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Il giro del mondo in ottanta scatti
Attraverso ottanta fotografie di reportage, cinque artisti raccontano come uno sguardo, uno scatto, possa essere strumento capace di raccogliere e raccontare frammenti di vita e di mondo, in una caleidoscopica sequenza di esperienze e riflessioni.
Comunicato stampa
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La mostra di fotografia ospitata nelle sale della Galleria Zamenhof propone ottanta scatti di cinque diversi fotografi realizzati durante alcuni dei loro viaggi. La rassegna, oltre a descrivere alcune delle innumerevoli sfaccettature del “viaggiare”, suggerisce una riflessione sul ruolo del fotoreportage di viaggio insinuando la necessità di una maggiore considerazione di questa forma d’arte relegata spesso ad una posizione di secondo livello che, invece, acquisisce sempre più importanza per la comprensione del mondo che ci circonda.
Il titolo della rassegna è un esplicito tributo ad uno dei romanzi d’avventura e di viaggio più affascinanti di tutti i tempi: “il giro del mondo in ottanta giorni” scritto da Jules Verne. Nell’opera dello scrittore francese paesaggi, personaggi, abitudini, usanze, costumi, religioni e mezzi di trasporto cambiano da paese a paese, da nazione a nazione, da continente a continente ed in questo susseguirsi di novità si definisce sempre meglio la figura del vero viaggiatore che sa apprezzare la diversità e riportare in patria un pezzo di universo così come l’ha conosciuto, serbandolo per sempre nella sua memoria.
Gli scatti della mostra rappresentano quel frammento di universo che i cinque fotografi hanno conosciuto, amato e che, attraverso un mezzo espressivo a loro congeniale, desiderano trasmettere. Tutti insieme compongono una vasta narrazione visiva in cui si alternano scorci di paesaggi, ritratti di gente comune e familiare e particolari del quotidiano che la fotografia talvolta converte in forme astratte. Lo stretto legame fra viaggio e fotografia si individua nella comune capacità di combinare emozioni, sogni e visioni e di trasformarli in una superba esperienza di vita. In quest’epoca in cui il movimento di cose e persone è divenuto facile e a basso prezzo, in cui tutti ci spostiamo continuamente, il potenziale di eros e di poesia del “viaggiare”, l’esotico che il Phileas Fhogg di Verne ci ha fatto conoscere durante il suo precipitoso viaggio intorno al pianeta sembrano svanire, perdersi in un susseguirsi di offerte low cost e proposte last minute. Le fotografie esposte alla Galleria Zamenhof recuperano quella dimensione visionaria e sognatrice del “viaggiare”, la magia dell’incontro e la curiosità dell’ignoto. Traducono in immagini quel sentimento profondo e complesso che spinge l’uomo, da sempre, a muoversi, a “varcare la frontiera”, quell’impulso che Bruce Chatwin ha tentano di indagare in “Anatomia dell’irrequietezza” giungendo ad affermare che “siamo viaggiatori dalla nascita”. Irrimediabilmente curiosi e, per questo, destinati a vagabondare.
Degli artisti in mostra, Valentina Carrera si distingue certamente per la capacità di indagare l’animo profondo di una nazione attraverso i ritratti della sua gente sorpresa durante attimi di vita quotidiana, come avviene ne “Il bagno nella fontana” (2001) dei bambini di Belgrado, nella scena della vecchierella di Mosca ripresa “Dalla finestra della mia cucina” (1998) oppure nell’inquadratura straordinariamente lirica di “Giornata di sole” (1999) a San Pietroburgo. L’abilità della Carrera di mettere a nudo i drammi dell’umanità ed, in particolare, della ex Jugoslavia martoriata dalla guerra è evidente anche negli scatti degli edifici crivellati dai colpi di mitragliatrice, come in “Facciata mitragliata” oppure “Quel che resta del giorno”. Ogni immagine trasforma il banale del quotidiano in una scena poetica, senza tempo e luogo, in cui l’Uomo e la Natura sono gli incontrastati protagonisti di una scena universale.
Attraverso particolari e inquadrature inconsuete Federica Vairani tratteggia le abitudini ed i costumi dei paesi lontani e misteriosi che ha visitato, stimolando a riflettere, attraverso la visione delle sue fotografie, su temi cruciali ed universali quali la vita e la morte (“L’eterno riposo argentino”), la religiosità (“Sud America - sacro e profano”, “Indocina - monastero buddista”, etc.), l’efferatezza di una dittatura (“Indocina – dittatura cambogiana”), etc. . A controbilanciare l’austerità di alcuni temi, la ricerca del colore e della luminosità nelle fotografie della Vairani offre sempre uno spiraglio di speranza e di conciliazione ed invoglia l’osservatore a partire.
