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Ida Stampanone – Itaca. Visioni di Lucera
Mostra personale
Comunicato stampa
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La città dell’anima
Nel ricordo di Enzo;
Lucera era Itaca anche per lui
Si deve, come è noto, a Byron l’espressione città dell’anima, colma di rievocative magie, da lui inizialmente rivolta e riferita a Roma ma subito divenuta assolutamente famosa nell’universale linguaggio, per indicare il luogo che ci ha stregati, rivelandosi capace di produrre in noi una fascinosa, eccezionale attrazione mentale e spirituale, tanto più forte e vibrante quanto più, paradossalmente, se ne è lontani dopo averne fatto, ancor che breve, una vitale esperienza diretta.
Così, nel nostro caso, per Ida Stampanone è stato ed è di Lucera, città che le è rimasta con singolari liaisons suggestive nel “cuore del cuore” (ed in quello della mente) per averla lei ripetutamente “vissuta” in molte stagioni della sua giovane vita fino a donarlesi tutta sentimentalmente. Tanto da sentire alla fine il bisogno (non per liberarsene, ma quasi per storicizzare un personale evento) di corrispondere all’urgenza non più contenibile di un moto interiore che investe tutto l’essere, col dargli per così dire una sua propria visibilità pubblica; o se vogliamo per condividerlo, ponendo perciò mano ad uno degli strumenti che l’arte concede ai prediletti del Cielo: la penna al poeta e allo scrittore, il pentagramma al musicista, il pennello al pittore.
E siccome ad Ida non mancano la determinazione e l’ardimento che sembrano in lei discender “per li rami”, né la preparazione tecnica che le deriva dagli studi brillantemente conclusi nella romana Accademia di Belle Arti, frequentata per assecondare una naturale inclinazione creativa, ecco la sua giusta voglia di provarsi, di mettersi in gioco in una pubblica mostra personale tutta incentrata attorno al tema caro al suo cuore.
Non però “mostra” come vetrina e manifesto di una bravura (che pure c’è e si vede), ma come ostensione e testimonianza di un sentimento, di una spirituale devozione sublimata dall’arte e nell’arte. Che ripercorre per immagini sottilmente seducenti la sua città dell’anima, non proponendo di essa calligrafiche “vedute” tradizionali (stantìe e scontate, cioè senza un interno soffio di vita) ma proiettando fuori di sé “visioni” essenziali come originali espressioni fisiche di interiori emozioni.
In questo, lo si scorge subito, bene aiutano Ida Stampanone gli studi accademici da lei condotti con orientamento specialistico per la scenografia (campo nel quale ha già ottenuto, per altro, successi e riconoscimenti) per quella indiscutibile abilità/abitudine/attitudine/necessità espressiva alla semplificazione massima con cui il pennello, diciamo così, scarnifica e concettualizza l’oggetto della rappresentazione, eliminando superflue soprastrutture e particolari devianti o, più e meglio ancora, rumorose intrusioni distraenti, prima fra tutte la presenza umana, letteralmente bandita – et pour cause – da questi suoi acquerelli.
Tuttavia, perché la scena ritratta (singolo edificio, particolare eminente o più articolata e complessa struttura urbana) acquisti il suo valore validante di simbolo (vale a dire quello di sapersi proporre al riguardante come memoria spirituale che irradia, oltre il dato materiale e nondimeno in virtù di esso, la propria energia evocativa) capitale e determinante si rivela ed è, naturalmente, il ruolo affidato al colore. E quindi nell’universo iconico di Ida nessun clamore di cromie, nessuna rutilanza di tavolozza, ogni conflittuale scintillio di accostamenti rifuggito come arzigogolo barocco; in una parola, nessun lenocinio estrinseco o surrettizio. Il colore come pura coerenza creativa.
