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Lisa Sotilis – Le figure della seduzione
Mostra dell’ artista Lisa Sotilis ideata e prodotta da Pierre Kaloussian Velissiotis e fortemente voluta dal ROF (Rossini Opera Festival) di Pesaro per festeggiare il suo trentesimo anniversario.
Comunicato stampa
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Lisa Sotilis: le figure della seduzione
di Floriano De Santi
I. L’allegoria dell’“Edipo re”
Simile a quegli uccelli che mangiano carne di volatili, Edipo – per riprendere un’espressione dai Supplici di Eschilo – si è due volte nutrito della propria carne, dapprima versando il sangue paterno, poi unendosi con il sangue materno. Egli si trova così, per una maledizione altrettanto gratuita quanto la preferenza di cui beneficiano altri eroi della leggenda, estromesso dal legame sociale, respinto fuori dall’umanità: è ormai apolis, simboleggia la figura dell’escluso. Nella sua solitudine appare insieme al di qua dell’umano, belva feroce, mostro selvaggio, e al di là dell’umano, portatore di una qualifica religiosa tremenda, come un daimon. La sua macchia, il suo agos, non è che il rovescio della potenza soprannaturale che si è concentrato in lui per perderlo: mentre è macchiato è anche sano e santo, hieros e eusebes. La luce che gli Dei hanno proiettato su Edipo è troppo abbagliante perché l’occhio mortale la possa fissare. Essa respinge Edipo dal nostro mondo, fatto per la luce del sole, per lo sguardo umano, per il contatto sociale: lo restituisce al mondo solitario della notte, dove vive Tiresia che, pure lui, ha pagato con i suoi occhi, con il dono della doppia vista, l’accesso all’altra luce, il lumen accecante e terribile del divino.
Una prima forma emblematica di gioco d’inversione la troviamo nell’Edipo re di Sofocle, dove il figlio di Laio è presentato come un cacciatore che segue le piste, che bracca e stana la fiera errante sulla montagna, con una corsa che precipita in fuga e che lo relega lontano dagli uomini. Ma in questa caccia il cacciatore si ritrova infine ad essere la selvaggina; cacciato dalla terribile maledizione dei suoi genitori, erra e mugghia come una belva, prima di trafiggersi gli occhi e fuggire sulle selvagge montagne del Citerone. Persino il suo nome si presta a questi effetti di rovesciamento: Oida, “io so”, una delle parole principi in bocca ad Edipo trionfante, ad Edipo tiranno; Pus, “il piede”, segno imposto fin dalla nascita a colui il cui destino è di finire come ha cominciato, da escluso, come la bestia selvaggia che il suo piede fa fuggire, che il suo piede isola dagli umani, nella vana speranza di sfuggire agli oracoli. Ambiguo, Edipo porta in sé lo stesso carattere enigmatico che contrassegna tutta la tragedia sofocliana, interpretando il male, senza decifrarlo, della sinistra profetessa, della Sfinge dal canto oscuro.
Questa è una strada che, nell’arte moderna e contemporanea, porta gradualmente sino al simbolo-che-non-simboleggia, che non illumina nulla di noto, che nega a sé stesso ogni possibilità di rivelazione, ma che proprio dal far coincidere l’ignoto con il vuoto, dalla sua totale a-concettualità, acquista maggior facoltà di penetrare nel profondo, nell’athanatos nous, in territori sconosciuti, che hanno percorsi, spessori, prospettive sconosciute, suscitando una catena di echi lontani, che tramite misteriose corrispondenze (tra cui quelle di Edipo, che si proclama figlio della Tyche, della Felice Sorte) risalgono sino al limine del cosciente. Da principio è il sentimento struggente dell’irrecuperabile, del bene perduto, che oltrepassa per la prima volta la soglia dell’angoscia e ne proietta la luce livida, trasfigurante, sulle nostalgiche riesumazioni classiche del mito; poi si accentua la misteriosa estraneità di quelle immagini archetipiche presenti accanto a noi nello specchio che riflette le apparenze quotidiane: immagini inattese approdate nel presente dai recessi tenebrosi della memoria.
