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Il cielo alla rovescia. Il cielo in una scatola. Omaggio a Galileo
Dedicata a Galileo Galilei in occasione dell’anno internazionale dell’astronomia, Il cielo alla rovescia, prima che il titolo di una piccola costellazione di eventi espositivi, a loro volta creati da costellazioni di persone,opere, è una dichiarazione di intenti,riflessione sull’operare nell’arte
Comunicato stampa
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Valeria Tassinari
Il cielo alla rovescia
E se il cielo - quella misura imprendibile, quel mistero di disegni che si chiamano da punti di luce lontanissimi, quel declinare di colori sempre nuovo e uguale, quell’intreccio nervoso di traiettorie che si sfiorano in fuga - si rovesciasse un giorno sulla terra, non sembrerebbe in fondo normale, come qualcosa che è sempre stato qui?
Dedicata a Galileo Galilei in occasione dell’anno internazionale dell’astronomia, Il cielo alla rovescia, prima che il titolo di una piccola costellazione di eventi espositivi, a loro volta creati da costellazioni di persone e di opere, è una dichiarazione di intenti, una riflessione sull’operare nell’arte contemporanea.
Una metafora, che si pone in primo luogo come interrogativo su certe dinamiche dell’arte e, appena un passo dopo l’intenzione, come scoperta pragmatica di quanto, al di là della suggestione romantica che l’immagine può evocare, sia in fondo facile, persino ovvio, sentirsi parte di cielo. Fare arte, così come scriverne o occuparsene, significa in fondo porsi di fronte ad un orizzonte illimitato, sentirsi parte di un sistema potenzialmente infinito di soluzioni e relazioni, che si traduce in lontananze ed avvicinamenti in continua evoluzione. Un’esperienza estetica ed esistenziale, che concede piena libertà e profondo smarrimento a chi non si vincola a rotte definite. Una mappa poco terrena, troppo simile alla vaghezza di un cielo.
A noi,che la percorriamo piantando bandierine leggere, piacciono gli itinerari aperti, le navigazioni a vista, le occasioni prese e quelle perdute, gli incontri che generano progetti impalpabili e immaginifici, come figure disegnate a tratteggio tra punti di luce che si parlano a distanza, quando riescono a sentirsi. Ci interessa chi guarda le singole opere e riesce a vedere l’imprevisto disegno che le unisce, chi ascolta le persone e le mette in ascolto tra loro. Vogliamo lavorare su progetti che generano progetti, mancare gli obiettivi che affondano quando sono colpiti, centrare quelli che spostano altrove la loro ombra.
Per questo ci interessa un uomo che ha reso diversa una notte come tutte le altre, prendendo uno strumento e puntandolo in una direzione differente. Perché quello che per gli altri era solo un gioco di lenti utili a guardare lontano sulla terra, per lui è stato un veicolo per avvicinarsi alla Luna.
Al di là delle celebrazioni del personaggio e delle sue scoperte, già da tempo al centro di una lunga serie di eventi nel mondo, la figura di Galileo è dunque esempio magistrale di un certo modo di decifrare e “sentire” il visibile. Usare strumenti, cercare relazioni, uscire dalle superstizioni, dal pregiudizio e dal preconcetto, vedere ciò che si guarda con curiosità e determinazione, anche dove appare difficile o scomodo, anche quando sembra già di sapere tutto, anche quando altri sembrano aver già detto tutto, anche quando sembra che il non poter dire impedisca di vedere.
Galileo, che ha visto stelle <>. E non capita forse di vederne anche sulla terra, di creature così?
Cieli sulla terra
Tra i punti stellati dell’universo gli antenati hanno visto figure, bestie, carri, io scorgevo linee di alfabeti. Il mondo era scritto, il primo uomo non inventava i nomi, li leggeva.
( Erri De Luca, Aceto, arcobaleno)
Deve esistere una balistica dello sguardo, una capacità intuitiva di fargli puntare un bersaglio, nell’uomo che ama la conoscenza. Questo non significa sapere cosa si troverà, ma come cercare. Se voglio vedere impronte cerco sulla terra, se voglio vedere voli alzo lo sguardo. Non so quali pressioni tratterranno le impronte, non so riconoscere le ali dal loro profilo; ma so dove posso trovare passi e balzi, e dove troverò battiti e frulli. Ovunque troverò indicazioni di storie.
