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Filippo Maria Topi – Opere recenti
La mostra raccoglie, nella Sede Provinciale (viale Montegrappa 138 – Prato) e nella di Maliseti (via D. Saccenti 19/21 – Prato) di Confartigianato Imprese Prato, gli ultimi lavori realizzati dall’artista fiorentino
Comunicato stampa
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“Tra i punti d’orgoglio di Confartigianato Imprese Prato, che ormai da diversi anni ha aperto, dando vita a Confarte, un capitolo completamente nuovo nella storia della sua attività, c’è quello di aver ospitato sempre, presso le proprie sedi, artisti di talento. Spesso un talento già riconosciuto e conclamato. Altre volte, in artisti più giovani, un talento che questo riconoscimento lo stavano trovando. Ma una costante, nelle scelte di Confarte, è sempre stata quella della massima apertura a ogni tipo di espressione pittorica. Da quelle più tradizionali, figurative e ritrattistiche, a quelle più innovative, sia a livello di rappresentazione che di tecniche utilizzate. Un atteggiamento che ho sempre condiviso, perché niente come l’arte è lontano dal poter venir limitato, discriminato. Dal profano al grande esperto, per ognuno l’arte è soprattutto emozione, e per offrirla un’opera non ha regole da seguire, ma soltanto passione da esprimere.” Esordisce con queste parole Luca Giusti, presidente di Confartigianato Imprese Prato, nella presentazione al catalogo di Filippo Maria Topi, l’artista che esporrà le sue opere più recenti a partire da sabato 12 dicembre (inaugurazione alle ore 17.30, alla presenza delle telecamere di TOSCANA TV con il giornalista Fabrizio Borghini) nella Sede Provinciale di Confartigianato Imprese Prato (viale Montegrappa 138 – Prato). Altre opere rimarranno esposte anche nella Sede di Maliseti (via D. Saccenti 19/21 – Prato).
Filippo Maria Topi, architetto, è nato a Firenze nel 1969. Ha frequentato il Liceo Artistico sotto la guida di Mario Nuti, di cui l’artista ha un ricordo molto particolare: “Mario Nuti, che fu mio insegnante, mi colpiva con la sua maniera di porsi ad artista trasgressivo: non m’impressionava tanto per essere stato uno dei precursori dell’astrattismo Classico toscano del Dopoguerra, quanto piuttosto il suo atteggiamento di contestazione delle convenzioni, che lo faceva vedere, a me ragazzo, un vero e proprio personaggio.” Agli inizi degli anni novanta, durante un viaggio coast to coast negli Stati Uniti ha un’importante incontro con il movimento dei graffitisti, Keith Haring in particolare. Nasce così spontaneo il suo interesse per la Dripping Painting di Pollock e successivamente per gli altri Maestri dell’Action Painting, che studierà in parallelo all’architettura americana. Il suo viaggio pittorico continua con la Pop Art statunitense, Mario Schifano, per poi passare negli anni al cromatismo di Klein, il costruttivismo astratto di Berti ed infine a quella che lui definisce la scoperta ‘viscerale’ di Emilio Vedova. Nella realizzazione delle sue opere Filippo Maria Topi utilizza supporti come la tela, la carta e le lastre tipografiche con un crescente desiderio per il legno, il suo prossimo obbiettivo. Per i materiali utilizzati si va dall’olio, al bitume, l’acrilico, lo smalto e lo spray.
