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Dry as dust #2
“Dry as dust” è guardare all’interno di un grande binocolo capace di ingrandire porzioni di spazio entro due piccole circonferenze, ingoiando e restituendo al cristallino immagini nitide e piacevolmente ingannevoli.
Comunicato stampa
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“Dry as dust” è un progetto nato dalla collaborazione tra Gate 21 (Catania) e Zelle Arte Contemporanea (Palermo), due realtà dal respiro internazionale, ma fortemente legate ad un sottotesto territoriale, la volontà di fornire strumenti, seppur dichiaratamente non esaustivi, per una lettura più ampia del contemporaneo nei rispettivi territori d’appartenenza.
“Dry as dust” è guardare all’interno di un grande binocolo capace di ingrandire porzioni di spazio entro due piccole circonferenze, ingoiando e restituendo al cristallino immagini nitide e piacevolmente ingannevoli.
Centimetro dopo centimetro, entro quelle piccole circonferenze, si delineano micro unità abitative capaci di contenere o allontanare, escludere o sedimentare, costruendo una geografia immaginifica descritta con piglio romantico e isolazionista.
Una sorta di grande scatola dei ricordi nella quale comprimere la vita in spazi minimi, trasformando l’immateriale in strati di polvere.
Esemplari, gli scatti realizzati in questi ultimi anni da Fabio Sgroi, una rappresentazione della vita piegata al peso delle memorie, un approccio documentaristico capace di generare un legame inscindibile ed asfissiante con un tempo cristallizzato in un infinito spettro di grigi.
Grigi che per Vito Stassi diventano layer sovrapposti di memorie di scarto, cronache insolute, atmosfere pallide, condite sapientemente da reminiscenze twinpeaksiane, documentando i margini sfocati di spazi dimenticati impressi su carta come in foto d’epoca ritrovate per caso.
Una visione assolutamente tangente all’intensa installazione di Gianni Moretti, “Le rapitrici”, dove una profonda analisi della struttura anatomica sottostante le cose si sposa con una lievissima, polverosa, indagine sulle tracce del tempo.
Un tempo, tra la vita e la morte, che Daniele Franzella sembra voler custodire gelosamente in “astucci” realizzati con estrema perizia, in grado di contenere la vita escludendola e proteggendola dall’esterno, divenendo uno scudo, simulacro delle più nobili paure.
Non distante, seppur formalmente diversa, la ricerca portata avanti da Francesco Insinga, stampe dai contrasti forti incastrano un abbraccio in un cellophane scultoreo che ha tutta la forza del marmo appena sbozzato, ad affiorare è l’amarezza di un’impossibilità, di una prigionia forzata che a volte sembra quasi proteggere preventivamente da ogni paura.
Così come nel videogioco di Antonio Pilade, dove al pubblico è offerta la possibilità di giocare con le paure dell’artista, sfiorando la morte con assoluta leggerezza.
Paure sublimate o nascoste persino a se stessi, paura del silenzio, del vuoto, come fossero indici dell’assenza di vita, spettri capaci di ricongiungerci ad un tempo vergato da continue alterazioni delle comuni logiche connettive.
In un continuo equilibrio precario dove, come afferma Lidia Tropea, il tempo si dilata e il movimento si arresta. La serie di light box “Who are you?” ad opera della stessa Tropea sdoppia l’identità ponendo l’accento su un dialogo interiore che non concede conclusioni risolutive.
Dialogo che in “Blow out / soffio”, Tiziana Contino instaura con gli sconosciuti avventori di un tram, una performance interattiva dove dei semplici palloncini hanno il compito di custodire la rabbia attraverso l’aria sospinta dai polmoni, consegnandola così a nuova vita fuori da se.
Ed è l’impossibilità di comunicare a segnare e amplificare le distanze. Citando concettualmente “Dimensions of Dialogue” e “Food” del regista ceco Jan Svankmajer, Alice Grassi, nel suo “Babel” affronta il paradosso scontrandosi con l’assenza come unica, salvifica, via di fuga.