L’arte, soprattutto quella degli ultimi decenni, nasce principalmente da istanze individuali, esplora spazi interiori che appartengono principalmente all’autore, si propone spesso come ripetizione di soluzioni formali già viste, con varianti tanto minime da apparire insignificanti, apparentemente determinanti solo per chi ha realizzato il lavoro. Così capita di chiedersi perché dovrebbe importarcene qualcosa. Guardare opere d’arte non è mai un gesto neutrale, ma perché questo abbia ancora un senso va recuperata un’intenzionalità caparbia, che nasce dalla volontà di dedicare attenzione all’opera, anche alla più marginale, anche a quella che si allontana. Altrimenti è come passare davanti allo specchio della nostra stanza e vederci una persona che a forza di esserci famigliare ci è diventata estranea.
L’impegno a cercare è ciò che fa la differenza tra lo spettatore occasionale e quello attento, diciamo pure appassionato. Il primo, passa velocemente in rassegna, selezionando e annullando automaticamente quello che sa già di non apprezzare, si ferma su ciò che gli dà conferme, si sorprende di ciò che genera traumi, ma li supera in fretta. Il secondo prende tempo, aspetta che le cose si rivelino lentamente, cerca di riconoscersi in quello che vede, o di riconoscere le ragioni della propria estraneità, quasi con un piccolo senso di colpa. Si mette in situazioni scomode. Il guardare l’opera d’arte è curiosità dell’altro, richiede desiderio e rispetto, umiltà, dedizione. Parole grosse, nel giro dell’effimero.
Queste pagine documentano una mostra che si propone di riflettere sulla necessità di usare il proprio sguardo come strumento per attraversare le distanze, per inseguire il sogno di avvincinare ciò che ci appare infinitamente lontano, e per allontanare un po’ quello che ci sta accanto; per intuire quale sia la nostra posizione di satelliti nell’universo del visibile, e quanto la sua molteplicità possa riflettersi in noi. Una mostra apparentemente inoffensiva, una collettiva di artisti eterogenei, come ce ne sono tante.
Ma qui ci sono fili conduttori, percorsi di energia, costellazioni di senso da cercare, per niente indifferenti. Questa mostra non vola essere innocua, ma una provocazione per chi voleva entrare nel gioco, una prova per chi sarebbe riuscito a starci dentro.
Articolata in una serie di grandi installazioni collettive, tra gallerie, studi d’artista, la preziosa facciata rinascimentale di una piccola chiesa ferrarese e, nella sua tappa finale, anche gli evocativi ambienti della cinquecentesca Casa di Virginio, il figlio di Ludovico Ariosto, a Stellata ( e mai sede e luogo avrebbero potuto essere più pertinenti), questo esperimento vive di opere messe in relazione tra loro solo dalla posizione di piccoli chiodi, grazie ad un allestimento che ha cercato di allontanarle il più possibile dalle modalità di osservazione consuete.
Disposte sulle pareti, ma in galleggiamento al confine con il soffitto negli spazi espositivi più tradizionali, appese come segni clandestini e perturbanti sulla facciata di biscotto della chiesa di San Giacomo, infiltrate nella caotica Wunderkammer di un atelier, segretate in piccole scatole accessibili solo da uno spioncino, le opere andavano prima di tutto trovate.
Costringendo il pubblico a compiere uno sforzo di attenzione e di ricerca per riuscire a vederle, utilizzando persino un vero cannocchiale, icona e metafora della necessità di adottare nuovi strumenti di lettura per riuscire a cogliere con chiarezza i particolari di ciò che ci affascina o incuriosisce, l’allestimento è stato il nostro modo per rendere visibili gli intenti in cui ci siamo riconosciuti.
