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Beate Lakotta / Walter Schels – Noch mal leben. Vivere ancora
Una mostra fotografica sulla vita e sulla morte
Comunicato stampa
Segnala l'evento
“Non temo la morte. Quel che mi spaventa è morire.” In questa coinvolgente frase di Klara
Behrens, una dei 24 protagonisti della mostra Noch mal leben è racchiuso il senso dell’indagine
compiuta dal fotografo Walter Schels e dalla giornalista Beate Lakotta. I due hanno fatto un
lunga approfondita ricerca negli hospice in Germania intervistando e fotografando persone che
stavano percorrendo l’ultimo tragitto della loro vita. Il risultato è stato raccolto nel libro di
fotografia Noch mal leben vor dem Tod – wenn Menschen sterben / Vivere ancora prima di
morire – quando le persone muoiono da cui è poi nata l’idea di una mostra fotografica itinerante
che ha toccato città importanti quali Londra, Berlino, Lisbona, Vienna, Tokio, Tel Aviv e molte
altre, soprattutto in Germania e Austria.
Dal 27 febbraio al 1 aprile 2010 sarà possibile, grazie alla collaborazione tra l’Associazione
Il Papavero – Der Mohn e la Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano, visitare in
anteprima nazionale questa particolare mostra negli spazi della Libera Università di Bolzano.
Il Papavero – Der Mohn è un’associazione fondata a Bolzano nel 2008, a carattere volontario e
senza fini di lucro, che ha per finalità la diffusione della cultura delle cure palliative e dell’hospice.
Gli autori della mostra Walter Schels e Beate Lakotta hanno realizzato un viaggio nel territorio
oscuro dei confini della vita, viaggio disperato ma rispettoso e partecipe, il cui risultato è una
mostra di una semplicità e sincerità poetica e toccante. Hanno vissuto per oltre un anno negli
hospice del Nord della Germania ed hanno ritratto 24 persone, di età compresa tra i 17 mesi e gli
83 anni, pochi giorni prima e immediatamente dopo la loro morte. Ogni coppia di ritratti in
bianco-nero di grande formato viene accompagnata dai dati biografici delle persone e corredata
da illuminanti e significative righe su come hanno vissuto gli ultimi giorni e sul modo in cui si
sono avvicinati al passo verso l’ignoto.
Oggi, principalmente nel mondo occidentale, la sofferenza e la morte sono divenute
sconvenienti, fuori luogo, fonte di angoscia.
L’associazione Il Papavero – Der Mohn con il sostegno della Facoltà di Design e Arti ha voluto
pertanto riportare le testimonianze, che la mostra Noch mal leben propone, con l’intento di
rompere il tabù che spesso isola e allontana chi vive il momento più difficile dell’intera esistenza.
La mostra ci aiuta a riflettere sul mistero rappresentato da una vita unica ed irripetibile che
finisce, ma nella quale una relazione è ancora possibile, anche quando fragilità e debolezza
hanno il sopravvento. Solo così la vicinanza al morente consente, a chi sopravvive al distacco, di
recuperare il senso di una vita che si conclude e di attribuire un significato al ricordo di chi non
c’è più, ma che rimarrà per sempre.
Accompagna la mostra un ricco programma di manifestazioni collaterali.
Programma delle manifestazioni collaterali
27.02.2010, ore 18:00*
Libera Università di Bolzano
Piazza Università 1, Bolzano
Aula D102
La morte ci pro-voca a vivere la vita
Tavola rotonda sul tema della mostra
Con: Walter Schels, Beate Lakotta, Prof. Paolo Renner, Prof. Gian Domenico Borasio
Moderatore: Rudy Gamper
05.03.2010, ore 20:00
Conservatorio Monteverdi Bolzano
Piazza Domenicani 19, Bolzano
Concerto di pianoforte con
Roberto Cominati, Premio Busoni
Introduzione: Prof. Hubert Stuppner
16.03.2010, ore 20:00*
Libera Università di Bolzano
Piazza Università 1, Bolzano
Aula D102
La morte è la fine?
Pensieri spirituali sulla morte e sul morire.
Con: Prof. Gabriel Looser e Caritas Servizio Hospice Bolzano
19.03.2010, ore 9.00 – 16.00
Sala di Rappresentanza della Città di Bolzano
Vicolo Gumer 7, Bolzano
Convegno Regionale della Società Italiana Cure Palliative
Organizzazione scientifica: Dr. Massimo Bernardo
26.3.2010, ore 20.00*
Libera Università di Bolzano
Piazza Università 1, Bolzano
Aula D102
Il volto che verrà
Dialoghi interdisciplinari intorno alla morte
Con:Prof. Paolo Renner, Prof. Pier Giorgio Rauzi e Prof. Silvano Zucal
Moderatore: Prof. Alessandro Costazza
* Durante queste manifestazioni sarà fornito un servizio di traduzione simultanea
Facoltà di Design e Arti Il Papavero – Der Mohn
Libera Università di Bolzano A sostegno delle Cure Palliative
www.unibz.it/design-art www.ilpapaverodermohn.it
design-art@unibz.it ilpapaverodermohn@brennercom.net
Introduzione alla mostra
Nella nostra cultura abbiamo perso completamente il rapporto con la morte, ma quotidianamente
siamo esposti a centinaia di morti televisive e cinematografiche. Eppure non siamo disposti ad
avere alcun rapporto con gli ultimi istanti della vita dei nostri simili, morire non è più socialmente
accettabile.
Il fotografo Walter Schels e la giornalista Beate Lakotta hanno passato lunghi periodi di tempo
negli hospice tedeschi intervistando e fotografando persone che stavano combattendo l’ultima
battaglia della loro vita. Il risultato è stata la pubblicazione del libro Noch mal leben vor dem Tod.
Wenn Menschen sterben (Vivere ancora prima di morire. Quando le persone muoiono), da cui è
poi nata l’idea di una mostra fotografica che ha toccato numerose città tedesche e le principali
capitali mondiali. I due autori hanno realizzato un viaggio nel territorio oscuro dei confini della
vita, viaggio disperato ma rispettoso e partecipe, il cui risultato è una mostra di una semplicità e
sincerità poetica e toccante. Hanno vissuto per oltre un anno negli hospice del Nord della
Germania ed hanno ritratto 24 persone, di età compresa tra i 17 mesi e gli 83 anni, pochi giorni
prima e immediatamente dopo la loro morte, accompagnando ogni coppia di fotografie bianconero
di grande formato con una biografia della persona, il breve racconto di una vita, corredata
da illuminanti e significative righe su come hanno vissuto gli ultimi giorni e sul modo in cui si
sono avvicinati al passo verso l’ignoto. La serie di ritratti, una sorta di “memento mori”
fotografico, sono nello stesso tempo cupi e luminosi, sconvolgenti e stupefacenti ed hanno una
forte intensità spirituale che accomuna tutti nella commozione.
I ritratti catturano l’espressione umana di chi si avvicina alla propria fine, ma pur mostrando
l’inevitabilità della morte, celebrano la vita. Il confronto con queste immagini consente infatti di
riportare l’attenzione sulla vita, di afferrarla e viverla ricordando che la morte è semplicemente
una parte di essa.
Heiner Schmitz è uno dei personaggi ritratti. All’età di 52 anni capì che a causa di un tumore
cerebrale non aveva di fronte a sè una vita lunga. I suoi amici, seppur consapevoli di questo,
avevano continuato fino alla fine a fare festa attorno al suo letto. Ma questo era esattamente il
contrario di ciò che Heiner si aspettava e lo disturbava molto che tutti gli amici negassero il fatto
che lui stava morendo. “Nessuno mi chiede come mi sento” diceva e “sono sorpreso di come tutti
evitano l’argomento”.
Prima della morte l’espressione delle persone è seria, gli occhi fissano l’osservatore dando la
sensazione che ci hanno già comunicato molto della loro storia. Dopo il decesso, gli occhi sono
chiusi e i visi, illuminati come in un quadro di Rembrandt, seppur esausti, trasmettono pace.
Ognuno di loro di fronte alla morte ha reagito in modo diverso, chi con rabbia, chi con
rassegnazione, ma come dice un’altra malata ritratta, Edelgard Clavey, “la morte è una prova di
maturità alla fine della vita; ciascuno di noi prima o poi dovrà affrontarla”. Normalmente abbiamo
paura di parlare della morte, ma le persone malate che vi si avvicinano hanno voglia di
raccontare le loro sensazioni ed è dovere di chi gli sta intorno imparare ad ascoltarle. Osservare i
loro volti, leggere le loro parole ci dovrebbe rendere consapevoli che ognuno vuole essere amato
fino alla fine della sua vita.
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I due autori non solo hanno cercato di infrangere il tabù della morte, ma hanno mostrato il volto
di una medicina consapevole dei propri limiti e quindi rispettosa della vita delle persone che ad
essa si affidano. Una medicina che accanto all’efficienza non trascura la saggezza e per questo
non utilizza ciecamente tutto quello che oggi ha a disposizione, soprattutto se questo non realizza
una vita qualitativamente accettabile. È indispensabile che la società impari a convivere con l’idea
che, nonostante gli enormi progressi della medicina, per i malati inguaribili è fondamentale non
sentirsi soli ed abbandonati, ma essere adeguatamente assistiti fino alla fine.