Ida, infatti, distende sul foglio (che sceglie con cura, soffice e spesso al tatto come un corposo e un po’ ruvido tessuto giustamente assorbente) con pennellata per lo più larga di campiture, ora distesa ora vivace e breve, ma accorta sempre anche e soprattutto nei ritorni e rinforzi, i suoi colori-stato d’animo, fedele soprattutto al suo ritrovare e sentire dentro di sé la più stretta e corretta sintonia tra valenze evocative e scelta di corrispondenti valori tonali sensibili.
Nasce di qui la preferenza per quella che talora può sembrare diffusa monocromìa, ma che ad uno sguardo attento e penetrante le trame cromatiche si manifesta piuttosto agglutinante ed equilibrato accostamento di colori, ora tono su tono, ora di leggero contrappunto, ora somma di complementari variazioni gradienti che trascolorano attorno al dominante, infine sfumature che senza urto o lacerazione incontrano e s’immergono nell’altro da sé, quale esemplarmente avviene per manufatti come il rugginoso e diruto Castello svevo-angioino posto in più acquerelli (mura e torri) sullo sfondo d’un cielo a volte compatto, a volte sfibrato nel suo corposo – quando diverso, quando similare – colorismo, così come avviene per altro con dolce giustapposizione armoniosa nell’acquerello in cui il luminoso campanile del Duomo (luminoso perché illuminato di luce propria dalle larghe fasce chiare che ne racchiudono la sagoma e ne scavano il corpo) si staglia plasticamente tridimensionale contro il blu variamente trasparente ed insieme profondo del cielo, scalfito appena nella sua intensità da qualche timido accenno di stelle.
Pittura sobria e solida, serenamente aperta a più maturi sviluppi e senza ingiustificate albagie, ma già con un suo preciso carattere, uno suo stile definito ed un suo profilo incisivo e personale, è qui il caso di sottolineare espressamente; ogni tessera della quale, nella presente (vogliamo convenire: specialissima?) esposizione ne è insinuante conferma. Del resto, ogni sincera voglia di non dire ovvietà transeunti pretende un suo peculiare linguaggio.
E proprio questa padronanza sicura del sentimento di appartenenza/possesso, e della tecnica di cui ella dispone per esprimerlo, permette ad Ida – personalità ricca di fermenti, vivace e fantasiosa – di svariare liberamente, senza flessioni valoriali di timbro e di risultati pittorici, nelle proposte che ci offre di ricostruzione per tessere della sua Lucera: – sua, che non è quindi quella dei più, troppo oleograficamente omologata.
Così può “rivivere” pienamente questa città gelosamente introiettata e rappresentarla dall’alto, scoprendone tetti e torrette tradotti in fulve scacchiere di pieni e di vuoti, di embrici e coppi più chiari e più scuri (ah! quale indicatore non soltanto storico-ambientale si rivelano quelle lunghe e molteplici braccia di una palma che entrano da destra sulla scena in uno di questi acquerelli!); oppure ricomporla dal basso percorrendone vicoli muti e placide piazzette incoronate (queste, sì, monocrome come per concentrazione di invariato sentire) da una piccola, tondeggiante torre angolare saracena; o fermarsi, quasi per stordimento attonito, di fronte al silente incanto disarmante della facciata (di sé alto parlante) della chiesa del Carmine.
