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Paola Paronetto – L’argilla antica e le forme della modernità
La mostra è dedicata ad un’artista che svolge da tempo la sua opera nel campo della ceramica.La sua ricerca nasce spontanea da un sentire radicato in un senso del bello che scaturisce dalla natura e dalla semplicità dei contenuti formali.
Comunicato stampa
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L'argilla gialla, grigia vive di una liquidità acquosa e informe. La immagino in qualche deposito alluvionale ai margini di un corso d'acqua, fra canne e rane. Terra e acqua. Occorre un'atmosfera particolare, occorre aria, e occorre fuoco nella giusta dose per trarre forme, per arrivare ad una rigidità che esca dal flusso del mutamento e dell'effimero e alluda ad una fissità eterna. E mi piace pensare al forno, all'interno di un forno, invisibile perfino per l'artista, segreto nel momento magico della cottura, pura fiamma e pura luce, l'unico posto in cui segretamente può compiersi il miracolo. Ma occorrono mani per plasmare, gesti accorti. Occorrono anche idee, prove, intuizioni. Incredibile corda di acrobata in cui dalla indistinta hy1e l'uomo va in bilico verso un'essenzialità fatta di misure, equilibri, definitezza di linee. Su questa corda tesa, fatta di prove, prototipi, fallimenti, mi pare muoversi la ricerca di Paola Paronetto e su questo filo mi pare abbia trovato una sicurezza invidiabile: i gesti precisi, il sorriso con cui si muove fra il forno e il deposito, fra il catalogo e gli imballaggi sanno di danza leggera, prima di tutto. Ma poi ti fai raccontare la genesi dei vasi, dei pannelli, delle forme e ti incanta il sapere, il sapere antico fatto di gradi Kelvin, di grane, ingobbi, tomi, o il sapere moderno che prova ancora, inesausto: il raku, la paper day, per esempio. Una danza sapiente, ecco cosa ci vuole per rifare al contrario il cammino di Platone, per riportare la materia alla forma, il terragno all'idea.
Un punto di arrivo è chiaro là dove sui pannelli di ceramica ecco distendersi superfici bianche, quasi traslucide, bianche sul bianco della cornice. Non più terra ma piano, spazio per l'idea. La sottile venatura nera, la macchia rossa, il cerchio e la linea sono traccia di un pensiero, sono il sovrapporsi di un ordine sulla materia dominata, amata certo, vissuta attraverso le mani, ma raffinata fino a fame spazio mentale (di una essenzialità per la quale Alessandra Santin bene ha evocato lo Zen). La dialettica è stringente, biunivoca, quasi una forma di osmosi per cui il reale smaterializzato non cessa di suggerire e il pensiero non fa che essenzializzare. Ed ecco l'incresparsi di questa superficie bianca, il suo riproporsi in onde, in ossessive piegature: una materialità che non cessa di rampollare, di ripiegarsi su di sé e alla quale l'artista non si sottrae, anzi. La ripropone ma facendone ancora una volta un luogo del pensiero: le pieghe, le crespe sono di un biancore e di una precisione tutta mentale, sono una vibrazione di spazio. L'accartocciarsi della lattuga o di qualche fiore è materia, esiste a prescindere dal suo essere forma; qui l'accartocciarsi delle pieghe è un prodotto del pensiero, si legge in una dimensione culturale che passa attraverso un linguaggio e con questo si lascia descrivere (texture, vibrazione, filigrana). E' pensiero che riflette sulla materia e la utilizza attraverso le mani dell'artista per raccontare le proprie conquiste.