Ingrid Dapunt
Presidentessa dell’Associazione Il Papavero – Der Mohn
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Noch mal leben- Vivere ancora
La narrazione mitologica con la quale gli antichi hanno cristallizzato, rendendoli eterni e
consegnandoli fino a noi, dopo millenni, i grandi problemi della vita, narra come i doni più grandi
fatti dal titano Prometeo all’umanità non siano stati il fuoco e le tecnologie, ma l’averle insegnato
a distogliere lo sguardo dal proprio destino, dimenticando la morte. Questo dono che è inganno
(doron/dolon), questo farmaco che cura ed avvelena, che redime e condanna i mortali che lo
ricevono, sono le “cieche speranze”, le aspettative di futuro. Questo parziale e necessario
accecamento rende possibile la vita, quasi come l’unica salvezza sia l’ignorare proprio ciò che ne
costituisce la condizione più vincolante, cioè il suo naturale concludersi.
Il “far finta di niente” però ha portato la nostra civiltà a rendere sempre meno sentiti anche tutti
quei rituali sociali che in qualche modo, sulla soglia del trapasso, assumendone consapevolezza
con serenità e prendendosene cura, riconciliavano i mortali con il loro destino. Così i nostri
tempi, tesi a procrastinare l’invecchiamento ed a rinnegare spesso l’ineluttabile della malattia,
dilatando innaturalmente e spesso con accanimento quell’area che costituisce il confine tra la vita
e la non vita, hanno spesso confinato la morte in una sorta di “non luogo”. Non si tratta di
sminuire i prodigiosi progressi delle scienze mediche e biologiche, o di aprire qui il doloroso
dibattito etico se certe cure siano il prolungamento della vita o della morte, ma di stigmatizzare
quell’inutile tentativo di esorcizzare la naturalità di un evento inesorabile. Oblio dunque, contro
coscienza e memoria, che al di là di qualsiasi credo religioso, di qualsiasi formazione culturale e
filosofica, o semplicemente di qualsiasi esperienza di vita e convinzione personale, sminuiscono il
superamento della morte come posta suprema della vita di ciascuno, e raramente ne fanno
insegnamento per chi resta. Un tempo ci si esercitava alla morte, che veniva vissuta all’interno
della realtà e del quotidiano, ora siamo abituati a vederne le immagini ed ascoltarne le narrazioni
con impressionante distacco, e nello stesso tempo a vivere scenari culturali dove sembra sempre
più difficile accettare ciò che per molti miliardi di esseri umani prima di noi, nel tempo, ed a noi
contemporanei, in altri luoghi, è l’essenza di tutto, e cioè che la morte rientra tra le qualità della
vita.
Questa rimozione non ci verrà permessa, però, guardando questi visi intensamente ritratti,
leggendo le note che in poche righe condensano ogni vita, in tutta la sua unicità e semplicità.
Vite insostituibili, destini che qui conosciamo e che ci vengono consegnati in una sorta di
extraterritorialità data da una mostra coraggiosa ma nello stesso tempo piena di pudore, rispetto
e discrezione. Sono visi che narrano di vita e di morte, di speranza e di sofferenza, per spingerci
sulla difficile strada che conduce al riappropriarsi del senso profondo di esse. C’è un attimo di
eterno in ciascuno di quei volti dagli occhi chiusi, che li trasfigura nel segno di un’esperienza
finalmente raggiunta. Siamo vivi solo perché siamo mortali, e contemplare la fine della vita
accettandola non può che dare maggior senso e maggior valore all’esistenza… per questo e così è
“noch mal leben”, così come Elisabeth Kubler Ross dice “un po’ tutti dovremmo prendere
l’abitudine di pensare ogni tanto alla morte per non avere paura della vita”, e Guido Petter
aggiunge “l’abitudine a pensare molto spesso alla vita, per non avere paura della morte”.
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Una mostra che ci fa crescere
Tre miti per capire
Alla notizia di questa mostra, in cui vengono esposti i ritratti che il fotografo tedesco Walter
Schels ha scattato a pazienti terminali di età, sesso ed estrazione sociale differenti
immediatamente prima e subito dopo la morte, molte persone avranno reagito di primo acchito
con un rifiuto istintivo: “Perché dovrei visitarla?” “A che scopo sottopormi a questa tortura?” “Che
cosa me ne viene?”.
La reazione è assolutamente comprensibile, ma proprio per questo degna di essere interrogata e
approfondita. Credo che si possano indicare almeno tre ragioni principali di questo rifiuto. Da una
parte esso è espressione della nostra paura di fronte a tutto ciò che ha direttamente o
indirettamente a che fare con la morte. Esso può derivare però anche dai dubbi sulla liceità
morale di tali fotografie, che potrebbero sembrare il frutto di mancanza di pietà e di puro
voyeurismo. Non si capisce, infine, a che cosa potrebbe servire un simile confronto con la morte.
Poiché il mito mette a disposizione le strutture e le strategie per rispondere alle domande
fondamentali dell’esistenza umana, cercherò in tre miti greci alcune risposte possibili a questi
dubbi o paure. Si tratta naturalmente di una rilettura e di una reinterpretazione in chiave
moderna degli stessi, ma d’altra parte il significato dei miti non è dato una volta per tutte, ma
consiste piuttosto nella loro continua interpretabilità e nella somma delle loro interpretazioni
possibili.
La paura della morte e “il fratello del sonno”
La morte fa paura, si sa, ma non è sempre stato così: l’immagine spaventosa della morte che
tutti noi conosciamo, rappresentata come un teschio o come uno scheletro con la falce, è un
retaggio del Medioevo ed era ad esempio sconosciuta agli antichi, che raffiguravano la morte
invece sotto le sembianze di un fanciullo o di un giovane che reggeva in mano una fiaccola
capovolta e spenta. Il significato della fiaccola spenta è evidente, perché il fuoco simboleggia la
vita, che ora si è esaurita e ha smesso di ardere. Ma è bella anche l’immagine della morte come
un giovane nel fiore degli anni, perché fa capire che la morte fa parte della vita fin dal momento
della nascita, suggerendo inoltre che anche nell’anziano muoiono tutte le tappe della sua vita che
sono ancora dentro di lui, l’infanzia, la giovinezza, la maturità.
In alcune raffigurazioni che si rifanno alla mitologia greca, thanatos (la morte) viene
rappresentato vicino a suo fratello gemello hypnos (il sonno), caratterizzato da una capsula di
papavero che tiene in mano, mentre entrambi giacciono addormentati tra le ginocchia della
madre, la notte, che li avvolge e li protegge con il suo mantello. La morte perde in queste
raffigurazioni qualsiasi aspetto spaventoso, perché appare come il corrispondente di
un’esperienza quotidiana, espressione di quel sonno più grande che è il regno della notte, il
quale, come viene detto negli Inni alla notte di Novalis, rappresenta la vera e più profonda
essenza dell’essere, che avvolge e contiene dentro di sé il brevissimo spazio della luce e del
giorno.
Visti in questa prospettiva, anche i volti ritratti da Schels ed esposti in questa mostra perdono
qualsiasi sembianza macabra o spaventosa che solo i nostri pregiudizi tendevano ad attribuire
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loro. Proprio nei ritratti delle persone morte possiamo vedere allora i visi di persone che si sono
da poco abbandonate a un sonno ristoratore, che hanno lasciato dietro di sé le incertezze, i
conflitti e le tensioni che ancora si leggono sui loro volti da vivi, nei loro grandi occhi che ci
guardano per l’ultima volta, ancora pieni di speranze e di paure. In questi ritratti non
contempliamo più la morte, ma solo il “fratello del sonno”, di quel sonno che il simbolo del
papavero ci permette forse addirittura di identificare con le cure palliative.
Il nuovo compito di una moderna Antigone
A chi nutra dubbi riguardo alla “moralità” di simili foto, riconoscendo in esse il prodotto di un
atteggiamento voyeuristico, si può rispondere rimandando a quello spazio invisibile che sta tra i
due ritratti di ogni persona raffigurata, vale a dire a quanto sta dietro queste fotografie, così
come viene raccontato da Beate Lakotta nel libro da cui è derivata la mostra. Questi ritratti sono
infatti solo il risultato ultimo di ripetuti incontri tra gli autori del libro e i malati terminali ricoverati
in un hospice a Berlino e Amburgo. In questi incontri e colloqui, condotti con grande rispetto ed
empatia, i malati hanno raccontato la loro vita, i loro sogni, le loro delusioni, dando espressione
alle loro speranze e alle loro paure. In questo modo essi però, come recita il titolo del libro, sono
tornati a “vivere ancora una volta, prima di morire”. L’esperienza dell’hospice è diventata cioè,
paradossalmente, una fondamentale esperienza di vita, e proprio di questo gli autori del libro
hanno voluto rendere testimonianza attraverso le fotografie e i testi che li accompagnano.