Al pari della visione onirica di Giorgio de Chirico, nell’opera di Lisa Sotilis è facile dedurre come l’itinerario di una ricerca che ha per tema il mito, che anzi s’identifica con il mythos, più si avvicina a noi nel tempo più allontana il fuoco del suo obbiettivo. Si configura cioè come una prospettiva rovesciata le cui linee di convergenza si dirigono verso il riguardante e trovano il punto focale di congiunzione alle spalle del piano di intersezione della nostra coscienza oltrepassandone la lucida superficie riflettente. È una prospettiva che si allontana progressivamente dai Campi Elisi del mito dai quali era partita per addentrarsi fra la nebbia del noumeno e dell’inespresso, verso l’origine delle cose, in quello che Goethe nella Pandora aveva chiamato “l’oscuro regno della possibilità mescolatrice delle forme”. È una prospettiva che indica la continuità di una linea, la persistenza d’un rapporto – certo sempre più precario ed insidiato, ma forse più aperto a sollecitazioni – con i grandi archetipi mitici che si rivelano ora spogli del loro aspetto simbolico, “culturale”, che appaiono come qualcosa che insorge e si subisce nella sua barbarica imminenza.
II. Il “teatrino delle meraviglie”
Nel lavoro pittorico e scultoreo di Lisa Sotilis il mito si afferma presentando tutto il suo complesso apparato metaforico, come un enigma da indovinare, come un discorso ermetico offerto agli iniziati; o meglio ancora come un gioco letterario sull’enigma, una sua abilissima melodia, al pari nell’Edipo re della cupa cantatrice che è al contempo dipus, tripus, tetrapus. Ma le immagini dell’artista sono cariche di una vita simbolica reale che oggi ci tocca profondamente: le creature mutanti, le prospettive distorte e i piani sfuggenti che sembrano corrispondere ad una allucinata degenerazione della percezione provocano un senso di vertigine. Puntualizza nel 1967 Salvatore Quasimodo: “Sono figure che si ritrovano come ghirlande, o corolle dai petali di carne. Sulla tela o nel metallo, perfino nelle rifrangenze delle pietre preziose che proseguono il mito frastagliato della metamorfosi nelle forme ridotte dei gioielli. È la natura ellenica, l’abbandono alla stagione fiorita, alla certezza che è nel grembo di Afrodite: in Grecia dove sono le viscere dei misteri di Eleusi, l’abisso d’ansia del rituale dionisiaco, là dove ci sono la pace e la conciliazione estrema che spezza ogni nodo di buio”.
Con le tempere Il giardino di Iside del 1957 e Omaggio a Esopo dell’anno seguente la Sotilis introduce un “teatrino di meraviglie”, che il caleidoscopio delle luci e dei colori pare muovere e trasformare come nell’eterno e mai uguale ripetersi delle ore e apparire delle stelle. Le sue composizioni rimandano al concetto del cosmo: la vibrazione di una foglia al flusso della vita, l’equilibrio armonioso di un cavallo o di un nudo muliebre all’infinito bilanciarsi delle sostanze e delle energie nei fenomeni epicuriani della physis, della natura. Così, dalla magia per i bambini delle carte ritagliate che divengono le caravelle che solcano i mari della fantasia, tutti i personaggi e le cose del castello, l’artista ateniese fa nascere un linguaggio che – come quello di Alice del paese delle meraviglie – coltiva sistematicamente il non-sense della metamorfosi metafisica e surrealista: scava nel Regno dello Specchio, oltre “la luminosa nebbia d’argento”, dove tutto è capovolto. Nel bronzo Fenicottero di Alice del 1980 la Sotilis sceglie i simboli più visibili, attraverso un discorso lirico nutrito di antichi riferimenti culturali, che portano il procedimento del “gioco” al suo valore più profondo di rivelazione del vero nelle regole della finzione.