Hanno scritto di lui:
Le opere pittoriche di Filippo Maria Topi sono decisamente improntate a un astrattismo anarchico e variegato, dove il segno si fa aggrovigliato e imprevedibile ed il colore violento, in consonanza con i principi dell’arte gestuale. Egli, in un certo qual senso, eredita dalle correnti surrealista ed espressionista la negazione di forme e di linguaggi razionali, dipingendo secondo procedimenti puramente pittorici, tendendo, cioè, ad una libera e incontrollata espressione di sé, al di là di ogni categoria figurativa convenzionale. Topi sceglie il mezzo espressivo anche per le sue potenzialità tattili (scabra superficie pigmentata), oltre che per il suo intrinseco valore cromatico. Il suo modo iniziale di creare immagini senza il ricorso a forme riconoscibili, alla maniera che già fu di Giuseppe Capogrossi, di Hans Hartung, di Georges Mathieu, di Jean-Paul Riopelle o di Jackson Pollock, ma soprattutto con riferimenti a Vinicio Berti e al ‘gruppo’ toscano dell’Astrazione Classica, si è man mano andato declinando secondo colti citazionismi gestuali di Emilio Vedova, in un contesto culturale che comprende omaggi all’arte astratta ed a quella espressionista. Indubbia, su di lui, l’influenza (”imitazione”) iniziale del figurativo stilizzato e dal graffitismo ‘popolare’ di Keith Haring, quindi della Dripping Painting di Pollock, dove il segno viene privato di forma indotta razionalmente e di significato, e della pennellata anticonformista di Mario Schifano, poi del rigore geometrico del maestro Mario Nuti (fondatore, insieme a Bruno Brunetti, Alvaro Monnini, Gualtiero Nativi e al rammentato Vinicio Berti, del gruppo di ”Astrattismo classico”) e delle costruzioni astratte di Berti stesso. Come in queste ultime, l’impianto rigoroso di una geometria classica astratta si stempera in una grafia libera e in un’evidenza di collegamenti tra linee e piani di colore, sorta di viaggio nel relativismo spazio-temporale inteso come fase estrema dello sviluppo dell’astrazione classica nel confronto con l’incessante divenire della realtà contemporanea. (Giampaolo Trotta)
Spesso, troppo spesso, nella porzione di mondo che si configura nell’arte contemporanea, si profondono maggiori energie per l’interpretazione delle opere che nella loro creazione. Un’incomprensibile ingiustizia, mai sufficientemente denunciata, traspare dal confronto tra la semplicità dei rapidi, talvolta brevi gesti irriflessi con cui l’artista crea la sua opera e gli sforzi estremi dell’intelletto prodotti per raggiungere gli alti gradi di complessità che trasuda dalle pagine faticosamente vergate dai più dotti critici. La ragione di tale tormento risiede non solo nell’alchemico processo con cui il naturale narcisismo dell’artista si traduce nell’artificiosa vanità del critico, ma anche nell’enigmatico rapporto che da sempre collega la materia al segno. L’apice espressivo di questa misteriosa relazione è quanto mai evidente nella pittura informale in cui il segno, sopraffatto dal caso o dalla materia, pare perdere la sua funzione convenzionale di indicatore di senso, di rassicurante veicolo di un aristocratico significato. Lo smarrimento che ne deriva può indurre a frettolose considerazioni di gratuità, ma può anche essere l’occasione di un personale riscatto da consumarsi nel giocoso abbandono alla ricerca di una sola moltitudine di sensi. Filippo Maria Topi, senza appellarsi alle innegabili istanze dell’inconscio o alle ermetiche prescrizioni della critica, permette al segno di riappropriarsi di uno spazio ludico puramente estetico, liberandolo dai rigidi dettami del senso e sollevando noi, solo provvisoriamente, dall’ineluttabile dubbio dell’imbecillità. (Jacopo Antolini)
Filippo Maria Topi presenta una serie di nuovi lavori informali, che attraverso il linguaggio universale del gesto dentro la materia cerca di stimolare la sfera emotiva dei fruitori della sua opera. I dipinti, certamente equilibrati e composti nella loro vivacità cromatica, esaltano primariamente l’immediatezza di un gesto e l’esplosione istintiva, che diventano poi origine assoluta della sua azione creativa. Per questo motivo ogni suo singolo quadro risulta in bilico tra due elementi: il “graffio” e il “numero”; l’uno, “il graffio”, vuole rafforzare la predominanza della propria gestualità pittorica ed incidere profondamente un vissuto collettivo che rimanda al fruitore attraverso la pastosità della materia sulla tela; l’altro, “il numero”, che sembra affiorare da ricordi di gioventù, diviene simbolo di un ritorno all’immagine ed alla razionalità così da animare questo eterno dualismo tra emozioni e ragione che non è altro che la metafora della vita stessa. Muovendosi in questo ambito e assumendo i numeri, presenti nei quadri, come titoli degli stessi, si può dire che Filippo giunge a poter accostare una cifra ben definita, ad ogni singola emozione/azione che ha portato alla genesi di un’opera. Pertanto, paradossalmente, osservando i diversi lavori del pittore, potremmo affermare che quei numeri sono rappresentativi di quella precisa ed univoca emozione, cristallizzata nel gesto e nell’istante in cui è scaturita. (Tommaso Baldi)