Si potrebbe forse intravvedere in questa operazione una variante dell’azione compiuta da
Antigone nella tragedia omonima di Sofocle. Antigone si ribella infatti al divieto imposto dal re
Creonte di dare sepoltura al fratello di lei Polinice e infrange la legge dello Stato, anteponendovi
una legge interiore. L’atto della sepoltura era infatti fondamentale per i greci, perché restituiva
all’individuo la sua “dignità”, vale a dire quella dimensione “pubblica” che egli aveva rivestito in
vita e che aveva perduto nel momento della morte, che appartiene invece alla sfera individuale e
familiare.
Qualcosa di simile vale però anche per il funerale e per tutte le onoranze funebri nella nostra
società, che rappresentano il tentativo di conferire al defunto, anche dopo la morte che lo ha per
così dire espulso dal tessuto sociale, un riconoscimento di quello che egli è stato all’interno della
società, del suo ruolo, della sua importanza. Oggi il compito di Antigone non consisterebbe
dunque più nel reclamare questa dimensione sociale o pubblica per il morto, che in un certo
senso è garantita, bensì al contrario nell’esigere una dignità per il momento privato e familiare
che precede la morte. È infatti in questo momento e non tanto dopo la morte, che l’individuo
viene oggi abbandonato dalla nostra società e spesso anche escluso dalla sfera familiare e degli
affetti. Ma proprio in questo momento di mezzo o di passaggio, quando l’individuo non è più utile
alla società né come produttore né come consumatore, egli ha bisogno di “vivere ancora, prima
di morire”, di ricapitolare e dare un senso alla sua vita, di sentire vicino a sé le persone più care,
di dare espressione ai suoi sentimenti, alle paure come alle speranze, di chiarire magari le
incomprensioni non ancora risolte, di prendere commiato dalla vita e dagli affetti.
Restituire dignità a questo momento di passaggio significa naturalmente anche liberarlo dal
dolore, che renderebbe tutto ciò impossibile. E proprio in questo consiste il compito della
medicina palliativa, che potrebbe essere paragonato in un certo senso al nuovo compito di una
moderna Antigone.
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Un compito simile viene svolto però, almeno in parte, anche dalle foto e dai testi di Walter Schels
e Beate Lakotta, che conferiscono dignità a questo momento di passaggio, alla vita prima della
morte, rendendola in un certo senso “pubblica”, aperta e accessibile cioè al pubblico.
L’errore di Prometeo e la coscienza del limite
Ci si può chiedere, naturalmente, quale fine possa avere, a cosa possa servire una simile
operazione. Si tratta, evidentemente, di un memento mori, che assume però, come mostrano i
testi di Beate Lakotta, il significato di un prepotente invito alla vita. Guardare in faccia la morte, la
propria e quella degli altri, aiuta molti dei pazienti terminali raffigurati a vivere con estrema
intensità e consapevolezza gli ultimi attimi, giorni, settimane e qualche volta anche mesi della
loro vita. Ma anche gli autori del volume hanno fatto su di sé la stessa esperienza, che dovrebbe
trasmettersi in maniera simile a chi contempla le loro foto o legge i loro testi.
La mostra può servire, in altre parole, a renderci coscienti della nostra natura mortale e della
nostra finitezza, guarendoci dalla nostra tendenza a sentirci al centro del mondo, da
quell’illusione di onnipotenza e volontà di far prevalere la nostra individualità che i greci
chiamavano hybris e che rappresenta il “peccato originale” di molti uomini ed eroi della mitologia
greca condannati nel Tartaro.
Proprio questo peccato sconta anche il titano Prometeo, incatenato a una roccia nel Caucaso,
mentre un’aquila gli divora il fegato che continuamente ricresce, per essersi ribellato a Giove e
aver salvato gli uomini, insegnando loro le arti (la techne) e donando loro il fuoco ma soprattutto
“le cieche speranze” che hanno permesso ai mortali di non vedere che erano destinati alla morte.
Contro questa pena, che potrebbe esser presa anche a simbolo di una delle molte malattie
inguaribili, nulla possono né la techne né l’arte dell’oblio che Prometeo aveva insegnato agli
uomini. Solo la sapienza più alta, il riconoscimento e l’accettazione del divenire dell’essere, al
quale appartiene necessariamente anche il dolore e la morte, potranno alla fine salvarlo. Perché il
rimedio contro il dolore può cercarlo e ottenerlo solo chi non si lascia travolgere da hybris.
E proprio in questo consiste anche la sola possibile salvezza dell’uomo: non nel combattere la
morte e nemmeno nel dimenticarla e rimuoverla, ma nel riconoscerne l’ineluttabilità. Nonostante
gli immensi progressi compiuti dalla scienza e dalla tecnica, egli deve ammetterne i limiti,
accettando anche la propria individuale limitatezza. Questa consapevolezza non deve però
gettarlo nella disperazione, bensì al contrario liberarlo dall’angoscia e fargli amare più
intensamente la vita.
Al raggiungimento di questa coscienza, che potremmo anche chiamare “sapienza” (episteme) nel
senso più alto che esso aveva presso i greci, vuole contribuire anche questa mostra, che
rappresenta quindi un mezzo per farci crescere.
Prof. Alessandro Costazza
Professore di Letteratura Tedesca all’Università degli Studi di Milano
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Le cure palliative
A tutti è capitato di confrontarsi almeno una volta nella vita con un amico o un parente
gravemente malato. Spesso il malato giace in un letto d’ospedale ed attorno a lui tutti si danno
da fare velocemente e con efficienza per lottare contro la malattia. Ma chi si avvicina alla fase
ultima della vita, chi si confronta con una guarigione non più possibile, chi percepisce che il
tempo rimasto è limitato e quindi estremamente prezioso, che risposte ottiene? Questo è il
momento in cui l’attenzione deve tornare dalla malattia alla persona, che ha il diritto di essere
accompagnata con umanità e nel rispetto della sua dignità e libertà.
Da tempo in Europa si sono diffuse le cure palliative, che nascono dalla necessità di stare accanto
ai malati inguaribili ed alle loro famiglie in un momento in cui il dolore, nelle sue diverse
componenti fisica, psicologica, sociale e spirituale, richiede risposte rapide ed adeguate.
L’obiettivo è quello di restituire ai malati ed ai loro familiari la possibilità di vivere nel miglior
modo possibile, avendo prima di tutto la certezza di non essere lasciati soli in un momento così
difficile. In futuro il numero di pazienti bisognosi di cure palliative crescerà in modo significativo,
poiché le persone affette da patologie spesso inguaribili come tumori, malattie neurologiche e
cardio-respiratorie risultano in costante aumento, grazie anche ai notevoli progressi compiuti
dalla medicina che consentono di prolungare i tempi di sopravvivenza. La difficoltà con cui ancora
oggi si parla di cure palliative e la loro scarsa conoscenza da parte non solo degli utenti, ma
spesso anche di molti sanitari, sono la conseguenza di una cultura che tende a rimuovere il più
possibile dagli occhi e dalle parole tutto ciò che riguarda la fine della vita ed il processo del
morire.
Cicely Saunders, fondatrice delle cure palliative moderne ed in particolare del movimento hospice,
ci ha insegnato a non fuggire davanti alla sofferenza di una persona malata, ma a prenderci cura
di lei con competenza ed affetto. Questa prospettiva di solidarietà della medicina e quindi della
società nella cura della persona inguaribile è l’unica strada che permette a tutti coloro che
giungono alla fase finale della vita di continuare ad essere se stessi fino all’ultimo istante, poiché
la profondità del tempo è più importante della sua durata.
Le immagini proposte nell’ambito della mostra sono un'occasione per riflettere sulla realtà della
malattia terminale, periodo che non va considerato come un' infruttuosa attesa della morte, ma
che va riempito di senso, fino all'ultimo giorno.
Dr. Massimo Bernardo
Responsabile del Reparto Cure Palliative all’Ospedale Regionale di Bolzano
Facoltà di Design e Arti Il Papavero – Der Mohn
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L’Associazione Il Papavero – Der Mohn
Nel 2008, un gruppo di familiari che aveva avuto modo di fare esperienza diretta delle enormi
potenzialità dell’approccio palliativo nel restituire qualità e dignità alla vita, ha voluto dare vita
all’Associazione Il Papavero – Der Mohn.
Si tratta di un’associazione a carattere volontario e senza fini di lucro (ONLUS) che ha per finalità
la diffusione della cultura delle cure palliative. Tra gli scopi vi sono quello di promuovere e
diffondere la conoscenza, la cultura e la ricerca in cure palliative, di proporre le strutture
necessarie e sostenere quelle già operanti, di promuovere incontri e corsi per la formazione di
volontari e di tutti gli interessati, di favorire lo sviluppo di ogni attività ritenuta idonea per
migliorare le condizioni psico-sociali del malato, di istituire borse di studio per la ricerca
nell'ambito delle cure palliative e di promuovere attività di raccolta fondi destinati all'associazione.
Nei suoi primi due anni di vita l’Associazione, che conta più di 400 soci, è entrata a far parte della
Federazione Nazionale Cure Palliative, che raccoglie oltre 60 associazioni che operano nel settore.
