civiltà, indiana e pakistana, sono i due rami di uno stesso fiume che nella sorgente del Sub-Continente trova la sua prima e indimenticabile origine, ed è quindi evidente che le due esperienze giungano a risultati paralleli. Ma non solo: nella ricerca artistica di Karachi c’è il desiderio (forse un po’ più sentito che non da parte indiana) di rimarcare questo territorio comune. Ricucire insomma una geografia dell’anima che, nella pacifica convivenza dei suoi elementi, possa supplire alle divisioni che la geografia politica sembra, di rimando, insistere nell’accentuare. Questo territorio comune non è il punto di arrivo della scena di Karachi, al contrario è uno dei punti di partenza, una delle basi per successive evoluzioni nel percorso dei singoli artisti. E in tale percorso si sommano condizionamenti (più o meno impliciti) derivati dalla tradizione musulmana e sufica, ampliamenti presi dalle problematiche sociali del mondo contemporaneo quali l’identità femminile, lo scontro tra le classi, l’instabilità che un’eccessiva militarizzazione comporta. Il risultato è un’esperienza del tutto nuova e autonoma rispetto ai modelli indigeni preesistenti e rispetto ai risultati dei cugini di Delhi e Mumbai.
Il lavoro di Naiza H Khan offre il miglior esempio di come un’esperienza stilistica e filosofica sappia progredire dai modelli autoctoni, fino a lambire le più estreme esperienze umane ed esistenziali dell’antropologia globale. Ed è proprio la chiave antropologica quella che ci consente una lettura più appropriata dell’utopia che il lavoro di Naiza H Khan desidera svelare. Le sue sculture rimandano alla gioielleria cosi come è stata affrontata nell’opera Bihishti Zewar, un testo in urdu del maestro sufi indiano Ashraf Ali Thanawi. L’opera, rivolta a un pubblico femminile, tratta argomenti vari, da quello giuridico a quello comportamentale. Un lavoro, quello di Naiza H Khan, che osa attraversare in modo tangente la cultura intera del Sub-Continente indiano, nella sua matrice musulmano-riformata. Da qui procede per affrontare problematiche contemporanee della cultura musulmana, soprattutto quegli elementi stereotipati e demonizzati dai media occidentali (il burqa, il velo, la femminilità negata). Entrando in contatto con la nostra cultura, l’opera di Naiza H Khan (i corsetti in metallo, le cinture di castità…) ci ricorda che il nostro passato ha umiliato l’identità femminile e che tutt’ora la donna, nella cultura occidentale, è vista a volte come puro oggetto di piacere e di consumo, alla cui fisicità sono abbinati oggetti legati al rito masochista e feticista; le sculture di Naiza H Khan possono avere anche in questo senso un forte riferimento simbolico.
Con le dovute differenze, anche nell’opera di Seema Nusrat gioca un ruolo importante il rapporto tra oggetto e feticismo: cinture in pelle, cravatte, stoffe, oggetti di uso comune sono carichi di una forte valenza comportamentale. Inoltre va sottolineato come nell’opera di Nusrat il corpo assente svolga un ruolo di protagonista. Le sue sculture definiscono lo spazio nell’assenza del corpo, e tale assenza va intesa non come negazione ma come una forte allusione a esso. L’impatto visivo delle sue opere ricorda le decorazioni e le crittografie delle moschee islamiche, lì dove è l’assenza-presenza di Dio a essere oggetto di culto. Anche l’apparente casualità della forma, nelle sculture di Nusrat, rimanda all’assenza di un preciso ordine stilistico. Ma è anche qui un’allusione, poiché tutto è studiato, calcolato e bilanciato con una determinazione quasi maniacale. L’opera racconta sé stessa e rimanda a sé stessa attraverso le pieghe più nascoste che la stoffa, una cravatta, una cintura riescono ad articolare. Il lavoro di Seema Nusrat affronta un’area più concettuale, rispetto a coeve esperienze della scena di Karachi. È il materiale, è l’idea, è la forma-non forma che esaltano sé stessi e che annunciano un ormai avvenuto crepuscolo della narrazione.
Se è l’utopia della superiorità culturale a essere denunciata nell’opera di Naiza H Khan, oppure l’utopia della forma nelle sculture di Seema Nusrat, è l’utopia del significato a giocare un ruolo importante nell’opera di Adeela Suleman. Fin dai suoi primi lavori l’artista ha saputo cogliere l’ambiguità dell’opera d’arte, nell’assemblaggio di semplici utensili di uso quotidiano, che il suo peregrinare nei mercati di Karachi la portava a raccogliere. Scodelle, vasi, tazze si trasformavano in caschi, elmetti protettivi; marmitte da motocicletta, rubinetti e tubi diventavano sculture astratte in precario ma costante equilibrio tra pieno e vuoto. Eppure, questa polivalenza della forma rimanda a una polivalenza della struttura interna dell’opera, ancor più evidente nell’ultimo ciclo di lavori, apparentemente più narrativi, in cui l’artista sembra concedere alla materia un forma più precisa. È il caso dell’installazione Big Tree dove un grande albero attrae intorno a sé una selezione di oggetti scelti da Suleman per la loro valenza metaforica. «The whole idea that they can be moved and placed differently would change the story excites me» dice Suleman riguardo agli oggetti e al loro significato. Ed è questa una vera e propria dichiarazione di poetica. L’albero, supremo simbolo naturale della crescita dinamica; il pappagallo, che nelle narrazioni della cultura popolare pakistana riveste il ruolo di depositario di un segreto e della sua possibile rivelazione; il pavone, simbolo della radianza solare e di immortalità ma il cui grido, nelle leggende pakistane, può anche essere messaggero di morte; le rose rosse che simbolizzano il sangue, martirio, morte e resurrezione. Questi elementi significano poco di per sé, è la loro interazione a esser carica di una moltitudine di significati, determinata dalla variazione del ruolo che l’oggetto tende ad assumere nelle eventuali, e pur possibili, modificazioni della scena. Ed è ciò che si augura Suleman, nella cui opera convivono gli elementi non solo di una raffinata poetica visiva, ma anche di una precisa semiotica della stessa.
Davide Gallo
10
giugno 2010
H Khan | Nusrat | Suleman – Svelando l’utopia
Dal 10 giugno al 24 luglio 2010
arte contemporanea
Location
Simondi
Torino, Via Della Rocca, 29, (Torino)
Torino, Via Della Rocca, 29, (Torino)
Orario di apertura
da martedì a sabato 15.30-19.30
mattino su appuntamento
Vernissage
10 Giugno 2010, ore 19.00 - 23.00
Autore