Adriano Persiani, maestro del paradosso, attraversa il tempo in bilico tra funambolici spostamenti di senso e glaciali, spesso sarcastici, innesti da tavolo settorio. Da sempre attento all’uso dei materiali, Persiani sposa il decorativismo alla purezza di un design straniante, a-funzionale, strutturalmente lucido e ipnotico.
Sul nastro a “doppia elica” della memoria, Giuseppe Stassi e Federico Lupo, operano con scarti temporali minimi, sacrificando porzioni di memoria privata in favore di una ricostruzione storica collettiva, capace di scavare a fondo, giungendo però a ritrovamenti del tutto diversi.
Se Federico Lupo, sembra impegnarsi paradossalmente per disperdere le memorie, alterandole e falsificandole tra la polvere di una ritrattistica nobiliare piegata ad un registro popolare, ancorata ad un logorio del tempo inteso come tecnico depistaggio, Giuseppe Stassi, con l’ultimo ciclo di video, gioca con il tempo in modo ambivalente, registrando immagini d’archivio e generando meccanicamente un distacco tra il presente e un passato sempre più astratto.
Astrazione che per Claudia Gambadoro è un gioco silenzioso con un mutevole “rettangolo” di luce nell’arco di 24 ore, una finestra che si fa metafora di congiunzione tra dimensioni distanti e antitetiche attraversando un tempo della visione che si scontra con il tempo della vita.
Ancora il tempo ed in particolare un legame indissolubile con il passato, con la tradizione e i cambiamenti che investono il paesaggio è elemento portante della poetica di Sebastiano Mortellaro, in bilico tra la fragilità romantica del Sublime e quel Pittoresco, commovente, sentimento della rovina che ispira la sensazione del disfacimento delle cose prodotte dall'uomo.
Spirito che sembra pervadere la grafite e gli inchiostri, che Stefano Cumia orchestra su carte dai formati diversi, disposte ritmicamente assecondando i moti ondulatori di squarci rubati al quotidiano e interpretati con cinismo e disincanto, a tratti venati da un sarcasmo latente che sembra proporre un’ambigua chiave di lettura agli enigmi più torbidi della nostra coscienza.
“Dry as dust” è guardare all’interno di un grande binocolo capace di ingrandire porzioni di spazio entro due piccole circonferenze, ingoiando e restituendo al cristallino immagini nitide e piacevolmente ingannevoli.
Centimetro dopo centimetro, entro quelle piccole circonferenze, si delineano micro unità abitative capaci di contenere o allontanare, escludere o sedimentare, costruendo una geografia immaginifica descritta con piglio romantico e isolazionista.
Una sorta di grande scatola dei ricordi nella quale comprimere la vita in spazi minimi, trasformando l’immateriale in strati di polvere.
Esemplari, gli scatti realizzati in questi ultimi anni da Fabio Sgroi, una rappresentazione della vita piegata al peso delle memorie, un approccio documentaristico capace di generare un legame inscindibile ed asfissiante con un tempo cristallizzato in un infinito spettro di grigi.
Grigi che per Vito Stassi diventano layer sovrapposti di memorie di scarto, cronache insolute, atmosfere pallide, condite sapientemente da reminiscenze twinpeaksiane, documentando i margini sfocati di spazi dimenticati impressi su carta come in foto d’epoca ritrovate per caso.
Una visione assolutamente tangente all’intensa installazione di Gianni Moretti, “Le rapitrici”, dove una profonda analisi della struttura anatomica sottostante le cose si sposa con una lievissima, polverosa, indagine sulle tracce del tempo.
Un tempo, tra la vita e la morte, che Daniele Franzella sembra voler custodire gelosamente in “astucci” realizzati con estrema perizia, in grado di contenere la vita escludendola e proteggendola dall’esterno, divenendo uno scudo, simulacro delle più nobili paure.
Non distante, seppur formalmente diversa, la ricerca portata avanti da Francesco Insinga, stampe dai contrasti forti incastrano un abbraccio in un cellophane scultoreo che ha tutta la forza del marmo appena sbozzato, ad affiorare è l’amarezza di un’impossibilità, di una prigionia forzata che a volte sembra quasi proteggere preventivamente da ogni paura.