Sono rimasto colpito ed affascinato sin da subito dal suo modo di esprimersi su quelle tele, di primo acchito “caotiche”, ma soltanto in seguito si può notare che tutto ha un senso ed il movimento è legato ad una logica, come l’abbinamento dei colori e della loro posizione, il tutto ha una sua prospettiva ed un suo equilibrio. Sono opere che non si possono guardare di sfuggita, meritano un attento esame per essere apprezzate fino in fondo, anche se attraggono nell’immediato grazie al loro cromatismo. La pittura, nel suo caso, non è solo colore ma materia, materia che crea una tridimensionalità unica, dove i solchi ed i grumi lasciati dall’artista non fanno altro che rafforzare il movimento del colore stesso, variandone, con giochi di luci ed ombre, l’espressività già di per sé affascinante. L’osservatore è travolto da una miriade d’informazioni ed emozioni, tanto da rapire le persone più sensibili in un vortice di pensieri, proprio come vorticosa appare la tela stessa, un andirivieni di suggestioni riportate alla realtà grazie alla presenza dei numeri. I numeri sono la parte concreta, la parte “reale” e, grazie ad essi, l’opera stessa trova il suo equilibrio, talvolta sono lievemente accennati, come una sorta di ricordo che sta svanendo, o marcati ed accentuati da un colore dominante, come a confermare la loro presenza e la loro importanza, i numeri di Filippo Maria Topi, sono i personaggi che si muovono nei suoi paesaggi e danno senso alla scena che si va a creare. (Giacomo Ferri)
Filippo Maria Topi, architetto, è nato a Firenze nel 1969. Ha frequentato il Liceo Artistico sotto la guida di Mario Nuti, di cui l’artista ha un ricordo molto particolare: “Mario Nuti, che fu mio insegnante, mi colpiva con la sua maniera di porsi ad artista trasgressivo: non m’impressionava tanto per essere stato uno dei precursori dell’astrattismo Classico toscano del Dopoguerra, quanto piuttosto il suo atteggiamento di contestazione delle convenzioni, che lo faceva vedere, a me ragazzo, un vero e proprio personaggio.” Agli inizi degli anni novanta, durante un viaggio coast to coast negli Stati Uniti ha un’importante incontro con il movimento dei graffitisti, Keith Haring in particolare. Nasce così spontaneo il suo interesse per la Dripping Painting di Pollock e successivamente per gli altri Maestri dell’Action Painting, che studierà in parallelo all’architettura americana. Il suo viaggio pittorico continua con la Pop Art statunitense, Mario Schifano, per poi passare negli anni al cromatismo di Klein, il costruttivismo astratto di Berti ed infine a quella che lui definisce la scoperta ‘viscerale’ di Emilio Vedova. Nella realizzazione delle sue opere Filippo Maria Topi utilizza supporti come la tela, la carta e le lastre tipografiche con un crescente desiderio per il legno, il suo prossimo obbiettivo. Per i materiali utilizzati si va dall’olio, al bitume, l’acrilico, lo smalto e lo spray.
Hanno scritto di lui:
Le opere pittoriche di Filippo Maria Topi sono decisamente improntate a un astrattismo anarchico e variegato, dove il segno si fa aggrovigliato e imprevedibile ed il colore violento, in consonanza con i principi dell’arte gestuale. Egli, in un certo qual senso, eredita dalle correnti surrealista ed espressionista la negazione di forme e di linguaggi razionali, dipingendo secondo procedimenti puramente pittorici, tendendo, cioè, ad una libera e incontrollata espressione di sé, al di là di ogni categoria figurativa convenzionale. Topi sceglie il mezzo espressivo anche per le sue potenzialità tattili (scabra superficie pigmentata), oltre che per il suo intrinseco valore cromatico. Il suo modo iniziale di creare immagini senza il ricorso a forme riconoscibili, alla maniera che già fu di Giuseppe Capogrossi, di Hans Hartung, di Georges Mathieu, di Jean-Paul Riopelle o di Jackson Pollock, ma soprattutto con riferimenti a Vinicio Berti e al ‘gruppo’ toscano dell’Astrazione Classica, si è man mano andato declinando secondo colti citazionismi gestuali di Emilio Vedova, in un contesto culturale che comprende omaggi all’arte astratta ed a quella espressionista. Indubbia, su di lui, l’influenza (”imitazione”) iniziale del figurativo stilizzato e dal graffitismo ‘popolare’ di Keith Haring, quindi della Dripping Painting di Pollock, dove il segno viene privato di forma indotta razionalmente e di significato, e della pennellata anticonformista di Mario Schifano, poi del rigore geometrico del maestro Mario Nuti (fondatore, insieme a Bruno Brunetti, Alvaro Monnini, Gualtiero Nativi e al rammentato Vinicio Berti, del gruppo di ”Astrattismo classico”) e delle costruzioni astratte di Berti stesso. Come in queste ultime, l’impianto rigoroso di una geometria classica astratta si stempera in una grafia libera e in un’evidenza di collegamenti tra linee e piani di colore, sorta di viaggio nel relativismo spazio-temporale inteso come fase estrema dello sviluppo dell’astrazione classica nel confronto con l’incessante divenire della realtà contemporanea. (Giampaolo Trotta)