Con la sua pittura – dall’Autoritratto del 1959 ad Afrodite del 1972 e alle Due atlete del 1980 – la Sotilis mostra di voler aiutare la bambina che è ancora in lei, a tener ben fermo nel suo cuore ciò che ama e non vuole perdere: il piacere del volo fantastico, il volo nello spazio cosmico, il volo intorno all’eraclitea psyches peirata, confine dell’anima, per attraversare la strada della “favola” legata a un tempo puro e distanziante, ad una grazia intatta intessuta di realtà e simboli, che possiedono la semplicità festosa dell’infanzia insieme a una profonda spiritualità. Ma ciò che elude l’intelligibile non elude l’intuibile e consegna alla visione un reale potere suggestivo, un sospetto sottile e malinconico di attualità. Nella materia policroma di Terra di Agamennone del 1969, Tramonto a Cartagine del 1980 ed Esplosione vitale del 2008, le forme bruciano come impronte; la luce emerge piano dalle grotte, dai fondi, dagli orizzonti; ali oscure ovunque fremono, si distendono, proteggono e minacciano; a volte dagli spessori abbruniti delle nuvole nasce uno smeraldo d’aria o dalle onde dense come lava un taglio di azzurro; a volte i bruni del cielo e i bruni del mare si fondono così mirabilmente da formare una sola parete di viola.
Oltre al mito, la Sotilis e de Chirico hanno in comune proprio l’elaborazione del sogno, e l’aver intrapreso questa via non significa affatto aver aderito alla poiesis surrealista; anzi nessuno dei due si è mai riconosciuto nel movimento di Breton. Nel caso del maestro della Metafisica la causa di questo rifiuto è forse più complessa, ma rasenta, benché apoditticamente e con violenza polemica, quelle stesse motivazioni anti-programmatiche che nella Sotilis appaiono chiarissime e serenamente ragionate. Per la scultrice di Omaggio a Fidia del 2005, Poesia di Saffo del 2006 e Metamorfosi di Persefone del 2007, la dimensione del miracoloso è qualcosa che si manifesta abnormemente nell’ambito del naturale, servendosi delle sue leggi sia pure per sconvolgerle, o semplicemente capovolgerle. Il surreale è invece l’autre, un’altra realtà, ignota e allucinante, suprema ma anche sotterranea, dotata di leggi e meccanismi diversi, suoi propri, inaccessibili, oscuramente profondi. Laddove nella Sotilis non è mai l’oscurità ad annunciarne il messaggio, ma come un improvviso intensificarsi di luce; quella luce che modula il bassorilievo di bronzo dorato Autoritratto con fiori del 1975 come se fosse tessuto da un’ape: come un moto d’onda o una caduta di piuma, che continuamente debordino dall’assiologia e dall’assioma del presente.
III. La “malinconia della materia”.
Forse è vero, come scrive Walter Benjamin in Passagen-Werk, che si desidera solo ciò che si vede. Forse è vero anche che si può desiderare l’ignoto, lo sconosciuto, ciò che è altro, che questo abbia vita nella realtà visibile e palpabile o meno, nel suo essere visibile anche come pensiero, come phronesis attraverso cui si esercita un potere di seduzione. Ma l’incanto non vuol dire probabilmente attrarre? Non significa pertanto avvicinare a sé? Non lo si può negare, ma quello che il filosofo berlinese suggerisce è che tale avvicinamento è anche una distanza. Mantenere l’ousia, l’essenza della distanza, in altri termini, è quanto la seduzione esige per la percezione della bellezza o della scoperta nel processo conoscitivo dell’arte. Partendo da questo punto di vista puntualizza María Zambrano ne El sveño creador: “A cominciare di lì, finché si mantiene la tensione si vive dentro un sogno”.
Nella produzione d’oreficeria di Lisa Sotilis avvicinare vuol dire allontanare, accostare respingendo, accogliere esiliando. Si tratta di uno strano ossimoro, di un curioso paradosso che il doppio significato del termine “seduzione” dovrebbe contribuire a porre in rilievo. Poiché, se per un verso seduce ciò che attira, dall’altra parte attira ciò che porta altrove. Dunque da un lato ducere ad se: è il significato più ovvio, quello che – se assunto in termini esclusivi – cattura la seduzione, l’incatturabile stesso entro gli schemi, di un rito un po’ banale; dall’altro se(d)-ducere (l’etimologia ci richiama a questa radice, l’unica realmente corretta): condurre via, sviare, allontanare. Il movimento dell’actio in distans, così come la Sotilis lo prefigura, si sviluppa in un simile spazio, che apre e che chiude l’opera come il coro nella tragedia attica, anch’esso testimone dell’affiorare, dice Sofocle nell’Edipo re, di ciò che è nascosto, dell’inapparente.