Il passaggio successivo, di cui pure si rende conto in questa mostra, è il pensiero che riflette sull'umano, sul quotidiano. La fruizione, l'utilità avvilisce l'oggetto, lo condanna ad una dimensione transeunte (un bicchiere, una bottiglia, magari nel loro attimo stretto e spremuto fra l'usa e getta), un po' come avveniva per la lattuga seppure ad un livello diverso dell'esistente. All'artista il compito di salvarli e farne oggetto pensato, significante. E' questo il compito che assume tanta dell'arte contemporanea, magari nella forma dell'art design, ma la bravura di Paola Paronetto sta nel cogliere lo spirito del tempo, nell'intuire suggestioni pregnanti tanto dal mondo dell'arte quanto dal mondo quotidiano. In questo incrocio si colloca la straordinaria serie di bottiglie presentata nella mostra. Bottiglie è espressione riduttiva vista la gamma di letture che l'installazione suggerisce. Da un lato un richiamo evidente è all'arte di Morandi, alla sua ricerca intorno ad una "immobilità" degli oggetti in un tempo fuori dal nostro (ed è allusione raffinata che già basterebbe di per sé ... ). Dall'altro non sfuggirà la similitudine del tutto voluta fra le bottiglie deformate, piegate a volte su di sé, e una lunga teoria di esseri umani in movimento, un Esodo, come recita il titolo. L'oggetto, stilizzato e ripensato, si presta ad altre dinamiche concettuali, diverse dalla dialettica materia-forma di cui si è detto. Qui il discorso si gioca in una allusione nei confronti dell'idea di omologazione, massificazione, serialità, allusione subito smentita dall'impossibilità di ridurre gli oggetti-persone all'identico. Eppure la meta è unica, la fuga è concorde, l'estraneità che viene denunciata è totale, come interessante è riflettere sul gioco di spersonalizzazione che emerge prepotente da questa sequela di uomini-bottiglia. Ma la suggestione non finisce qui se appena osserviamo la superficie di questi "contenitori", se appena ci interroghiamo (o interroghiamo l' artista) sulla tecnica utilizzata. La paper day, relata refero, consiste nel saturare materiali porosi, cartone di solito, con argille liquide che finiscono per assumere la forma voluta. La cottura in forno brucia la cellulosa e rimane come per miracolo soltanto l'anima bianca di argilla in forme del tutto innaturali (lontane per intenderei da quelle ottenute con il tornio o con la modellazione a mano). Già questa ricerca di un attrito fra materiale e forma la dice lunga sulla modernità di una ricerca artistica, ma si osservi in tal senso anche la scelta nuova della superficie. Cartone, proprio quel cartone da imballaggio fatto di un'anima ondulata che è l'icona moderna meno appariscente ma più pervasiva che io conosca. Anima vuota, contenitore a perdere, metafora di una instabilità delle merci e delle persone, proprio questa texture, ritagliata e assemblata in forme volutamente provvisorie, è scelta per creare dei recipienti che viceversa dovrebbero "contenere". Un
accostamento ancora una volta innaturale, non funzionale in partenza, ma capace di una valenza simbolica forte: l'impossibilità, forse, per la modernità e per l'uomo che in essa si muove, di essere contenitore sicuro, la sua incapacità di racchiudere se stesso. Una copertura finta, nuova ed elegante ma non più sua (la maschera che pervade tutta la nostra cultura), fragile per quanto nitida, contenitore destinato a rimanere vuoto. Bottiglia non più bottiglia, cartone non più cartone, uomo non più uomo. Destinato a dire che negli elementi dei primi filosofi c'era già tutto, anche la nostra storia più recente, il nostro destino inquietante.
Paolo Venti
Un punto di arrivo è chiaro là dove sui pannelli di ceramica ecco distendersi superfici bianche, quasi traslucide, bianche sul bianco della cornice. Non più terra ma piano, spazio per l'idea. La sottile venatura nera, la macchia rossa, il cerchio e la linea sono traccia di un pensiero, sono il sovrapporsi di un ordine sulla materia dominata, amata certo, vissuta attraverso le mani, ma raffinata fino a fame spazio mentale (di una essenzialità per la quale Alessandra Santin bene ha evocato lo Zen). La dialettica è stringente, biunivoca, quasi una forma di osmosi per cui il reale smaterializzato non cessa di suggerire e il pensiero non fa che essenzializzare. Ed ecco l'incresparsi di questa superficie bianca, il suo riproporsi in onde, in ossessive piegature: una materialità che non cessa di rampollare, di ripiegarsi su di sé e alla quale l'artista non si sottrae, anzi. La ripropone ma facendone ancora una volta un luogo del pensiero: le pieghe, le crespe sono di un biancore e di una precisione tutta mentale, sono una vibrazione di spazio. L'accartocciarsi della lattuga o di qualche fiore è materia, esiste a prescindere dal suo essere forma; qui l'accartocciarsi delle pieghe è un prodotto del pensiero, si legge in una dimensione culturale che passa attraverso un linguaggio e con questo si lascia descrivere (texture, vibrazione, filigrana). E' pensiero che riflette sulla materia e la utilizza attraverso le mani dell'artista per raccontare le proprie conquiste.