Giocando con poesia e sottile ironia nel rovesciare le relazione tra terra e cielo, immaginando un’ improvvisa inversione degli sguardi e della relazione tra vicino e lontano, la mostra propone così la seduzione di muri come cieli terrestri abitati da una serie di costellazioni di piccole opere di autori, tra loro legati da relazioni personali o affinità poetiche, che come stelle o pianeti pur restando solitari finiscono per disegnare insieme figure inedite e segrete, il cui significato può stare solo nello sguardo di chi lo sa cercare.
Come le costellazioni celesti, dunque, anche le opere contemporanee invitano a immaginare tracce invisibili di collegamento, forme che possono indicare percorsi e destini: ogni opera manda un segnale di luce propria ma al contempo si lega alle altre, in un sistema di rapporti complesso ( poetiche, riferimenti storici comuni, formazioni, temi, tecniche e colori, relazioni di stima e amicizia tra artisti e galleristi) che concatenandosi si apre potenzialmente all’infinito.
La costellazione dei rossi, per esempio. O quella della caducità del tempo. Quella dell’ironia. Quella della rarefazione. Quella degli stralunati erranti sulla terra. Quella delle lune taglienti. Quella delle mani aperte in preghiera.
E’ un fare sistema pacato e sovversivo, che regala libertà di azione, magari complicazioni organizzative ma anche soddisfazioni impreviste.
Il cielo e la stanza
Partendo dal tema della mostra, alcuni artisti hanno scelto un’opera emblematica della propria poetica, altri si sono proiettati direttamente nell’orizzonte dei repertori celesti, scegliendo di utilizzarne il vocabolario classico –stelle, nuvole, ali, astrologie fantastiche, pianeti, perturbazioni …- per mettere a fuoco le lenti sugli osservatori astronomici personali, per portare dentro i propri cieli. I cieli nelle stanze.
Se oggi l’immagine del cielo in una stanza è stata dipinta nell’immaginario popolare soprattutto dalle parole di una canzone d’amore ( la poesia semplice e indelebile di Gino Paoli) , è pur vero che nella storia dell’arte ci sono sempre state stanze di cielo. Un’infinità di stanze di cielo. Per l’uomo che ha affidato l’immortalità a santuari e sepolture, abitando il mondo per possederlo in un tempo ad orologeria, catturare il cielo e portarselo dentro è stato un passaggio obbligato attraverso l’utopia. L’incanto dell’imponderabile che entra nel finito, il tocco lieve dei blu e degli azzurri che subito dissolvono muri e confini aprendo gli occhi e il respiro, è un effetto illusionistico che funziona sempre, che rassicura e seduce da millenni nello stesso modo; la spiritualità e lo stupore dei sensi, il desiderio di immortalità e il vezzo di infilare collane di infinito con gli astri e le nuvole, sono attitudini ancestrali che non abbiamo perduto, e che ci rassicurano sull’origine ereditaria e inevitabile delle nostre ingenuità .
I cieli nelle stanze, confezionati tra le pareti come doni da consegnare all’altrove, appesi ai soffitti come festoni nei giorni di trionfo, o bucati come osservatori su una volte celesti fasulle e compiacenti.
Il movimento mistico dei cerchi concentrici, stelle d’oro vitreo come ingranaggi di incanto montati direttamente dalle dita di Dio, nei mosaici ravennati di Galla Placidia.
Gli azzurri intensi che traforano la Cappella degli Scrovegni, un polmone dilatato a prender aria vera dal mondo, per dare fiato e respiro al racconto di Giotto.
Il blu abbagliato dalle stelle puntiformi della notte di Costantino , il prodigio sotto il quale l’imperatore sogna tranquillo, vegliato dalla precisa mappa celeste che Piero della Francesca, insonne, copiò per lui, in una lontana notte di Arezzo, nella cappella della Santa Croce.
Il cobalto terribile del Giudizio Universale, l’abisso del vuoto alla fine del tempo secondo Michelangelo.
Le volte dipinte coi temi astrali dei potenti, esaltazioni compiacenti di astrologi servili, per custodire festini nelle ville di delizia e di piacere nelle corti del Rinascimento italiano.