I lavori di Esther Grotti ruotano intorno al discorso della luce e dell’ombra, alle possibilità offerte dalla luce, ma non negate dal suo contrario, l’ombra. Nasce così l’autoritratto “Estherombra” in cui la luminosità del selciato è oscurata dalla sua figura che, nelle sue forme essenziali, trova ragione d’esistere imponendosi all’attenzione per ciò che nasconde e per il segreto che cela più che per ciò che realmente può rappresentare. Nel paesaggio “Libia” la luminosità algida del sole velato mette in risalto le figure ombrose delle rocce così come nell’immagine senza titolo della donna che prega, il bagliore delle piastrelle blu del pavimento contrasta con la figura della donna in assoluta ombra esprimendo tutta la drammaticità del suo gesto.
Gli scatti di Vittorio Graziano si concentrano sulla geometricità del paesaggio, colta in oggetti banali (la scopa e la paletta riprese a Lampedusa oppure le tendine di una casa a Salina) oppure in complesse strutture architettoniche (le griglie di un tetto della moderna Lisbona oppure i grattacieli di San Paolo fotografati attraverso il vetro in cui si intravedono animati riflessi di persone). I suoi lavori solo attraverso i titoli sembrano consentire l’individuazione della località in cui sono stati realizzati, in realtà attraverso segrete suggestioni risvegliano in chi ha visitato quei luoghi assopiti impulsi che ne consentono il riconoscimento. Così le tendine della casa di Salina (che potrebbero appartenere a qualsiasi luogo) ci fanno ripensare a quell’estate di tanti anni addietro in cui dimorando nella verde isola del Mediterraneo abbiamo letto i versi d’amore di Neruda.
Infine i lavori di Giovanni Marinelli, i suoi bianchi e neri, le forme e gli spazi, colpiscono per l’elegante sapienza compositiva. I suoi non sono mai scatti banali, sono sempre lavori di ricerca in cui l’immagine sembra estraniarsi dal contesto apparente per svelarne uno nascosto, segreto, invisibile. Così scene su cui non soffermeremmo la nostra attenzione, scorci di vie e particolari del paesaggio che ignoreremmo, grazie alle fotografie di Marinelli acquisiscono una dimensione diversa, richiamano il nostro interesse, creano in noi un’emozione che non se ne va più.
Stefano Quatrini
Il titolo della rassegna è un esplicito tributo ad uno dei romanzi d’avventura e di viaggio più affascinanti di tutti i tempi: “il giro del mondo in ottanta giorni” scritto da Jules Verne. Nell’opera dello scrittore francese paesaggi, personaggi, abitudini, usanze, costumi, religioni e mezzi di trasporto cambiano da paese a paese, da nazione a nazione, da continente a continente ed in questo susseguirsi di novità si definisce sempre meglio la figura del vero viaggiatore che sa apprezzare la diversità e riportare in patria un pezzo di universo così come l’ha conosciuto, serbandolo per sempre nella sua memoria.
Gli scatti della mostra rappresentano quel frammento di universo che i cinque fotografi hanno conosciuto, amato e che, attraverso un mezzo espressivo a loro congeniale, desiderano trasmettere. Tutti insieme compongono una vasta narrazione visiva in cui si alternano scorci di paesaggi, ritratti di gente comune e familiare e particolari del quotidiano che la fotografia talvolta converte in forme astratte. Lo stretto legame fra viaggio e fotografia si individua nella comune capacità di combinare emozioni, sogni e visioni e di trasformarli in una superba esperienza di vita. In quest’epoca in cui il movimento di cose e persone è divenuto facile e a basso prezzo, in cui tutti ci spostiamo continuamente, il potenziale di eros e di poesia del “viaggiare”, l’esotico che il Phileas Fhogg di Verne ci ha fatto conoscere durante il suo precipitoso viaggio intorno al pianeta sembrano svanire, perdersi in un susseguirsi di offerte low cost e proposte last minute. Le fotografie esposte alla Galleria Zamenhof recuperano quella dimensione visionaria e sognatrice del “viaggiare”, la magia dell’incontro e la curiosità dell’ignoto. Traducono in immagini quel sentimento profondo e complesso che spinge l’uomo, da sempre, a muoversi, a “varcare la frontiera”, quell’impulso che Bruce Chatwin ha tentano di indagare in “Anatomia dell’irrequietezza” giungendo ad affermare che “siamo viaggiatori dalla nascita”. Irrimediabilmente curiosi e, per questo, destinati a vagabondare.