Ma può ben mutare in direzione storica questo trapassare altimetrico di cui stiamo dicendo; ed ecco allora le “visioni” del Castello che le cromìe scelte sembrano talora immergere in un’aura tragica, che sa di tempesta atmosferica e insieme di dramma storico; ecco il portale dell’Anfiteatro romano, che si offre allo sguardo come evocando nel timbro bronzeo dei suoi toni lividi il ricordo delle riproduzioni in fusione metallica che un tempo si offrivano in mostra nelle vetrine o sui ripiani della Libreria Catapano (è proprio necessario spiegare qui che il valore dominante se non supremo dell’espressione città dell’anima, e del pari, ma in modo anche autonomo, della pittura “lucerina” di Ida Stampanone, è quello della nostalgia, non certo lacrimosa e paralizzante, ma corroborante e feconda?); ecco, gioiosa di colori discreti ritorti in gamme verdi ed oro, la maiolicata cupola araba, a forma di elmo squamato di placche lucenti, della chiesa di Sant’Antonio abate, quella che a metà Ottocento catturò Gregorovius, già frastornato dalla Fortezza angioina, e che nella sua deliziosa specificità il nostro acquerello quasi suggerisce come civettuolo modello per una vaporosa cuffietta di lana a difesa dei freddi venti garganici ed appenninici; ecco, infine, in un brusco passaggio dal monumentale orgoglio di storiche ascendenze al fascino discreto della santa umiltà (a Lucera, certi estremi facilmente si toccano) la urbanisticamente modesta e in sé malinconica “Strada del santo”, strada di periferia che sembra farsi teneramente cara alla pittrice quale ultima (ma in verità sempre penultima) scoperta degli angoli evocativi della città che ama. Tutti da collocare fuori del tempo, per sua natura fisicamente corruttore ed edace.
Certo è che Ida Stampanone mostra, per l’occasione, di avere qualcosa di non banale da dire con questa sua pittura apparentemente povera e spoglia ed invece a suo modo saggia e sapiente. Poco o molto che sia, con giovanile entusiasmo (ed originalità di atteggiamento in ordine ai modelli tipici dell’età sua) ella insegue anche per noi il sogno di affidare all’intimità della memoria il senso ultimo della vita. Cosa che, a ben vedere, resta uno dei privilegi e dei conseguenti miracoli concessi all’arte, ma compito sostanzialmente difficile in pittura: che tuttavia a lei sembra in gran parte riuscito. Se è vero, come è vero, che molti suoi acquerelli dedicati a Lucera non si lasciano facilmente dimenticare.
Paolo Emilio Trastulli
Nel ricordo di Enzo;
Lucera era Itaca anche per lui
Si deve, come è noto, a Byron l’espressione città dell’anima, colma di rievocative magie, da lui inizialmente rivolta e riferita a Roma ma subito divenuta assolutamente famosa nell’universale linguaggio, per indicare il luogo che ci ha stregati, rivelandosi capace di produrre in noi una fascinosa, eccezionale attrazione mentale e spirituale, tanto più forte e vibrante quanto più, paradossalmente, se ne è lontani dopo averne fatto, ancor che breve, una vitale esperienza diretta.
Così, nel nostro caso, per Ida Stampanone è stato ed è di Lucera, città che le è rimasta con singolari liaisons suggestive nel “cuore del cuore” (ed in quello della mente) per averla lei ripetutamente “vissuta” in molte stagioni della sua giovane vita fino a donarlesi tutta sentimentalmente. Tanto da sentire alla fine il bisogno (non per liberarsene, ma quasi per storicizzare un personale evento) di corrispondere all’urgenza non più contenibile di un moto interiore che investe tutto l’essere, col dargli per così dire una sua propria visibilità pubblica; o se vogliamo per condividerlo, ponendo perciò mano ad uno degli strumenti che l’arte concede ai prediletti del Cielo: la penna al poeta e allo scrittore, il pentagramma al musicista, il pennello al pittore.
E siccome ad Ida non mancano la determinazione e l’ardimento che sembrano in lei discender “per li rami”, né la preparazione tecnica che le deriva dagli studi brillantemente conclusi nella romana Accademia di Belle Arti, frequentata per assecondare una naturale inclinazione creativa, ecco la sua giusta voglia di provarsi, di mettersi in gioco in una pubblica mostra personale tutta incentrata attorno al tema caro al suo cuore.
Non però “mostra” come vetrina e manifesto di una bravura (che pure c’è e si vede), ma come ostensione e testimonianza di un sentimento, di una spirituale devozione sublimata dall’arte e nell’arte. Che ripercorre per immagini sottilmente seducenti la sua città dell’anima, non proponendo di essa calligrafiche “vedute” tradizionali (stantìe e scontate, cioè senza un interno soffio di vita) ma proiettando fuori di sé “visioni” essenziali come originali espressioni fisiche di interiori emozioni.