Spesso, troppo spesso, nella porzione di mondo che si configura nell’arte contemporanea, si profondono maggiori energie per l’interpretazione delle opere che nella loro creazione. Un’incomprensibile ingiustizia, mai sufficientemente denunciata, traspare dal confronto tra la semplicità dei rapidi, talvolta brevi gesti irriflessi con cui l’artista crea la sua opera e gli sforzi estremi dell’intelletto prodotti per raggiungere gli alti gradi di complessità che trasuda dalle pagine faticosamente vergate dai più dotti critici. La ragione di tale tormento risiede non solo nell’alchemico processo con cui il naturale narcisismo dell’artista si traduce nell’artificiosa vanità del critico, ma anche nell’enigmatico rapporto che da sempre collega la materia al segno. L’apice espressivo di questa misteriosa relazione è quanto mai evidente nella pittura informale in cui il segno, sopraffatto dal caso o dalla materia, pare perdere la sua funzione convenzionale di indicatore di senso, di rassicurante veicolo di un aristocratico significato. Lo smarrimento che ne deriva può indurre a frettolose considerazioni di gratuità, ma può anche essere l’occasione di un personale riscatto da consumarsi nel giocoso abbandono alla ricerca di una sola moltitudine di sensi. Filippo Maria Topi, senza appellarsi alle innegabili istanze dell’inconscio o alle ermetiche prescrizioni della critica, permette al segno di riappropriarsi di uno spazio ludico puramente estetico, liberandolo dai rigidi dettami del senso e sollevando noi, solo provvisoriamente, dall’ineluttabile dubbio dell’imbecillità. (Jacopo Antolini)
Filippo Maria Topi presenta una serie di nuovi lavori informali, che attraverso il linguaggio universale del gesto dentro la materia cerca di stimolare la sfera emotiva dei fruitori della sua opera. I dipinti, certamente equilibrati e composti nella loro vivacità cromatica, esaltano primariamente l’immediatezza di un gesto e l’esplosione istintiva, che diventano poi origine assoluta della sua azione creativa. Per questo motivo ogni suo singolo quadro risulta in bilico tra due elementi: il “graffio” e il “numero”; l’uno, “il graffio”, vuole rafforzare la predominanza della propria gestualità pittorica ed incidere profondamente un vissuto collettivo che rimanda al fruitore attraverso la pastosità della materia sulla tela; l’altro, “il numero”, che sembra affiorare da ricordi di gioventù, diviene simbolo di un ritorno all’immagine ed alla razionalità così da animare questo eterno dualismo tra emozioni e ragione che non è altro che la metafora della vita stessa. Muovendosi in questo ambito e assumendo i numeri, presenti nei quadri, come titoli degli stessi, si può dire che Filippo giunge a poter accostare una cifra ben definita, ad ogni singola emozione/azione che ha portato alla genesi di un’opera. Pertanto, paradossalmente, osservando i diversi lavori del pittore, potremmo affermare che quei numeri sono rappresentativi di quella precisa ed univoca emozione, cristallizzata nel gesto e nell’istante in cui è scaturita. (Tommaso Baldi)
Sono rimasto colpito ed affascinato sin da subito dal suo modo di esprimersi su quelle tele, di primo acchito “caotiche”, ma soltanto in seguito si può notare che tutto ha un senso ed il movimento è legato ad una logica, come l’abbinamento dei colori e della loro posizione, il tutto ha una sua prospettiva ed un suo equilibrio. Sono opere che non si possono guardare di sfuggita, meritano un attento esame per essere apprezzate fino in fondo, anche se attraggono nell’immediato grazie al loro cromatismo. La pittura, nel suo caso, non è solo colore ma materia, materia che crea una tridimensionalità unica, dove i solchi ed i grumi lasciati dall’artista non fanno altro che rafforzare il movimento del colore stesso, variandone, con giochi di luci ed ombre, l’espressività già di per sé affascinante. L’osservatore è travolto da una miriade d’informazioni ed emozioni, tanto da rapire le persone più sensibili in un vortice di pensieri, proprio come vorticosa appare la tela stessa, un andirivieni di suggestioni riportate alla realtà grazie alla presenza dei numeri. I numeri sono la parte concreta, la parte “reale” e, grazie ad essi, l’opera stessa trova il suo equilibrio, talvolta sono lievemente accennati, come una sorta di ricordo che sta svanendo, o marcati ed accentuati da un colore dominante, come a confermare la loro presenza e la loro importanza, i numeri di Filippo Maria Topi, sono i personaggi che si muovono nei suoi paesaggi e danno senso alla scena che si va a creare. (Giacomo Ferri)
12
dicembre 2009
Filippo Maria Topi – Opere recenti
Dal 12 dicembre 2009 al 06 aprile 2010
arte contemporanea
Location
CONFARTIGIANATO
Prato, Viale Montegrappa, 138, (Prato)
Prato, Viale Montegrappa, 138, (Prato)
Orario di apertura
dal lunedì al venerdì: ore 8.30-13.00 14.30-18.00 (venerdì pomeriggio solo su appuntamento)
Vernissage
12 Dicembre 2009, ore 17.30
Autore
Curatore