Ha collaborato alla raccolta di firme che hanno portato a risultati fondamentali per l’assistenza ai
malati, quali la semplificazione da parte del Ministero della Salute della modalità di prescrizione
dei farmaci utilizzati nella terapia del dolore. Sono stati erogati fondi e concesse borse di studio
per la formazione del personale sanitario che a livello locale opera nell’ambito delle cure palliative
ed ha acquistato e donato apparecchiature destinate a dare sollievo alle persone degenti presso il
Reparto di Cure Palliative dell’Ospedale di Bolzano.
Tra i bisogni del paziente in fase avanzata di malattia vi è quello di restare il più possibile al
domicilio ed è quindi necessario avvicinare i servizi di cura e di assistenza al contesto in cui il
paziente e la sua famiglia vivono. Questo è possibile solo integrando le risorse sociosanitarie del
territorio con quelle ospedaliere, con l’attività del volontariato, l’impegno delle associazioni che si
interessano di cure palliative e il sostegno da parte delle istituzioni e dei cittadini. In questa ottica
prosegue l’attività di informazione della popolazione sulle finalità delle cure palliative e la raccolta
di fondi per sostenere la costruzione di un Hospice per la città di Bolzano.
Oggi la sofferenza e la morte sono divenute sconvenienti, fuori luogo, fonte di repulsione,
respinte ai margini della società. L’associazione Il Papavero – Der Mohn ha voluto pertanto
riportare le testimonianze che la mostra Noch mal leben – Vivere ancora propone.
Queste ci consentono di riflettere sul mistero rappresentato da una vita unica ed irripetibile che
finisce, ma nella quale una relazione è sempre possibile, anche quando fragilità e debolezza
hanno il sopravvento. Solo così la vicinanza al morente consente, a chi sopravvive al distacco, di
recuperare il senso di una vita che si conclude e di attribuire un significato al ricordo di chi non
c’è più, ma che rimarrà per sempre.
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Non sempre ciò che è possibile è giusto
Il lavoro di Walter Schels e di Beate Lakotta presenta un argomento che di solito non trova posto
nella coscienza pubblica: in una società orientata alla produttività e al guadagno, il tema della
morte è un tabù difficilmente commercializzabile. Al giorno d’oggi la dimensione umana del
finevita viene rappresentata raramente in maniera così differenziata come nel caso del reportage
di Water Schels e Beate Lakotta. Il loro modo esemplare di trasmettere visivamente questo tema
difficile e delicato è stato motivo sufficiente per indurci a presentare la mostra a studenti, docenti
e amici della Facoltà di Design e Arti.
In questa mostra, oltre ai racconti delle singole persone raffigurate, si tocca anche il tema delle
cure palliative: le fotografie presentate sono state scattate infatti negli hospice in cui i
protagonisti hanno potuto trascorrere con dignità gli ultimi giorni della loro vita. Prima
dell’avvento delle cure palliative la morte veniva vista come una sconfitta della medicina, dal
momento che la ricerca medica più avanzata non poteva offrire ai pazienti di vivere più a lungo.
Le cure palliative mettono invece in secondo piano il prolungamento della vita ad ogni costo, a
favore di una vita vissuta in modo dignitoso fino all’ultimo. Ed è proprio qui che risulta
chiaramente ciò che vale anche per noi designer: non possiamo non chiederci cosa sia
tecnicamente possibile. Dobbiamo conoscere lo stato dell’arte della ricerca e sfruttarlo al meglio.
Alla fine però dobbiamo chiederci cosa sia giusto per l’uomo. Gli hospice sono un buon esempio
di una “progettazione” più umana delle nostre condizioni di vita.
L’Associazione Il Papavero – Der Mohn ha fatto propria questa idea e si dedica con tutte le sue
forze a diffondere in Alto Adige la conoscenza e la cultura delle cure palliative. Noi ci auguriamo
che questa mostra possa servire a questo fine e riesca a destare interesse per un tema che ci
riguarda tutti.
Kuno Prey
Preside della Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano
Facoltà di Design e Arti Il Papavero – Der Mohn
Libera Università di Bolzano A sostegno delle Cure Palliative
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Didascalie delle immagini
Photo credits: Walter Schels
Klara Behrens
83 anni
Nata il 2 dicembre 1920
Primo ritratto, 6 febbraio 2004
Morta il 3 marzo 2004
Hospice Sinus, Amburgo
Klara Behrens intuisce che presto potrebbe giungere la fine. “Talvolta, è vero, spero di tornare a
stare meglio”, confessa. “Ma quando poi sto di nuovo tanto male, non ho nemmeno più voglia di
vivere. Pensare che mi ero appena comprata un nuovo frigo-congelatore! Se solo l’avessi saputo
prima…”
È l’ultimo giorno di febbraio, il sole splende, in cortile sono sbocciate le prime campanule. “La
cosa che mi piacerebbe fare di più è andare all’Elba, sedermi sui sassi e tenere i piedi nell’acqua.
Da bambini lo facevamo quando si andava al fiume a raccogliere legna per la stufa. In una
seconda vita farei tutto in modo diverso. Non voglio più trascinare legna. Ma c’è una seconda
vita? Non credo. Si crede solo a ciò che si vede. E si vede solo quello che esiste. Non temo la
morte. Diventerò il milionesimo, il miliardesimo granellino di sabbia del deserto. Quel che mi
spaventa è morire. Non sai mai come e cosa succede”.
Michael Föge
50 anni
Nato il 15 giugno 1952
Primo ritratto, 8 gennaio 2003
Morto il 12 febbraio 2003
Ricam Hospice, Berlino
Michael Föge, alto, sportivo, brillante conversatore, viene nominato primo pianificatore della
viabilità ciclistica di Berlino. É felice. Festeggia il suo cinquantesimo compleanno con numerosi
ospiti. Qualche tempo dopo, nel parlare non gli giungono più alla mente le parole. I medici
riscontrano un tumore al cervello. Tumore che nel giro di pochi mesi gli distrugge il centro della
parola, gli paralizza il braccio destro e la metà destra del viso. Giorno dopo giorno nell’hospice il
signor Föge si fa sempre più assonnato. Un giorno non si sveglierà più.
Finché ne ha avuto la possibilità, Michael Föge non ha mai parlato della sua vita interiore. Ora
non è più in grado di farlo. “Cosa avviene nella sua testa?”, si domanda la moglie.
La musicoterapista ha avuto l’idea del braccio di ferro. Ha preso la mano sana di Föge, misurando
la propria forza con la sua, un dialogo senza parole. “Ho sentito la sua vitalità. Ci siamo divertiti”.
Facoltà di Design e Arti Il Papavero – Der Mohn
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Roswitha Pacholleck
47 anni
Nata il 13 maggio 1955
Primo ritratto, 31 dicembre 2002
Morta il 5 marzo 2003
Ricam Hospice, Berlino
“È così assurdo”, commenta Roswitha Pacholleck: “Adesso che ho un cancro, per la prima volta
desidero vivere”. Si trova all’hospice da un paio di settimane. “Ci sono delle belle persone qui.
Assaporo ogni giorno che mi rimane ancora. Prima non era bella la mia vita”. Trascurata da
bambina, cresciuta in un istituto, irrealizzata nella vita lavorativa, umiliata come moglie e delusa
come madre: “Non ho costruito nulla, non ho nulla da esibire”.
Ma non muove più un rimprovero a nessuno. Nemmeno a se stessa. Si è riconciliata con tutti. È
contenta delle attenzioni e della simpatia che riceve all’hospice. Preoccupata, si tasta i nodi che
ha nella pancia. Ogni giorno ingrandiscono. Roswitha Pacholleck non si arrende: “So che morirò,
ma chissà, forse avverrà invece un miracolo”. Giura che in caso di guarigione lavorerà all’hospice.
Roswitha Pacholleck ci spera fino alla fine.
Heiner Schmitz
52 anni
Nato il 26 novembre 1951
Primo ritratto, 19 novembre 2003
Morto il 14 dicembre 2003
Leuchtfeuer Hospice, Amburgo
Heiner Schmitz vede una macchia nella risonanza magnetica del suo encefalo. Comprende subito
di non avere più tanto tempo. Schmitz è un pensatore arguto ed eloquente, mai superficiale.
Lavora nel ramo pubblicitario. Lì sono tutti bravi in questo, normalmente. Gli amici di Heiner non
vogliono che sia triste. Cercano di distrarlo. All’hospice guardano insieme le partite di calcio,
come d’abitudine. Birra, sigarette, una festa in camera. Le ragazze delle agenzie portano fiori.
Molti vengono in due perché non vogliono stare da soli con lui. Di cosa si parla con chi è in attesa
della morte? Al momento dei saluti, alcuni augurano buona guarigione. Rimettiti presto, vecchio
mio!
“Nessuno mi domanda come sto”, protesta Heiner Schmitz. “Perché hanno tutti strizza. Questo
sforzo spasmodico di parlare di tutto e di più, fa male. Ehi! Non capite? Sto per morire! Questo è
il mio unico argomento in ogni minuto in cui sono da solo”.