In questo, lo si scorge subito, bene aiutano Ida Stampanone gli studi accademici da lei condotti con orientamento specialistico per la scenografia (campo nel quale ha già ottenuto, per altro, successi e riconoscimenti) per quella indiscutibile abilità/abitudine/attitudine/necessità espressiva alla semplificazione massima con cui il pennello, diciamo così, scarnifica e concettualizza l’oggetto della rappresentazione, eliminando superflue soprastrutture e particolari devianti o, più e meglio ancora, rumorose intrusioni distraenti, prima fra tutte la presenza umana, letteralmente bandita – et pour cause – da questi suoi acquerelli.
Tuttavia, perché la scena ritratta (singolo edificio, particolare eminente o più articolata e complessa struttura urbana) acquisti il suo valore validante di simbolo (vale a dire quello di sapersi proporre al riguardante come memoria spirituale che irradia, oltre il dato materiale e nondimeno in virtù di esso, la propria energia evocativa) capitale e determinante si rivela ed è, naturalmente, il ruolo affidato al colore. E quindi nell’universo iconico di Ida nessun clamore di cromie, nessuna rutilanza di tavolozza, ogni conflittuale scintillio di accostamenti rifuggito come arzigogolo barocco; in una parola, nessun lenocinio estrinseco o surrettizio. Il colore come pura coerenza creativa.
Ida, infatti, distende sul foglio (che sceglie con cura, soffice e spesso al tatto come un corposo e un po’ ruvido tessuto giustamente assorbente) con pennellata per lo più larga di campiture, ora distesa ora vivace e breve, ma accorta sempre anche e soprattutto nei ritorni e rinforzi, i suoi colori-stato d’animo, fedele soprattutto al suo ritrovare e sentire dentro di sé la più stretta e corretta sintonia tra valenze evocative e scelta di corrispondenti valori tonali sensibili.
Nasce di qui la preferenza per quella che talora può sembrare diffusa monocromìa, ma che ad uno sguardo attento e penetrante le trame cromatiche si manifesta piuttosto agglutinante ed equilibrato accostamento di colori, ora tono su tono, ora di leggero contrappunto, ora somma di complementari variazioni gradienti che trascolorano attorno al dominante, infine sfumature che senza urto o lacerazione incontrano e s’immergono nell’altro da sé, quale esemplarmente avviene per manufatti come il rugginoso e diruto Castello svevo-angioino posto in più acquerelli (mura e torri) sullo sfondo d’un cielo a volte compatto, a volte sfibrato nel suo corposo – quando diverso, quando similare – colorismo, così come avviene per altro con dolce giustapposizione armoniosa nell’acquerello in cui il luminoso campanile del Duomo (luminoso perché illuminato di luce propria dalle larghe fasce chiare che ne racchiudono la sagoma e ne scavano il corpo) si staglia plasticamente tridimensionale contro il blu variamente trasparente ed insieme profondo del cielo, scalfito appena nella sua intensità da qualche timido accenno di stelle.
Pittura sobria e solida, serenamente aperta a più maturi sviluppi e senza ingiustificate albagie, ma già con un suo preciso carattere, uno suo stile definito ed un suo profilo incisivo e personale, è qui il caso di sottolineare espressamente; ogni tessera della quale, nella presente (vogliamo convenire: specialissima?) esposizione ne è insinuante conferma. Del resto, ogni sincera voglia di non dire ovvietà transeunti pretende un suo peculiare linguaggio.
E proprio questa padronanza sicura del sentimento di appartenenza/possesso, e della tecnica di cui ella dispone per esprimerlo, permette ad Ida – personalità ricca di fermenti, vivace e fantasiosa – di svariare liberamente, senza flessioni valoriali di timbro e di risultati pittorici, nelle proposte che ci offre di ricostruzione per tessere della sua Lucera: – sua, che non è quindi quella dei più, troppo oleograficamente omologata.