La panna di nuvole montate al centro dei grandi spettacoli barocchi, cieli turbati da una meteorologia di effetti speciali, e deflagrazioni di luce a sorpresa per far scoppiare soffitti come bolle di sapone alla fine dell’illusione .
E, oggi, la vertigine metafisica di Anish Kapoor, con i suoi buchi sull’assenza, in un vuoto senza soglia.
Oppure, qui, addirittura la misura minima del cielo nella scatola, come se la stanza, ancora troppo grande per favorire la concentrazione, si fosse prestata all’incastro delle scatole cinesi, una dentro l’altra - l’edificio, la stanza, la scatola, e dentro –sopresa- non il vuoto, ma tutta la pienezza del cielo. Una densità evocativa persino più grande, nel ritaglio di un piccolo contenitore che osa provare a catturarla. Dentro questi cubetti di legno montati ad altezza d’occhio o di cuore, davanti ai quali bisogna assestare postura e pensiero, lo spioncino è un’apertura al fantastico che fa subito correre lo sguardo lontano, mentre il pulsante che accende la luce rinnova l’incantesimo infantile della scatola magica, rivelando miniature di cieli cristallini o grevi, brevi cronache di cicli lunari appesi sulle mura cittadine, passaggi di sogni e nuvole, segni di uomini e di zodiaci, passaggi di vento .
Un vento così forte e terribile nel suo soffio da palpitare anche quando è rinchiuso, come il segreto nel vaso di Pandora, o il Genio nella lampada di Aladino; così folle e sottile da stupire, come l’aria di Parigi di Duchamp, prigioniera di un’ampolla ancor più trasparente di quella che ha trattenuto il del senno di Orlando.
Ma forse proprio qui , almeno per ora, è tempo di chiudere il giro del cielo. Giunti sulla soglia della follia, arrivano puntuali le prime conferme. Perché, è chiaro, dove si potrebbe andare a cercarlo, il senno degli uomini, se non dentro un’ampolla in bilico sulla luna?
Prendetevi un cannocchiale, signori, se volete ritrovarvi. Il cielo è qui, sul vostro cammino.
Il cielo alla rovescia
E se il cielo - quella misura imprendibile, quel mistero di disegni che si chiamano da punti di luce lontanissimi, quel declinare di colori sempre nuovo e uguale, quell’intreccio nervoso di traiettorie che si sfiorano in fuga - si rovesciasse un giorno sulla terra, non sembrerebbe in fondo normale, come qualcosa che è sempre stato qui?
Dedicata a Galileo Galilei in occasione dell’anno internazionale dell’astronomia, Il cielo alla rovescia, prima che il titolo di una piccola costellazione di eventi espositivi, a loro volta creati da costellazioni di persone e di opere, è una dichiarazione di intenti, una riflessione sull’operare nell’arte contemporanea.
Una metafora, che si pone in primo luogo come interrogativo su certe dinamiche dell’arte e, appena un passo dopo l’intenzione, come scoperta pragmatica di quanto, al di là della suggestione romantica che l’immagine può evocare, sia in fondo facile, persino ovvio, sentirsi parte di cielo. Fare arte, così come scriverne o occuparsene, significa in fondo porsi di fronte ad un orizzonte illimitato, sentirsi parte di un sistema potenzialmente infinito di soluzioni e relazioni, che si traduce in lontananze ed avvicinamenti in continua evoluzione. Un’esperienza estetica ed esistenziale, che concede piena libertà e profondo smarrimento a chi non si vincola a rotte definite. Una mappa poco terrena, troppo simile alla vaghezza di un cielo.
A noi,che la percorriamo piantando bandierine leggere, piacciono gli itinerari aperti, le navigazioni a vista, le occasioni prese e quelle perdute, gli incontri che generano progetti impalpabili e immaginifici, come figure disegnate a tratteggio tra punti di luce che si parlano a distanza, quando riescono a sentirsi. Ci interessa chi guarda le singole opere e riesce a vedere l’imprevisto disegno che le unisce, chi ascolta le persone e le mette in ascolto tra loro. Vogliamo lavorare su progetti che generano progetti, mancare gli obiettivi che affondano quando sono colpiti, centrare quelli che spostano altrove la loro ombra.