Behrens, una dei 24 protagonisti della mostra Noch mal leben è racchiuso il senso dell’indagine
compiuta dal fotografo Walter Schels e dalla giornalista Beate Lakotta. I due hanno fatto un
lunga approfondita ricerca negli hospice in Germania intervistando e fotografando persone che
stavano percorrendo l’ultimo tragitto della loro vita. Il risultato è stato raccolto nel libro di
fotografia Noch mal leben vor dem Tod – wenn Menschen sterben / Vivere ancora prima di
morire – quando le persone muoiono da cui è poi nata l’idea di una mostra fotografica itinerante
che ha toccato città importanti quali Londra, Berlino, Lisbona, Vienna, Tokio, Tel Aviv e molte
altre, soprattutto in Germania e Austria.
Dal 27 febbraio al 1 aprile 2010 sarà possibile, grazie alla collaborazione tra l’Associazione
Il Papavero – Der Mohn e la Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano, visitare in
anteprima nazionale questa particolare mostra negli spazi della Libera Università di Bolzano.
Il Papavero – Der Mohn è un’associazione fondata a Bolzano nel 2008, a carattere volontario e
senza fini di lucro, che ha per finalità la diffusione della cultura delle cure palliative e dell’hospice.
Gli autori della mostra Walter Schels e Beate Lakotta hanno realizzato un viaggio nel territorio
oscuro dei confini della vita, viaggio disperato ma rispettoso e partecipe, il cui risultato è una
mostra di una semplicità e sincerità poetica e toccante. Hanno vissuto per oltre un anno negli
hospice del Nord della Germania ed hanno ritratto 24 persone, di età compresa tra i 17 mesi e gli
83 anni, pochi giorni prima e immediatamente dopo la loro morte. Ogni coppia di ritratti in
bianco-nero di grande formato viene accompagnata dai dati biografici delle persone e corredata
da illuminanti e significative righe su come hanno vissuto gli ultimi giorni e sul modo in cui si
sono avvicinati al passo verso l’ignoto.
Oggi, principalmente nel mondo occidentale, la sofferenza e la morte sono divenute
sconvenienti, fuori luogo, fonte di angoscia.
L’associazione Il Papavero – Der Mohn con il sostegno della Facoltà di Design e Arti ha voluto
pertanto riportare le testimonianze, che la mostra Noch mal leben propone, con l’intento di
rompere il tabù che spesso isola e allontana chi vive il momento più difficile dell’intera esistenza.
La mostra ci aiuta a riflettere sul mistero rappresentato da una vita unica ed irripetibile che
finisce, ma nella quale una relazione è ancora possibile, anche quando fragilità e debolezza
hanno il sopravvento. Solo così la vicinanza al morente consente, a chi sopravvive al distacco, di
recuperare il senso di una vita che si conclude e di attribuire un significato al ricordo di chi non
c’è più, ma che rimarrà per sempre.
Accompagna la mostra un ricco programma di manifestazioni collaterali.
Programma delle manifestazioni collaterali
27.02.2010, ore 18:00*
Libera Università di Bolzano
Piazza Università 1, Bolzano
Aula D102
La morte ci pro-voca a vivere la vita
Tavola rotonda sul tema della mostra
Con: Walter Schels, Beate Lakotta, Prof. Paolo Renner, Prof. Gian Domenico Borasio
Moderatore: Rudy Gamper
05.03.2010, ore 20:00
Conservatorio Monteverdi Bolzano
Piazza Domenicani 19, Bolzano
Concerto di pianoforte con
Roberto Cominati, Premio Busoni
Introduzione: Prof. Hubert Stuppner
16.03.2010, ore 20:00*
Libera Università di Bolzano
Piazza Università 1, Bolzano
Aula D102
La morte è la fine?
Pensieri spirituali sulla morte e sul morire.
Con: Prof. Gabriel Looser e Caritas Servizio Hospice Bolzano
19.03.2010, ore 9.00 – 16.00
Sala di Rappresentanza della Città di Bolzano
Vicolo Gumer 7, Bolzano
Convegno Regionale della Società Italiana Cure Palliative
Organizzazione scientifica: Dr. Massimo Bernardo
26.3.2010, ore 20.00*
Libera Università di Bolzano
Piazza Università 1, Bolzano
Aula D102
Il volto che verrà
Dialoghi interdisciplinari intorno alla morte
Con:Prof. Paolo Renner, Prof. Pier Giorgio Rauzi e Prof. Silvano Zucal
Moderatore: Prof. Alessandro Costazza
* Durante queste manifestazioni sarà fornito un servizio di traduzione simultanea
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Introduzione alla mostra
Nella nostra cultura abbiamo perso completamente il rapporto con la morte, ma quotidianamente
siamo esposti a centinaia di morti televisive e cinematografiche. Eppure non siamo disposti ad
avere alcun rapporto con gli ultimi istanti della vita dei nostri simili, morire non è più socialmente
accettabile.
Il fotografo Walter Schels e la giornalista Beate Lakotta hanno passato lunghi periodi di tempo
negli hospice tedeschi intervistando e fotografando persone che stavano combattendo l’ultima
battaglia della loro vita. Il risultato è stata la pubblicazione del libro Noch mal leben vor dem Tod.
Wenn Menschen sterben (Vivere ancora prima di morire. Quando le persone muoiono), da cui è
poi nata l’idea di una mostra fotografica che ha toccato numerose città tedesche e le principali
capitali mondiali. I due autori hanno realizzato un viaggio nel territorio oscuro dei confini della
vita, viaggio disperato ma rispettoso e partecipe, il cui risultato è una mostra di una semplicità e
sincerità poetica e toccante. Hanno vissuto per oltre un anno negli hospice del Nord della
Germania ed hanno ritratto 24 persone, di età compresa tra i 17 mesi e gli 83 anni, pochi giorni
prima e immediatamente dopo la loro morte, accompagnando ogni coppia di fotografie bianconero
di grande formato con una biografia della persona, il breve racconto di una vita, corredata
da illuminanti e significative righe su come hanno vissuto gli ultimi giorni e sul modo in cui si
sono avvicinati al passo verso l’ignoto. La serie di ritratti, una sorta di “memento mori”
fotografico, sono nello stesso tempo cupi e luminosi, sconvolgenti e stupefacenti ed hanno una
forte intensità spirituale che accomuna tutti nella commozione.
I ritratti catturano l’espressione umana di chi si avvicina alla propria fine, ma pur mostrando
l’inevitabilità della morte, celebrano la vita. Il confronto con queste immagini consente infatti di
riportare l’attenzione sulla vita, di afferrarla e viverla ricordando che la morte è semplicemente
una parte di essa.
Heiner Schmitz è uno dei personaggi ritratti. All’età di 52 anni capì che a causa di un tumore
cerebrale non aveva di fronte a sè una vita lunga. I suoi amici, seppur consapevoli di questo,
avevano continuato fino alla fine a fare festa attorno al suo letto. Ma questo era esattamente il
contrario di ciò che Heiner si aspettava e lo disturbava molto che tutti gli amici negassero il fatto
che lui stava morendo. “Nessuno mi chiede come mi sento” diceva e “sono sorpreso di come tutti
evitano l’argomento”.
Prima della morte l’espressione delle persone è seria, gli occhi fissano l’osservatore dando la
sensazione che ci hanno già comunicato molto della loro storia. Dopo il decesso, gli occhi sono
chiusi e i visi, illuminati come in un quadro di Rembrandt, seppur esausti, trasmettono pace.
Ognuno di loro di fronte alla morte ha reagito in modo diverso, chi con rabbia, chi con
rassegnazione, ma come dice un’altra malata ritratta, Edelgard Clavey, “la morte è una prova di
maturità alla fine della vita; ciascuno di noi prima o poi dovrà affrontarla”. Normalmente abbiamo
paura di parlare della morte, ma le persone malate che vi si avvicinano hanno voglia di
raccontare le loro sensazioni ed è dovere di chi gli sta intorno imparare ad ascoltarle. Osservare i
loro volti, leggere le loro parole ci dovrebbe rendere consapevoli che ognuno vuole essere amato
fino alla fine della sua vita.
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I due autori non solo hanno cercato di infrangere il tabù della morte, ma hanno mostrato il volto
di una medicina consapevole dei propri limiti e quindi rispettosa della vita delle persone che ad
essa si affidano. Una medicina che accanto all’efficienza non trascura la saggezza e per questo
non utilizza ciecamente tutto quello che oggi ha a disposizione, soprattutto se questo non realizza
una vita qualitativamente accettabile. È indispensabile che la società impari a convivere con l’idea
che, nonostante gli enormi progressi della medicina, per i malati inguaribili è fondamentale non
sentirsi soli ed abbandonati, ma essere adeguatamente assistiti fino alla fine.
Ingrid Dapunt
Presidentessa dell’Associazione Il Papavero – Der Mohn
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Noch mal leben- Vivere ancora
La narrazione mitologica con la quale gli antichi hanno cristallizzato, rendendoli eterni e
consegnandoli fino a noi, dopo millenni, i grandi problemi della vita, narra come i doni più grandi
fatti dal titano Prometeo all’umanità non siano stati il fuoco e le tecnologie, ma l’averle insegnato
a distogliere lo sguardo dal proprio destino, dimenticando la morte. Questo dono che è inganno
(doron/dolon), questo farmaco che cura ed avvelena, che redime e condanna i mortali che lo
ricevono, sono le “cieche speranze”, le aspettative di futuro. Questo parziale e necessario
accecamento rende possibile la vita, quasi come l’unica salvezza sia l’ignorare proprio ciò che ne
costituisce la condizione più vincolante, cioè il suo naturale concludersi.