Così può “rivivere” pienamente questa città gelosamente introiettata e rappresentarla dall’alto, scoprendone tetti e torrette tradotti in fulve scacchiere di pieni e di vuoti, di embrici e coppi più chiari e più scuri (ah! quale indicatore non soltanto storico-ambientale si rivelano quelle lunghe e molteplici braccia di una palma che entrano da destra sulla scena in uno di questi acquerelli!); oppure ricomporla dal basso percorrendone vicoli muti e placide piazzette incoronate (queste, sì, monocrome come per concentrazione di invariato sentire) da una piccola, tondeggiante torre angolare saracena; o fermarsi, quasi per stordimento attonito, di fronte al silente incanto disarmante della facciata (di sé alto parlante) della chiesa del Carmine.
Ma può ben mutare in direzione storica questo trapassare altimetrico di cui stiamo dicendo; ed ecco allora le “visioni” del Castello che le cromìe scelte sembrano talora immergere in un’aura tragica, che sa di tempesta atmosferica e insieme di dramma storico; ecco il portale dell’Anfiteatro romano, che si offre allo sguardo come evocando nel timbro bronzeo dei suoi toni lividi il ricordo delle riproduzioni in fusione metallica che un tempo si offrivano in mostra nelle vetrine o sui ripiani della Libreria Catapano (è proprio necessario spiegare qui che il valore dominante se non supremo dell’espressione città dell’anima, e del pari, ma in modo anche autonomo, della pittura “lucerina” di Ida Stampanone, è quello della nostalgia, non certo lacrimosa e paralizzante, ma corroborante e feconda?); ecco, gioiosa di colori discreti ritorti in gamme verdi ed oro, la maiolicata cupola araba, a forma di elmo squamato di placche lucenti, della chiesa di Sant’Antonio abate, quella che a metà Ottocento catturò Gregorovius, già frastornato dalla Fortezza angioina, e che nella sua deliziosa specificità il nostro acquerello quasi suggerisce come civettuolo modello per una vaporosa cuffietta di lana a difesa dei freddi venti garganici ed appenninici; ecco, infine, in un brusco passaggio dal monumentale orgoglio di storiche ascendenze al fascino discreto della santa umiltà (a Lucera, certi estremi facilmente si toccano) la urbanisticamente modesta e in sé malinconica “Strada del santo”, strada di periferia che sembra farsi teneramente cara alla pittrice quale ultima (ma in verità sempre penultima) scoperta degli angoli evocativi della città che ama. Tutti da collocare fuori del tempo, per sua natura fisicamente corruttore ed edace.
Certo è che Ida Stampanone mostra, per l’occasione, di avere qualcosa di non banale da dire con questa sua pittura apparentemente povera e spoglia ed invece a suo modo saggia e sapiente. Poco o molto che sia, con giovanile entusiasmo (ed originalità di atteggiamento in ordine ai modelli tipici dell’età sua) ella insegue anche per noi il sogno di affidare all’intimità della memoria il senso ultimo della vita. Cosa che, a ben vedere, resta uno dei privilegi e dei conseguenti miracoli concessi all’arte, ma compito sostanzialmente difficile in pittura: che tuttavia a lei sembra in gran parte riuscito. Se è vero, come è vero, che molti suoi acquerelli dedicati a Lucera non si lasciano facilmente dimenticare.
Paolo Emilio Trastulli
19
dicembre 2009
Ida Stampanone – Itaca. Visioni di Lucera
Dal 19 al 23 dicembre 2009
arte contemporanea
Location
PALAZZO COMUNALE
Lucera, Piazza Nocelli, 5, (Foggia)
Lucera, Piazza Nocelli, 5, (Foggia)
Orario di apertura
ore 10:30-12:30 / 16:30-20:00
Vernissage
19 Dicembre 2009, ore 18.30
Autore
Curatore