Degli artisti in mostra, Valentina Carrera si distingue certamente per la capacità di indagare l’animo profondo di una nazione attraverso i ritratti della sua gente sorpresa durante attimi di vita quotidiana, come avviene ne “Il bagno nella fontana” (2001) dei bambini di Belgrado, nella scena della vecchierella di Mosca ripresa “Dalla finestra della mia cucina” (1998) oppure nell’inquadratura straordinariamente lirica di “Giornata di sole” (1999) a San Pietroburgo. L’abilità della Carrera di mettere a nudo i drammi dell’umanità ed, in particolare, della ex Jugoslavia martoriata dalla guerra è evidente anche negli scatti degli edifici crivellati dai colpi di mitragliatrice, come in “Facciata mitragliata” oppure “Quel che resta del giorno”. Ogni immagine trasforma il banale del quotidiano in una scena poetica, senza tempo e luogo, in cui l’Uomo e la Natura sono gli incontrastati protagonisti di una scena universale.
Attraverso particolari e inquadrature inconsuete Federica Vairani tratteggia le abitudini ed i costumi dei paesi lontani e misteriosi che ha visitato, stimolando a riflettere, attraverso la visione delle sue fotografie, su temi cruciali ed universali quali la vita e la morte (“L’eterno riposo argentino”), la religiosità (“Sud America - sacro e profano”, “Indocina - monastero buddista”, etc.), l’efferatezza di una dittatura (“Indocina – dittatura cambogiana”), etc. . A controbilanciare l’austerità di alcuni temi, la ricerca del colore e della luminosità nelle fotografie della Vairani offre sempre uno spiraglio di speranza e di conciliazione ed invoglia l’osservatore a partire.
I lavori di Esther Grotti ruotano intorno al discorso della luce e dell’ombra, alle possibilità offerte dalla luce, ma non negate dal suo contrario, l’ombra. Nasce così l’autoritratto “Estherombra” in cui la luminosità del selciato è oscurata dalla sua figura che, nelle sue forme essenziali, trova ragione d’esistere imponendosi all’attenzione per ciò che nasconde e per il segreto che cela più che per ciò che realmente può rappresentare. Nel paesaggio “Libia” la luminosità algida del sole velato mette in risalto le figure ombrose delle rocce così come nell’immagine senza titolo della donna che prega, il bagliore delle piastrelle blu del pavimento contrasta con la figura della donna in assoluta ombra esprimendo tutta la drammaticità del suo gesto.
Gli scatti di Vittorio Graziano si concentrano sulla geometricità del paesaggio, colta in oggetti banali (la scopa e la paletta riprese a Lampedusa oppure le tendine di una casa a Salina) oppure in complesse strutture architettoniche (le griglie di un tetto della moderna Lisbona oppure i grattacieli di San Paolo fotografati attraverso il vetro in cui si intravedono animati riflessi di persone). I suoi lavori solo attraverso i titoli sembrano consentire l’individuazione della località in cui sono stati realizzati, in realtà attraverso segrete suggestioni risvegliano in chi ha visitato quei luoghi assopiti impulsi che ne consentono il riconoscimento. Così le tendine della casa di Salina (che potrebbero appartenere a qualsiasi luogo) ci fanno ripensare a quell’estate di tanti anni addietro in cui dimorando nella verde isola del Mediterraneo abbiamo letto i versi d’amore di Neruda.
Infine i lavori di Giovanni Marinelli, i suoi bianchi e neri, le forme e gli spazi, colpiscono per l’elegante sapienza compositiva. I suoi non sono mai scatti banali, sono sempre lavori di ricerca in cui l’immagine sembra estraniarsi dal contesto apparente per svelarne uno nascosto, segreto, invisibile. Così scene su cui non soffermeremmo la nostra attenzione, scorci di vie e particolari del paesaggio che ignoreremmo, grazie alle fotografie di Marinelli acquisiscono una dimensione diversa, richiamano il nostro interesse, creano in noi un’emozione che non se ne va più.
Stefano Quatrini
18
novembre 2009
Il giro del mondo in ottanta scatti
Dal 18 novembre al 13 dicembre 2009
fotografia
Location
ZAMENHOF
Milano, Via Ludovico Lazzaro Zamenhof, 11, (Milano)
Milano, Via Ludovico Lazzaro Zamenhof, 11, (Milano)
Orario di apertura
da mercoledì a domenica ore 15-19
Vernissage
18 Novembre 2009, ore 18.30
Autore
Curatore