Il passaggio successivo, di cui pure si rende conto in questa mostra, è il pensiero che riflette sull'umano, sul quotidiano. La fruizione, l'utilità avvilisce l'oggetto, lo condanna ad una dimensione transeunte (un bicchiere, una bottiglia, magari nel loro attimo stretto e spremuto fra l'usa e getta), un po' come avveniva per la lattuga seppure ad un livello diverso dell'esistente. All'artista il compito di salvarli e farne oggetto pensato, significante. E' questo il compito che assume tanta dell'arte contemporanea, magari nella forma dell'art design, ma la bravura di Paola Paronetto sta nel cogliere lo spirito del tempo, nell'intuire suggestioni pregnanti tanto dal mondo dell'arte quanto dal mondo quotidiano. In questo incrocio si colloca la straordinaria serie di bottiglie presentata nella mostra. Bottiglie è espressione riduttiva vista la gamma di letture che l'installazione suggerisce. Da un lato un richiamo evidente è all'arte di Morandi, alla sua ricerca intorno ad una "immobilità" degli oggetti in un tempo fuori dal nostro (ed è allusione raffinata che già basterebbe di per sé ... ). Dall'altro non sfuggirà la similitudine del tutto voluta fra le bottiglie deformate, piegate a volte su di sé, e una lunga teoria di esseri umani in movimento, un Esodo, come recita il titolo. L'oggetto, stilizzato e ripensato, si presta ad altre dinamiche concettuali, diverse dalla dialettica materia-forma di cui si è detto. Qui il discorso si gioca in una allusione nei confronti dell'idea di omologazione, massificazione, serialità, allusione subito smentita dall'impossibilità di ridurre gli oggetti-persone all'identico. Eppure la meta è unica, la fuga è concorde, l'estraneità che viene denunciata è totale, come interessante è riflettere sul gioco di spersonalizzazione che emerge prepotente da questa sequela di uomini-bottiglia. Ma la suggestione non finisce qui se appena osserviamo la superficie di questi "contenitori", se appena ci interroghiamo (o interroghiamo l' artista) sulla tecnica utilizzata. La paper day, relata refero, consiste nel saturare materiali porosi, cartone di solito, con argille liquide che finiscono per assumere la forma voluta. La cottura in forno brucia la cellulosa e rimane come per miracolo soltanto l'anima bianca di argilla in forme del tutto innaturali (lontane per intenderei da quelle ottenute con il tornio o con la modellazione a mano). Già questa ricerca di un attrito fra materiale e forma la dice lunga sulla modernità di una ricerca artistica, ma si osservi in tal senso anche la scelta nuova della superficie. Cartone, proprio quel cartone da imballaggio fatto di un'anima ondulata che è l'icona moderna meno appariscente ma più pervasiva che io conosca. Anima vuota, contenitore a perdere, metafora di una instabilità delle merci e delle persone, proprio questa texture, ritagliata e assemblata in forme volutamente provvisorie, è scelta per creare dei recipienti che viceversa dovrebbero "contenere". Un
accostamento ancora una volta innaturale, non funzionale in partenza, ma capace di una valenza simbolica forte: l'impossibilità, forse, per la modernità e per l'uomo che in essa si muove, di essere contenitore sicuro, la sua incapacità di racchiudere se stesso. Una copertura finta, nuova ed elegante ma non più sua (la maschera che pervade tutta la nostra cultura), fragile per quanto nitida, contenitore destinato a rimanere vuoto. Bottiglia non più bottiglia, cartone non più cartone, uomo non più uomo. Destinato a dire che negli elementi dei primi filosofi c'era già tutto, anche la nostra storia più recente, il nostro destino inquietante.
Paolo Venti
05
dicembre 2009
Paola Paronetto – L’argilla antica e le forme della modernità
Dal 05 al 18 dicembre 2009
arte contemporanea
Location
CENTRO CULTURALE ALDO MORO
Cordenons, Via Traversagna, 4, (Pordenone)
Cordenons, Via Traversagna, 4, (Pordenone)
Orario di apertura
martedì,venerdì,sabato e domenica 16-19
Vernissage
5 Dicembre 2009, ore 18,00
Sito web
www.paolaparonetto.comm
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