Il “far finta di niente” però ha portato la nostra civiltà a rendere sempre meno sentiti anche tutti
quei rituali sociali che in qualche modo, sulla soglia del trapasso, assumendone consapevolezza
con serenità e prendendosene cura, riconciliavano i mortali con il loro destino. Così i nostri
tempi, tesi a procrastinare l’invecchiamento ed a rinnegare spesso l’ineluttabile della malattia,
dilatando innaturalmente e spesso con accanimento quell’area che costituisce il confine tra la vita
e la non vita, hanno spesso confinato la morte in una sorta di “non luogo”. Non si tratta di
sminuire i prodigiosi progressi delle scienze mediche e biologiche, o di aprire qui il doloroso
dibattito etico se certe cure siano il prolungamento della vita o della morte, ma di stigmatizzare
quell’inutile tentativo di esorcizzare la naturalità di un evento inesorabile. Oblio dunque, contro
coscienza e memoria, che al di là di qualsiasi credo religioso, di qualsiasi formazione culturale e
filosofica, o semplicemente di qualsiasi esperienza di vita e convinzione personale, sminuiscono il
superamento della morte come posta suprema della vita di ciascuno, e raramente ne fanno
insegnamento per chi resta. Un tempo ci si esercitava alla morte, che veniva vissuta all’interno
della realtà e del quotidiano, ora siamo abituati a vederne le immagini ed ascoltarne le narrazioni
con impressionante distacco, e nello stesso tempo a vivere scenari culturali dove sembra sempre
più difficile accettare ciò che per molti miliardi di esseri umani prima di noi, nel tempo, ed a noi
contemporanei, in altri luoghi, è l’essenza di tutto, e cioè che la morte rientra tra le qualità della
vita.
Questa rimozione non ci verrà permessa, però, guardando questi visi intensamente ritratti,
leggendo le note che in poche righe condensano ogni vita, in tutta la sua unicità e semplicità.
Vite insostituibili, destini che qui conosciamo e che ci vengono consegnati in una sorta di
extraterritorialità data da una mostra coraggiosa ma nello stesso tempo piena di pudore, rispetto
e discrezione. Sono visi che narrano di vita e di morte, di speranza e di sofferenza, per spingerci
sulla difficile strada che conduce al riappropriarsi del senso profondo di esse. C’è un attimo di
eterno in ciascuno di quei volti dagli occhi chiusi, che li trasfigura nel segno di un’esperienza
finalmente raggiunta. Siamo vivi solo perché siamo mortali, e contemplare la fine della vita
accettandola non può che dare maggior senso e maggior valore all’esistenza… per questo e così è
“noch mal leben”, così come Elisabeth Kubler Ross dice “un po’ tutti dovremmo prendere
l’abitudine di pensare ogni tanto alla morte per non avere paura della vita”, e Guido Petter
aggiunge “l’abitudine a pensare molto spesso alla vita, per non avere paura della morte”.
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Una mostra che ci fa crescere
Tre miti per capire
Alla notizia di questa mostra, in cui vengono esposti i ritratti che il fotografo tedesco Walter
Schels ha scattato a pazienti terminali di età, sesso ed estrazione sociale differenti
immediatamente prima e subito dopo la morte, molte persone avranno reagito di primo acchito
con un rifiuto istintivo: “Perché dovrei visitarla?” “A che scopo sottopormi a questa tortura?” “Che
cosa me ne viene?”.
La reazione è assolutamente comprensibile, ma proprio per questo degna di essere interrogata e
approfondita. Credo che si possano indicare almeno tre ragioni principali di questo rifiuto. Da una
parte esso è espressione della nostra paura di fronte a tutto ciò che ha direttamente o
indirettamente a che fare con la morte. Esso può derivare però anche dai dubbi sulla liceità
morale di tali fotografie, che potrebbero sembrare il frutto di mancanza di pietà e di puro
voyeurismo. Non si capisce, infine, a che cosa potrebbe servire un simile confronto con la morte.
Poiché il mito mette a disposizione le strutture e le strategie per rispondere alle domande
fondamentali dell’esistenza umana, cercherò in tre miti greci alcune risposte possibili a questi
dubbi o paure. Si tratta naturalmente di una rilettura e di una reinterpretazione in chiave
moderna degli stessi, ma d’altra parte il significato dei miti non è dato una volta per tutte, ma
consiste piuttosto nella loro continua interpretabilità e nella somma delle loro interpretazioni
possibili.
La paura della morte e “il fratello del sonno”
La morte fa paura, si sa, ma non è sempre stato così: l’immagine spaventosa della morte che
tutti noi conosciamo, rappresentata come un teschio o come uno scheletro con la falce, è un
retaggio del Medioevo ed era ad esempio sconosciuta agli antichi, che raffiguravano la morte
invece sotto le sembianze di un fanciullo o di un giovane che reggeva in mano una fiaccola
capovolta e spenta. Il significato della fiaccola spenta è evidente, perché il fuoco simboleggia la
vita, che ora si è esaurita e ha smesso di ardere. Ma è bella anche l’immagine della morte come
un giovane nel fiore degli anni, perché fa capire che la morte fa parte della vita fin dal momento
della nascita, suggerendo inoltre che anche nell’anziano muoiono tutte le tappe della sua vita che
sono ancora dentro di lui, l’infanzia, la giovinezza, la maturità.
In alcune raffigurazioni che si rifanno alla mitologia greca, thanatos (la morte) viene
rappresentato vicino a suo fratello gemello hypnos (il sonno), caratterizzato da una capsula di
papavero che tiene in mano, mentre entrambi giacciono addormentati tra le ginocchia della
madre, la notte, che li avvolge e li protegge con il suo mantello. La morte perde in queste
raffigurazioni qualsiasi aspetto spaventoso, perché appare come il corrispondente di
un’esperienza quotidiana, espressione di quel sonno più grande che è il regno della notte, il
quale, come viene detto negli Inni alla notte di Novalis, rappresenta la vera e più profonda
essenza dell’essere, che avvolge e contiene dentro di sé il brevissimo spazio della luce e del
giorno.
Visti in questa prospettiva, anche i volti ritratti da Schels ed esposti in questa mostra perdono
qualsiasi sembianza macabra o spaventosa che solo i nostri pregiudizi tendevano ad attribuire
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loro. Proprio nei ritratti delle persone morte possiamo vedere allora i visi di persone che si sono
da poco abbandonate a un sonno ristoratore, che hanno lasciato dietro di sé le incertezze, i
conflitti e le tensioni che ancora si leggono sui loro volti da vivi, nei loro grandi occhi che ci
guardano per l’ultima volta, ancora pieni di speranze e di paure. In questi ritratti non
contempliamo più la morte, ma solo il “fratello del sonno”, di quel sonno che il simbolo del
papavero ci permette forse addirittura di identificare con le cure palliative.
Il nuovo compito di una moderna Antigone
A chi nutra dubbi riguardo alla “moralità” di simili foto, riconoscendo in esse il prodotto di un
atteggiamento voyeuristico, si può rispondere rimandando a quello spazio invisibile che sta tra i
due ritratti di ogni persona raffigurata, vale a dire a quanto sta dietro queste fotografie, così
come viene raccontato da Beate Lakotta nel libro da cui è derivata la mostra. Questi ritratti sono
infatti solo il risultato ultimo di ripetuti incontri tra gli autori del libro e i malati terminali ricoverati
in un hospice a Berlino e Amburgo. In questi incontri e colloqui, condotti con grande rispetto ed
empatia, i malati hanno raccontato la loro vita, i loro sogni, le loro delusioni, dando espressione
alle loro speranze e alle loro paure. In questo modo essi però, come recita il titolo del libro, sono
tornati a “vivere ancora una volta, prima di morire”. L’esperienza dell’hospice è diventata cioè,
paradossalmente, una fondamentale esperienza di vita, e proprio di questo gli autori del libro
hanno voluto rendere testimonianza attraverso le fotografie e i testi che li accompagnano.
Si potrebbe forse intravvedere in questa operazione una variante dell’azione compiuta da
Antigone nella tragedia omonima di Sofocle. Antigone si ribella infatti al divieto imposto dal re
Creonte di dare sepoltura al fratello di lei Polinice e infrange la legge dello Stato, anteponendovi
una legge interiore. L’atto della sepoltura era infatti fondamentale per i greci, perché restituiva
all’individuo la sua “dignità”, vale a dire quella dimensione “pubblica” che egli aveva rivestito in
vita e che aveva perduto nel momento della morte, che appartiene invece alla sfera individuale e
familiare.