Così come nel videogioco di Antonio Pilade, dove al pubblico è offerta la possibilità di giocare con le paure dell’artista, sfiorando la morte con assoluta leggerezza.
Paure sublimate o nascoste persino a se stessi, paura del silenzio, del vuoto, come fossero indici dell’assenza di vita, spettri capaci di ricongiungerci ad un tempo vergato da continue alterazioni delle comuni logiche connettive.
In un continuo equilibrio precario dove, come afferma Lidia Tropea, il tempo si dilata e il movimento si arresta. La serie di light box “Who are you?” ad opera della stessa Tropea sdoppia l’identità ponendo l’accento su un dialogo interiore che non concede conclusioni risolutive.
Dialogo che in “Blow out / soffio”, Tiziana Contino instaura con gli sconosciuti avventori di un tram, una performance interattiva dove dei semplici palloncini hanno il compito di custodire la rabbia attraverso l’aria sospinta dai polmoni, consegnandola così a nuova vita fuori da se.
Ed è l’impossibilità di comunicare a segnare e amplificare le distanze. Citando concettualmente “Dimensions of Dialogue” e “Food” del regista ceco Jan Svankmajer, Alice Grassi, nel suo “Babel” affronta il paradosso scontrandosi con l’assenza come unica, salvifica, via di fuga.
Adriano Persiani, maestro del paradosso, attraversa il tempo in bilico tra funambolici spostamenti di senso e glaciali, spesso sarcastici, innesti da tavolo settorio. Da sempre attento all’uso dei materiali, Persiani sposa il decorativismo alla purezza di un design straniante, a-funzionale, strutturalmente lucido e ipnotico.
Sul nastro a “doppia elica” della memoria, Giuseppe Stassi e Federico Lupo, operano con scarti temporali minimi, sacrificando porzioni di memoria privata in favore di una ricostruzione storica collettiva, capace di scavare a fondo, giungendo però a ritrovamenti del tutto diversi.
Se Federico Lupo, sembra impegnarsi paradossalmente per disperdere le memorie, alterandole e falsificandole tra la polvere di una ritrattistica nobiliare piegata ad un registro popolare, ancorata ad un logorio del tempo inteso come tecnico depistaggio, Giuseppe Stassi, con l’ultimo ciclo di video, gioca con il tempo in modo ambivalente, registrando immagini d’archivio e generando meccanicamente un distacco tra il presente e un passato sempre più astratto.
Astrazione che per Claudia Gambadoro è un gioco silenzioso con un mutevole “rettangolo” di luce nell’arco di 24 ore, una finestra che si fa metafora di congiunzione tra dimensioni distanti e antitetiche attraversando un tempo della visione che si scontra con il tempo della vita.
Ancora il tempo ed in particolare un legame indissolubile con il passato, con la tradizione e i cambiamenti che investono il paesaggio è elemento portante della poetica di Sebastiano Mortellaro, in bilico tra la fragilità romantica del Sublime e quel Pittoresco, commovente, sentimento della rovina che ispira la sensazione del disfacimento delle cose prodotte dall'uomo.
Spirito che sembra pervadere la grafite e gli inchiostri, che Stefano Cumia orchestra su carte dai formati diversi, disposte ritmicamente assecondando i moti ondulatori di squarci rubati al quotidiano e interpretati con cinismo e disincanto, a tratti venati da un sarcasmo latente che sembra proporre un’ambigua chiave di lettura agli enigmi più torbidi della nostra coscienza.
25
settembre 2009
Dry as dust #2
Dal 25 settembre al 25 ottobre 2009
arte contemporanea
Location
ZELLE ARTE CONTEMPORANEA
Palermo, Via Matteo Bonello, 19, (Palermo)
Palermo, Via Matteo Bonello, 19, (Palermo)
Orario di apertura
ore 17-20
Vernissage
25 Settembre 2009, ore 19.00
Autore
Curatore