Per questo ci interessa un uomo che ha reso diversa una notte come tutte le altre, prendendo uno strumento e puntandolo in una direzione differente. Perché quello che per gli altri era solo un gioco di lenti utili a guardare lontano sulla terra, per lui è stato un veicolo per avvicinarsi alla Luna.
Al di là delle celebrazioni del personaggio e delle sue scoperte, già da tempo al centro di una lunga serie di eventi nel mondo, la figura di Galileo è dunque esempio magistrale di un certo modo di decifrare e “sentire” il visibile. Usare strumenti, cercare relazioni, uscire dalle superstizioni, dal pregiudizio e dal preconcetto, vedere ciò che si guarda con curiosità e determinazione, anche dove appare difficile o scomodo, anche quando sembra già di sapere tutto, anche quando altri sembrano aver già detto tutto, anche quando sembra che il non poter dire impedisca di vedere.
Galileo, che ha visto stelle <
Cieli sulla terra
Tra i punti stellati dell’universo gli antenati hanno visto figure, bestie, carri, io scorgevo linee di alfabeti. Il mondo era scritto, il primo uomo non inventava i nomi, li leggeva.
( Erri De Luca, Aceto, arcobaleno)
Deve esistere una balistica dello sguardo, una capacità intuitiva di fargli puntare un bersaglio, nell’uomo che ama la conoscenza. Questo non significa sapere cosa si troverà, ma come cercare. Se voglio vedere impronte cerco sulla terra, se voglio vedere voli alzo lo sguardo. Non so quali pressioni tratterranno le impronte, non so riconoscere le ali dal loro profilo; ma so dove posso trovare passi e balzi, e dove troverò battiti e frulli. Ovunque troverò indicazioni di storie.
L’arte, soprattutto quella degli ultimi decenni, nasce principalmente da istanze individuali, esplora spazi interiori che appartengono principalmente all’autore, si propone spesso come ripetizione di soluzioni formali già viste, con varianti tanto minime da apparire insignificanti, apparentemente determinanti solo per chi ha realizzato il lavoro. Così capita di chiedersi perché dovrebbe importarcene qualcosa. Guardare opere d’arte non è mai un gesto neutrale, ma perché questo abbia ancora un senso va recuperata un’intenzionalità caparbia, che nasce dalla volontà di dedicare attenzione all’opera, anche alla più marginale, anche a quella che si allontana. Altrimenti è come passare davanti allo specchio della nostra stanza e vederci una persona che a forza di esserci famigliare ci è diventata estranea.
L’impegno a cercare è ciò che fa la differenza tra lo spettatore occasionale e quello attento, diciamo pure appassionato. Il primo, passa velocemente in rassegna, selezionando e annullando automaticamente quello che sa già di non apprezzare, si ferma su ciò che gli dà conferme, si sorprende di ciò che genera traumi, ma li supera in fretta. Il secondo prende tempo, aspetta che le cose si rivelino lentamente, cerca di riconoscersi in quello che vede, o di riconoscere le ragioni della propria estraneità, quasi con un piccolo senso di colpa. Si mette in situazioni scomode. Il guardare l’opera d’arte è curiosità dell’altro, richiede desiderio e rispetto, umiltà, dedizione. Parole grosse, nel giro dell’effimero.
Queste pagine documentano una mostra che si propone di riflettere sulla necessità di usare il proprio sguardo come strumento per attraversare le distanze, per inseguire il sogno di avvincinare ciò che ci appare infinitamente lontano, e per allontanare un po’ quello che ci sta accanto; per intuire quale sia la nostra posizione di satelliti nell’universo del visibile, e quanto la sua molteplicità possa riflettersi in noi. Una mostra apparentemente inoffensiva, una collettiva di artisti eterogenei, come ce ne sono tante.
Ma qui ci sono fili conduttori, percorsi di energia, costellazioni di senso da cercare, per niente indifferenti. Questa mostra non vola essere innocua, ma una provocazione per chi voleva entrare nel gioco, una prova per chi sarebbe riuscito a starci dentro.