Qualcosa di simile vale però anche per il funerale e per tutte le onoranze funebri nella nostra
società, che rappresentano il tentativo di conferire al defunto, anche dopo la morte che lo ha per
così dire espulso dal tessuto sociale, un riconoscimento di quello che egli è stato all’interno della
società, del suo ruolo, della sua importanza. Oggi il compito di Antigone non consisterebbe
dunque più nel reclamare questa dimensione sociale o pubblica per il morto, che in un certo
senso è garantita, bensì al contrario nell’esigere una dignità per il momento privato e familiare
che precede la morte. È infatti in questo momento e non tanto dopo la morte, che l’individuo
viene oggi abbandonato dalla nostra società e spesso anche escluso dalla sfera familiare e degli
affetti. Ma proprio in questo momento di mezzo o di passaggio, quando l’individuo non è più utile
alla società né come produttore né come consumatore, egli ha bisogno di “vivere ancora, prima
di morire”, di ricapitolare e dare un senso alla sua vita, di sentire vicino a sé le persone più care,
di dare espressione ai suoi sentimenti, alle paure come alle speranze, di chiarire magari le
incomprensioni non ancora risolte, di prendere commiato dalla vita e dagli affetti.
Restituire dignità a questo momento di passaggio significa naturalmente anche liberarlo dal
dolore, che renderebbe tutto ciò impossibile. E proprio in questo consiste il compito della
medicina palliativa, che potrebbe essere paragonato in un certo senso al nuovo compito di una
moderna Antigone.
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Un compito simile viene svolto però, almeno in parte, anche dalle foto e dai testi di Walter Schels
e Beate Lakotta, che conferiscono dignità a questo momento di passaggio, alla vita prima della
morte, rendendola in un certo senso “pubblica”, aperta e accessibile cioè al pubblico.
L’errore di Prometeo e la coscienza del limite
Ci si può chiedere, naturalmente, quale fine possa avere, a cosa possa servire una simile
operazione. Si tratta, evidentemente, di un memento mori, che assume però, come mostrano i
testi di Beate Lakotta, il significato di un prepotente invito alla vita. Guardare in faccia la morte, la
propria e quella degli altri, aiuta molti dei pazienti terminali raffigurati a vivere con estrema
intensità e consapevolezza gli ultimi attimi, giorni, settimane e qualche volta anche mesi della
loro vita. Ma anche gli autori del volume hanno fatto su di sé la stessa esperienza, che dovrebbe
trasmettersi in maniera simile a chi contempla le loro foto o legge i loro testi.
La mostra può servire, in altre parole, a renderci coscienti della nostra natura mortale e della
nostra finitezza, guarendoci dalla nostra tendenza a sentirci al centro del mondo, da
quell’illusione di onnipotenza e volontà di far prevalere la nostra individualità che i greci
chiamavano hybris e che rappresenta il “peccato originale” di molti uomini ed eroi della mitologia
greca condannati nel Tartaro.
Proprio questo peccato sconta anche il titano Prometeo, incatenato a una roccia nel Caucaso,
mentre un’aquila gli divora il fegato che continuamente ricresce, per essersi ribellato a Giove e
aver salvato gli uomini, insegnando loro le arti (la techne) e donando loro il fuoco ma soprattutto
“le cieche speranze” che hanno permesso ai mortali di non vedere che erano destinati alla morte.
Contro questa pena, che potrebbe esser presa anche a simbolo di una delle molte malattie
inguaribili, nulla possono né la techne né l’arte dell’oblio che Prometeo aveva insegnato agli
uomini. Solo la sapienza più alta, il riconoscimento e l’accettazione del divenire dell’essere, al
quale appartiene necessariamente anche il dolore e la morte, potranno alla fine salvarlo. Perché il
rimedio contro il dolore può cercarlo e ottenerlo solo chi non si lascia travolgere da hybris.
E proprio in questo consiste anche la sola possibile salvezza dell’uomo: non nel combattere la
morte e nemmeno nel dimenticarla e rimuoverla, ma nel riconoscerne l’ineluttabilità. Nonostante
gli immensi progressi compiuti dalla scienza e dalla tecnica, egli deve ammetterne i limiti,
accettando anche la propria individuale limitatezza. Questa consapevolezza non deve però
gettarlo nella disperazione, bensì al contrario liberarlo dall’angoscia e fargli amare più
intensamente la vita.
Al raggiungimento di questa coscienza, che potremmo anche chiamare “sapienza” (episteme) nel
senso più alto che esso aveva presso i greci, vuole contribuire anche questa mostra, che
rappresenta quindi un mezzo per farci crescere.
Prof. Alessandro Costazza
Professore di Letteratura Tedesca all’Università degli Studi di Milano
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Le cure palliative
A tutti è capitato di confrontarsi almeno una volta nella vita con un amico o un parente
gravemente malato. Spesso il malato giace in un letto d’ospedale ed attorno a lui tutti si danno
da fare velocemente e con efficienza per lottare contro la malattia. Ma chi si avvicina alla fase
ultima della vita, chi si confronta con una guarigione non più possibile, chi percepisce che il
tempo rimasto è limitato e quindi estremamente prezioso, che risposte ottiene? Questo è il
momento in cui l’attenzione deve tornare dalla malattia alla persona, che ha il diritto di essere
accompagnata con umanità e nel rispetto della sua dignità e libertà.
Da tempo in Europa si sono diffuse le cure palliative, che nascono dalla necessità di stare accanto
ai malati inguaribili ed alle loro famiglie in un momento in cui il dolore, nelle sue diverse
componenti fisica, psicologica, sociale e spirituale, richiede risposte rapide ed adeguate.
L’obiettivo è quello di restituire ai malati ed ai loro familiari la possibilità di vivere nel miglior
modo possibile, avendo prima di tutto la certezza di non essere lasciati soli in un momento così
difficile. In futuro il numero di pazienti bisognosi di cure palliative crescerà in modo significativo,
poiché le persone affette da patologie spesso inguaribili come tumori, malattie neurologiche e
cardio-respiratorie risultano in costante aumento, grazie anche ai notevoli progressi compiuti
dalla medicina che consentono di prolungare i tempi di sopravvivenza. La difficoltà con cui ancora
oggi si parla di cure palliative e la loro scarsa conoscenza da parte non solo degli utenti, ma
spesso anche di molti sanitari, sono la conseguenza di una cultura che tende a rimuovere il più
possibile dagli occhi e dalle parole tutto ciò che riguarda la fine della vita ed il processo del
morire.
Cicely Saunders, fondatrice delle cure palliative moderne ed in particolare del movimento hospice,
ci ha insegnato a non fuggire davanti alla sofferenza di una persona malata, ma a prenderci cura
di lei con competenza ed affetto. Questa prospettiva di solidarietà della medicina e quindi della
società nella cura della persona inguaribile è l’unica strada che permette a tutti coloro che
giungono alla fase finale della vita di continuare ad essere se stessi fino all’ultimo istante, poiché
la profondità del tempo è più importante della sua durata.
Le immagini proposte nell’ambito della mostra sono un'occasione per riflettere sulla realtà della
malattia terminale, periodo che non va considerato come un' infruttuosa attesa della morte, ma
che va riempito di senso, fino all'ultimo giorno.
Dr. Massimo Bernardo
Responsabile del Reparto Cure Palliative all’Ospedale Regionale di Bolzano
Facoltà di Design e Arti Il Papavero – Der Mohn
Libera Università di Bolzano A sostegno delle Cure Palliative
www.unibz.it/design-art www.ilpapaverodermohn.it
design-art@unibz.it ilpapaverodermohn@brennercom.net
L’Associazione Il Papavero – Der Mohn
Nel 2008, un gruppo di familiari che aveva avuto modo di fare esperienza diretta delle enormi
potenzialità dell’approccio palliativo nel restituire qualità e dignità alla vita, ha voluto dare vita
all’Associazione Il Papavero – Der Mohn.
Si tratta di un’associazione a carattere volontario e senza fini di lucro (ONLUS) che ha per finalità
la diffusione della cultura delle cure palliative. Tra gli scopi vi sono quello di promuovere e
diffondere la conoscenza, la cultura e la ricerca in cure palliative, di proporre le strutture
necessarie e sostenere quelle già operanti, di promuovere incontri e corsi per la formazione di
volontari e di tutti gli interessati, di favorire lo sviluppo di ogni attività ritenuta idonea per
migliorare le condizioni psico-sociali del malato, di istituire borse di studio per la ricerca
nell'ambito delle cure palliative e di promuovere attività di raccolta fondi destinati all'associazione.
Nei suoi primi due anni di vita l’Associazione, che conta più di 400 soci, è entrata a far parte della
Federazione Nazionale Cure Palliative, che raccoglie oltre 60 associazioni che operano nel settore.
Ha collaborato alla raccolta di firme che hanno portato a risultati fondamentali per l’assistenza ai
malati, quali la semplificazione da parte del Ministero della Salute della modalità di prescrizione
dei farmaci utilizzati nella terapia del dolore. Sono stati erogati fondi e concesse borse di studio
per la formazione del personale sanitario che a livello locale opera nell’ambito delle cure palliative
ed ha acquistato e donato apparecchiature destinate a dare sollievo alle persone degenti presso il
Reparto di Cure Palliative dell’Ospedale di Bolzano.