Il lavoro fantasmatico di un’immagine non si risolve mai in un punto isolato, ma nella “dinamografia” – come ha dimostrato Warburg – della sostanza immaginativa nel suo complesso. Rispetto alla pittura e alla scultura e alle loro verificate possibilità tecniche, i colori dei gioielli della Sotilis appaiono di una qualità diversa, che non dipende da un’accelerazione di frequenza o di vibrazione, ma all’opposto da una loro improvvisa fissazione, e cioè non soltanto dal loro immedesimarsi con la durezza del metallo o della pietra, ma dal loro inserirsi in un contesto plastico-dinamico, dal loro trovarsi coinvolti in quella deflagrazione del nucleo con cui l’eidos, la forma non soltanto si espande ma si esalta a fuoco con lo spazio. Più che frammenti proiettati i colori sono lembi strappati alla realtà visiva del mondo, ricaduti nell’epicentro del fenomeno o dell’evento.
In Fleur de l’Eden del 1981 e in Danse byzantine del 1992 la Sotilis si rende conto che la kalon, la bellezza non è più quella pensata da Platone o da Plotino. Quella è letteralmente “saltata”, come la cintura di Sancho nel Don Chisciotte ha fatto esplodere quella di Venere. È saltata, definitivamente esplosa sotto la passione della materialità, che essa aveva occultato, ma che non aveva potuto sopprimere: l’urgenza della materia sensibile (aisthete), che non può essere fatta tacere, per quanto sia sottoposta a una sorta di macerazione intelligibile (noete), che finisce per generare i fantasmi, fin troppo “materiali”, che hanno tormentato e tentato sin dalle prime prove l’artista greca. Il soggetto (da Hommage à Agamennon a Hommage à Toutankhamon), preso tra questa ansia di assoluto e l’opacità del mondo, è lacerato, straniero, senza luogo, in un’epoca in cui la “freccia del tempo”, che sembra correre verso un progresso indiscutibile, si è invece definitivamente spezzata.
Quasi un secolo e mezzo fa è Flaubert che ha parlato di una “malinconia della materia”, come una sorta di substrato ontologico costitutivo del mondo: malinconia che penetra tutta di fronte alla percezione di un’inarrestabile oscillazione del mondo, che deve però essere, in qualche modo, contenuta o arrestata, perché in esso si possa avere luogo e dare alla malinconia stessa una forma. La Sotilis cerca questa traccia di consistenza, e la cerca in ciò che sembra essere più distante dalle ansie del nostro tempo, in quella ricerca del “frammento” archeologico non più come conquista, ma come “etimologia assoluta nella sua ellissi senza confini” (così, ancora una volta, l’ha suggestivamente definita Quasimodo). Il legame tra i disegni e le sculture, le pitture e gli ori è sottile. Certo, nelle collane, nelle spille, negli anelli e nei bracciali si arriva subito alla rottura della superficie bidimensionale, all’insorgere della plasticità dell’immagine. Distrutta dalla ritmica penetrante della techne incisoria, quella superficie non è del tutto annullata, rimane come un diaframma nello spazio su cui le infinite sostanze policrome e presenze luminose vengono intercettate e sistemate, come se si accendessero di un ultimo e decisivo guizzo prima di spegnersi.
05
agosto 2009
Lisa Sotilis – Le figure della seduzione
Dal 05 agosto al 10 settembre 2009
arte contemporanea
Location
SALETTA ROSSINI
Pesaro, Via Gioacchino Rossini, (Pesaro E Urbino)
Pesaro, Via Gioacchino Rossini, (Pesaro E Urbino)
Sito web
www.sotilis.com
Autore
Curatore