La poesia della sua opera parte sempre da una forma per evolversi nei mille rivoli di un delta creativo incontenibile. Qui, la forza naturale di un tramonto tra i canneti del Sinis diventa un esplosione di colore caldo, in uno spazio metafisico che pulsa tra pozze di infinite venature. Vive. E ancora, la dolcezza di un’ombra che accarezza un corpo nel sole, diventa contorno di un’anima riflessa su una sfoglia d’intonaco dimenticato. Gigi Scano guarda, si innamora fotografa il vento, le nuvole, il mare, la muffa. E da quelle immagini prende il volo, riversando su centinaia di fogli bianchi tutte le sensazioni che la sua terra gli regala. Metabolizza ogni onda che si infrange sulle spiagge della sua vita, ogni sole che scompare dietro il solito faro, ogni gabbiano che sfiora lo stagno, ogni canna che si piega sotto le sferzate del maestrale. E restituisce frammenti, colori, ombre attraverso un’armonia di forme informi di colori che pulsano in eterna tensione, di contorni che sembrano, ma non sono. Eterna ambiguità di essenze incerte, imperfette di donne che accolgono il loro stesso penetrare, di forme che sfondano i contorni per fondersi totalmente in un colore che indica, ma non conferma. Un colore che, soprattutto nelle ultime opere, sfugge scorrendo sottotraccia, nei sotterranei di argini immacolati e materici. Si dissocia, si separa per lasciare emergere solo uno schema di movimento: diaframma dopo diaframma, scatto su scatto, sovrapposizione temporale di istanti. Una danza schizofrenica dove il colore segue un destino diverso, sommerso, costretto, lontano. Dove la sovrastruttura comprime, forza, costringe la libertà, tra le sbarre di schemi fissi, ripetitivi. Una dicotomia continua nell’opera di Scano, un dualismo profondo, sofferto, vissuto fino a diventare linguaggio poetico. (Alessandra Raggio)