Tra i bisogni del paziente in fase avanzata di malattia vi è quello di restare il più possibile al
domicilio ed è quindi necessario avvicinare i servizi di cura e di assistenza al contesto in cui il
paziente e la sua famiglia vivono. Questo è possibile solo integrando le risorse sociosanitarie del
territorio con quelle ospedaliere, con l’attività del volontariato, l’impegno delle associazioni che si
interessano di cure palliative e il sostegno da parte delle istituzioni e dei cittadini. In questa ottica
prosegue l’attività di informazione della popolazione sulle finalità delle cure palliative e la raccolta
di fondi per sostenere la costruzione di un Hospice per la città di Bolzano.
Oggi la sofferenza e la morte sono divenute sconvenienti, fuori luogo, fonte di repulsione,
respinte ai margini della società. L’associazione Il Papavero – Der Mohn ha voluto pertanto
riportare le testimonianze che la mostra Noch mal leben – Vivere ancora propone.
Queste ci consentono di riflettere sul mistero rappresentato da una vita unica ed irripetibile che
finisce, ma nella quale una relazione è sempre possibile, anche quando fragilità e debolezza
hanno il sopravvento. Solo così la vicinanza al morente consente, a chi sopravvive al distacco, di
recuperare il senso di una vita che si conclude e di attribuire un significato al ricordo di chi non
c’è più, ma che rimarrà per sempre.
Facoltà di Design e Arti Il Papavero – Der Mohn
Libera Università di Bolzano A sostegno delle Cure Palliative
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Non sempre ciò che è possibile è giusto
Il lavoro di Walter Schels e di Beate Lakotta presenta un argomento che di solito non trova posto
nella coscienza pubblica: in una società orientata alla produttività e al guadagno, il tema della
morte è un tabù difficilmente commercializzabile. Al giorno d’oggi la dimensione umana del
finevita viene rappresentata raramente in maniera così differenziata come nel caso del reportage
di Water Schels e Beate Lakotta. Il loro modo esemplare di trasmettere visivamente questo tema
difficile e delicato è stato motivo sufficiente per indurci a presentare la mostra a studenti, docenti
e amici della Facoltà di Design e Arti.
In questa mostra, oltre ai racconti delle singole persone raffigurate, si tocca anche il tema delle
cure palliative: le fotografie presentate sono state scattate infatti negli hospice in cui i
protagonisti hanno potuto trascorrere con dignità gli ultimi giorni della loro vita. Prima
dell’avvento delle cure palliative la morte veniva vista come una sconfitta della medicina, dal
momento che la ricerca medica più avanzata non poteva offrire ai pazienti di vivere più a lungo.
Le cure palliative mettono invece in secondo piano il prolungamento della vita ad ogni costo, a
favore di una vita vissuta in modo dignitoso fino all’ultimo. Ed è proprio qui che risulta
chiaramente ciò che vale anche per noi designer: non possiamo non chiederci cosa sia
tecnicamente possibile. Dobbiamo conoscere lo stato dell’arte della ricerca e sfruttarlo al meglio.
Alla fine però dobbiamo chiederci cosa sia giusto per l’uomo. Gli hospice sono un buon esempio
di una “progettazione” più umana delle nostre condizioni di vita.
L’Associazione Il Papavero – Der Mohn ha fatto propria questa idea e si dedica con tutte le sue
forze a diffondere in Alto Adige la conoscenza e la cultura delle cure palliative. Noi ci auguriamo
che questa mostra possa servire a questo fine e riesca a destare interesse per un tema che ci
riguarda tutti.
Kuno Prey
Preside della Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano
Facoltà di Design e Arti Il Papavero – Der Mohn
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Didascalie delle immagini
Photo credits: Walter Schels
Klara Behrens
83 anni
Nata il 2 dicembre 1920
Primo ritratto, 6 febbraio 2004
Morta il 3 marzo 2004
Hospice Sinus, Amburgo
Klara Behrens intuisce che presto potrebbe giungere la fine. “Talvolta, è vero, spero di tornare a
stare meglio”, confessa. “Ma quando poi sto di nuovo tanto male, non ho nemmeno più voglia di
vivere. Pensare che mi ero appena comprata un nuovo frigo-congelatore! Se solo l’avessi saputo
prima…”
È l’ultimo giorno di febbraio, il sole splende, in cortile sono sbocciate le prime campanule. “La
cosa che mi piacerebbe fare di più è andare all’Elba, sedermi sui sassi e tenere i piedi nell’acqua.
Da bambini lo facevamo quando si andava al fiume a raccogliere legna per la stufa. In una
seconda vita farei tutto in modo diverso. Non voglio più trascinare legna. Ma c’è una seconda
vita? Non credo. Si crede solo a ciò che si vede. E si vede solo quello che esiste. Non temo la
morte. Diventerò il milionesimo, il miliardesimo granellino di sabbia del deserto. Quel che mi
spaventa è morire. Non sai mai come e cosa succede”.
Michael Föge
50 anni
Nato il 15 giugno 1952
Primo ritratto, 8 gennaio 2003
Morto il 12 febbraio 2003
Ricam Hospice, Berlino
Michael Föge, alto, sportivo, brillante conversatore, viene nominato primo pianificatore della
viabilità ciclistica di Berlino. É felice. Festeggia il suo cinquantesimo compleanno con numerosi
ospiti. Qualche tempo dopo, nel parlare non gli giungono più alla mente le parole. I medici
riscontrano un tumore al cervello. Tumore che nel giro di pochi mesi gli distrugge il centro della
parola, gli paralizza il braccio destro e la metà destra del viso. Giorno dopo giorno nell’hospice il
signor Föge si fa sempre più assonnato. Un giorno non si sveglierà più.
Finché ne ha avuto la possibilità, Michael Föge non ha mai parlato della sua vita interiore. Ora
non è più in grado di farlo. “Cosa avviene nella sua testa?”, si domanda la moglie.
La musicoterapista ha avuto l’idea del braccio di ferro. Ha preso la mano sana di Föge, misurando
la propria forza con la sua, un dialogo senza parole. “Ho sentito la sua vitalità. Ci siamo divertiti”.
Facoltà di Design e Arti Il Papavero – Der Mohn
Libera Università di Bolzano A sostegno delle Cure Palliative
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Roswitha Pacholleck
47 anni
Nata il 13 maggio 1955
Primo ritratto, 31 dicembre 2002
Morta il 5 marzo 2003
Ricam Hospice, Berlino
“È così assurdo”, commenta Roswitha Pacholleck: “Adesso che ho un cancro, per la prima volta
desidero vivere”. Si trova all’hospice da un paio di settimane. “Ci sono delle belle persone qui.
Assaporo ogni giorno che mi rimane ancora. Prima non era bella la mia vita”. Trascurata da
bambina, cresciuta in un istituto, irrealizzata nella vita lavorativa, umiliata come moglie e delusa
come madre: “Non ho costruito nulla, non ho nulla da esibire”.
Ma non muove più un rimprovero a nessuno. Nemmeno a se stessa. Si è riconciliata con tutti. È
contenta delle attenzioni e della simpatia che riceve all’hospice. Preoccupata, si tasta i nodi che
ha nella pancia. Ogni giorno ingrandiscono. Roswitha Pacholleck non si arrende: “So che morirò,
ma chissà, forse avverrà invece un miracolo”. Giura che in caso di guarigione lavorerà all’hospice.
Roswitha Pacholleck ci spera fino alla fine.
Heiner Schmitz
52 anni
Nato il 26 novembre 1951
Primo ritratto, 19 novembre 2003
Morto il 14 dicembre 2003
Leuchtfeuer Hospice, Amburgo
Heiner Schmitz vede una macchia nella risonanza magnetica del suo encefalo. Comprende subito
di non avere più tanto tempo. Schmitz è un pensatore arguto ed eloquente, mai superficiale.
Lavora nel ramo pubblicitario. Lì sono tutti bravi in questo, normalmente. Gli amici di Heiner non
vogliono che sia triste. Cercano di distrarlo. All’hospice guardano insieme le partite di calcio,
come d’abitudine. Birra, sigarette, una festa in camera. Le ragazze delle agenzie portano fiori.
Molti vengono in due perché non vogliono stare da soli con lui. Di cosa si parla con chi è in attesa
della morte? Al momento dei saluti, alcuni augurano buona guarigione. Rimettiti presto, vecchio
mio!
“Nessuno mi domanda come sto”, protesta Heiner Schmitz. “Perché hanno tutti strizza. Questo
sforzo spasmodico di parlare di tutto e di più, fa male. Ehi! Non capite? Sto per morire! Questo è
il mio unico argomento in ogni minuto in cui sono da solo”.
26
febbraio 2010
Beate Lakotta / Walter Schels – Noch mal leben. Vivere ancora
Dal 26 febbraio al primo aprile 2010
fotografia
Location
LIBERA UNIVERSITA’ DI BOLZANO – FACOLTA’ DESIGN E ARTI
Bolzano, Via Raffaello Sernesi, 1, (Bolzano)
Bolzano, Via Raffaello Sernesi, 1, (Bolzano)
Orario di apertura
Lun – Ven 15:00 – 19:00
Sab 9:00 – 18:00
Dom 9:00 – 12:00
Vernissage
26 Febbraio 2010, ore 18
Sito web
www.vivere-ancora.it
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