Articolata in una serie di grandi installazioni collettive, tra gallerie, studi d’artista, la preziosa facciata rinascimentale di una piccola chiesa ferrarese e, nella sua tappa finale, anche gli evocativi ambienti della cinquecentesca Casa di Virginio, il figlio di Ludovico Ariosto, a Stellata ( e mai sede e luogo avrebbero potuto essere più pertinenti), questo esperimento vive di opere messe in relazione tra loro solo dalla posizione di piccoli chiodi, grazie ad un allestimento che ha cercato di allontanarle il più possibile dalle modalità di osservazione consuete.
Disposte sulle pareti, ma in galleggiamento al confine con il soffitto negli spazi espositivi più tradizionali, appese come segni clandestini e perturbanti sulla facciata di biscotto della chiesa di San Giacomo, infiltrate nella caotica Wunderkammer di un atelier, segretate in piccole scatole accessibili solo da uno spioncino, le opere andavano prima di tutto trovate.
Costringendo il pubblico a compiere uno sforzo di attenzione e di ricerca per riuscire a vederle, utilizzando persino un vero cannocchiale, icona e metafora della necessità di adottare nuovi strumenti di lettura per riuscire a cogliere con chiarezza i particolari di ciò che ci affascina o incuriosisce, l’allestimento è stato il nostro modo per rendere visibili gli intenti in cui ci siamo riconosciuti.
Giocando con poesia e sottile ironia nel rovesciare le relazione tra terra e cielo, immaginando un’ improvvisa inversione degli sguardi e della relazione tra vicino e lontano, la mostra propone così la seduzione di muri come cieli terrestri abitati da una serie di costellazioni di piccole opere di autori, tra loro legati da relazioni personali o affinità poetiche, che come stelle o pianeti pur restando solitari finiscono per disegnare insieme figure inedite e segrete, il cui significato può stare solo nello sguardo di chi lo sa cercare.
Come le costellazioni celesti, dunque, anche le opere contemporanee invitano a immaginare tracce invisibili di collegamento, forme che possono indicare percorsi e destini: ogni opera manda un segnale di luce propria ma al contempo si lega alle altre, in un sistema di rapporti complesso ( poetiche, riferimenti storici comuni, formazioni, temi, tecniche e colori, relazioni di stima e amicizia tra artisti e galleristi) che concatenandosi si apre potenzialmente all’infinito.
La costellazione dei rossi, per esempio. O quella della caducità del tempo. Quella dell’ironia. Quella della rarefazione. Quella degli stralunati erranti sulla terra. Quella delle lune taglienti. Quella delle mani aperte in preghiera.
E’ un fare sistema pacato e sovversivo, che regala libertà di azione, magari complicazioni organizzative ma anche soddisfazioni impreviste.
Il cielo e la stanza
Partendo dal tema della mostra, alcuni artisti hanno scelto un’opera emblematica della propria poetica, altri si sono proiettati direttamente nell’orizzonte dei repertori celesti, scegliendo di utilizzarne il vocabolario classico –stelle, nuvole, ali, astrologie fantastiche, pianeti, perturbazioni …- per mettere a fuoco le lenti sugli osservatori astronomici personali, per portare dentro i propri cieli. I cieli nelle stanze.
Se oggi l’immagine del cielo in una stanza è stata dipinta nell’immaginario popolare soprattutto dalle parole di una canzone d’amore ( la poesia semplice e indelebile di Gino Paoli) , è pur vero che nella storia dell’arte ci sono sempre state stanze di cielo. Un’infinità di stanze di cielo. Per l’uomo che ha affidato l’immortalità a santuari e sepolture, abitando il mondo per possederlo in un tempo ad orologeria, catturare il cielo e portarselo dentro è stato un passaggio obbligato attraverso l’utopia. L’incanto dell’imponderabile che entra nel finito, il tocco lieve dei blu e degli azzurri che subito dissolvono muri e confini aprendo gli occhi e il respiro, è un effetto illusionistico che funziona sempre, che rassicura e seduce da millenni nello stesso modo; la spiritualità e lo stupore dei sensi, il desiderio di immortalità e il vezzo di infilare collane di infinito con gli astri e le nuvole, sono attitudini ancestrali che non abbiamo perduto, e che ci rassicurano sull’origine ereditaria e inevitabile delle nostre ingenuità .
I cieli nelle stanze, confezionati tra le pareti come doni da consegnare all’altrove, appesi ai soffitti come festoni nei giorni di trionfo, o bucati come osservatori su una volte celesti fasulle e compiacenti.
Il movimento mistico dei cerchi concentrici, stelle d’oro vitreo come ingranaggi di incanto montati direttamente dalle dita di Dio, nei mosaici ravennati di Galla Placidia.
Gli azzurri intensi che traforano la Cappella degli Scrovegni, un polmone dilatato a prender aria vera dal mondo, per dare fiato e respiro al racconto di Giotto.
Il blu abbagliato dalle stelle puntiformi della notte di Costantino , il prodigio sotto il quale l’imperatore sogna tranquillo, vegliato dalla precisa mappa celeste che Piero della Francesca, insonne, copiò per lui, in una lontana notte di Arezzo, nella cappella della Santa Croce.
Il cobalto terribile del Giudizio Universale, l’abisso del vuoto alla fine del tempo secondo Michelangelo.
Le volte dipinte coi temi astrali dei potenti, esaltazioni compiacenti di astrologi servili, per custodire festini nelle ville di delizia e di piacere nelle corti del Rinascimento italiano.
La panna di nuvole montate al centro dei grandi spettacoli barocchi, cieli turbati da una meteorologia di effetti speciali, e deflagrazioni di luce a sorpresa per far scoppiare soffitti come bolle di sapone alla fine dell’illusione .
E, oggi, la vertigine metafisica di Anish Kapoor, con i suoi buchi sull’assenza, in un vuoto senza soglia.
Oppure, qui, addirittura la misura minima del cielo nella scatola, come se la stanza, ancora troppo grande per favorire la concentrazione, si fosse prestata all’incastro delle scatole cinesi, una dentro l’altra - l’edificio, la stanza, la scatola, e dentro –sopresa- non il vuoto, ma tutta la pienezza del cielo. Una densità evocativa persino più grande, nel ritaglio di un piccolo contenitore che osa provare a catturarla. Dentro questi cubetti di legno montati ad altezza d’occhio o di cuore, davanti ai quali bisogna assestare postura e pensiero, lo spioncino è un’apertura al fantastico che fa subito correre lo sguardo lontano, mentre il pulsante che accende la luce rinnova l’incantesimo infantile della scatola magica, rivelando miniature di cieli cristallini o grevi, brevi cronache di cicli lunari appesi sulle mura cittadine, passaggi di sogni e nuvole, segni di uomini e di zodiaci, passaggi di vento .
Un vento così forte e terribile nel suo soffio da palpitare anche quando è rinchiuso, come il segreto nel vaso di Pandora, o il Genio nella lampada di Aladino; così folle e sottile da stupire, come l’aria di Parigi di Duchamp, prigioniera di un’ampolla ancor più trasparente di quella che ha trattenuto il del senno di Orlando.
Ma forse proprio qui , almeno per ora, è tempo di chiudere il giro del cielo. Giunti sulla soglia della follia, arrivano puntuali le prime conferme. Perché, è chiaro, dove si potrebbe andare a cercarlo, il senno degli uomini, se non dentro un’ampolla in bilico sulla luna?
Prendetevi un cannocchiale, signori, se volete ritrovarvi. Il cielo è qui, sul vostro cammino.
28
marzo 2010
Il cielo alla rovescia. Il cielo in una scatola. Omaggio a Galileo
Dal 28 marzo al 30 maggio 2010
arte contemporanea
Location
CASA DI VIRGINIO ARIOSTO
Bondeno, Via Antonio Gramsci, 301, (Ferrara)
Bondeno, Via Antonio Gramsci, 301, (Ferrara)
Orario di apertura
sabato dalle 15 alle 19 e domenica dalle 9.30 alle 12.30 e dalle 15.00 alle 19.00
Vernissage
28 Marzo 2010, ore 18.00
Autore
Curatore