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Axpoa – Acromo. pittura senza colore per incidere i muri dello spirito
Nella mostra pietrasantina sono presentate quattro maniere differenti di intendere la pittura, ma unite da un sottile filo conduttore che, come è espresso nel titolo, è costituito proprio dall’assenza del colore nella sua festevole o simbolica dominante, divenendo la forma/non forma e la simbologia concettuale sottesa le protagoniste assolute delle opere.
Comunicato stampa
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Si intitola “̉ΆΧΡΟΑ – Acromo. pittura senza colore per incidere i muri dello spirito” la nuova mostra curata dal critico d’arte Giampaolo Trotta e promossa dallo STUDIO D'ARTE RIOTTO. Quattro sono gli artisti che propone e Pietrasanta è la bellissima città che li ospita, a partire dal 18 agosto, a due passi dal famosissimo centro storico, con la cattedrale medievale di San Martino e la piazza, sede di importanti mostre temporanee di scultura e di arte contemporanea. La manifestazione è organizzata dallo Studio d’Arte Riotto.
Gli artisti proposti, come si è detto, sono quattro: Giuliano Caporali, Giorgio Celiberti, Luigi petracchi, Filippo Maria Topi.
La cittadina, patria di Giosuè Carducci e di Eugenio Barsanti (inventore del motore a scoppio), ospita illustri artisti come Fernando Botero e Igor Mitoraj e con questa manifestazione vuole continuare a promuovere eventi di qualità, coerentemente con il suo illustre passato.
*****
Nella mostra pietrasantina sono presentate quattro maniere differenti di intendere la pittura, ma unite da un sottile filo conduttore che, come è espresso nel titolo, è costituito proprio dall’assenza del colore nella sua festevole o simbolica dominante, divenendo la forma/non forma e la simbologia concettuale sottesa le protagoniste assolute delle opere.
In greco, il termine áchroa, plurale neutro dell’aggettivo áchroos, vuol dire letteralmente ‘cose senza colore’, incolori, scolorite, pallide. È composto da alpha privativo e dal termine chróa, chroiá, originariamente indicante il colorito della pelle, ma anche la superficie della pelle stessa, come del resto chróma (poi, per estensione, ‘colore’). Pertanto, in un certo senso, quelle esposte a Pietrasanta sono opere (quadri e sculture) non solo prive di colore, ma anche di epidermide, ‘spellate’: al di sotto della superficie, come muri privati del proprio intonaco liscio e colorato, rivelano la vera natura, la struttura reale, simbolicamente segnata da grumi ed asperità, da graffi, lacerti e cicatrici dell’esistenza. In altre parole, disvelano la verità, non più ricoperta di suadenti colori, ma nell’assolutezza del bianco e del nero, della luce assoluta e del buio, dove non vi è posto che per la totalità del colore, summa di tutti (bianco) o loro negazione (nero). Luce e tenebre, come nella simbologia ancestrale cosmogonica. Realtà simbolica, fatta senza l’intrigante ausilio cromatico (semantico horror colorum), come solamente i grandi maestri riescono a comunicarci.
E, in effetti, di alcuni indiscussi maestri si parla, come di Giorgio Celiberti, pittore e scultore, uno dei maggiori artisti italiani viventi. Fondamentale, nel suo percorso artistico ed interiore, la visita del 1965 al Lager di Terezin, dove circa 15.000 bambini ebrei, prima di essere trucidati dai Nazisti nel corso nel 1944, lasciarono testimonianze toccanti della loro tragedia. Forse il significato più profondo dell’opera celibertiana lo ha colto Italo Calvino: “La tua pittura mi piace perché è robusta e raffinata nello stesso tempo; perché c’è dentro un senso di solidità delle cose, una soddisfazione della fisicità, un piacere nella fatica di esistere, e insieme una continua ricerca della musica che scorre tra le cose, ritmo e canto”. La pittura informale di Celiberti - soprattutto i suoi ‘muri’ ad ‘affresco’, graffiati, incisi, tormentati nel segno, le sue pareti di Terezin ricoperte di “frasi cancellate” dal tempo, di cuori, di farfalle o di lettere e buste, come carbonizzate dall’Olocausto - sono pareti interiori che, al pari di un palinsesto, raccolgono emozioni e sentimenti di un’intera esistenza: i suoi sono ‘quadri’ di vita, di amore, di libertà. Come scultore, egli imprime nella materia i segni dei suoi ‘incomprensibili’ alfabeti. Sorta di ‘Poesia Visiva’ scritta nell’anima, ecco che ricopre i cippi, le algide steli e gli obelischi della memoria, svettanti menhir dai riflessi argentei dell’allumino come grattacieli di una città lunare del futuro, di lettere e di segni come usciti alla rinfusa dal vecchio cassetto tipografico di un proto, che si dispongono seguendo un linguaggio comprensibile solamente attraverso un’emozionante vibrazione dell’anima.
Poi, Giuliano Caporali e le sue tele ‘vuote’, monocromi assoluti ancora una volta come muri, segnati da dilavature, sgocciolature, croci, parole. Muri di tela meno aspri di quelli celibertiani, superfici lisce segnate dal passaggio dell’uomo, dal suo ‘atto’ che ne storicizza l’esistenza. Colpi di bianca vernice che scardina la monotonia ordinata del monocromo del fondo, accensioni di nero su nero a disegnare gli irrazionali sentieri interiori, ‘dilavati’ da impalpabili nebbie senza colore. Intonaci evanescenti, come di ‘pietre’ fatte di aria, cromaticamente dissolventisi in toni monocromi o, come nelle opere qui esposte, acromatici, prolungamento psicologico ed emotivo della mente dell’artista stesso. Con riferimenti all’esistenza umana e all’inconscio individuale e collettivo, le sue tele hanno un riscontro estetico-formale nell’originaria matrice del monocromo novecentista lacerato, qualificato dai richiami all’astrazione italiana della seconda metà del Novecento. Sono ‘pagine’ fatte di silenzi, dove si rifrangono le luci del giorno, i bagliori dell’alba, i riflessi del tramonto e il buio della notte, le ore, le opere e i giorni. Sono il luogo del tempo e dello spazio, del tutto e del nulla, del silenzio che ‘grida’, della Storia stessa che si ‘liquefa’, del colore che si va slavando sotto un effetto meteorico tutto interiore. Finestre ‘assolute’ che si aprono sulle vertigini dello spirito.
Luigi Petracchi (l’unico a mantenere, fra i quattro artisti presentati, maggiori legami con la figurazione), con i suoi cuscini, morbidi ed angolosi ad un tempo, che raccolgono i frammenti della perfezione umana (Davide michelangiolesco o Venere classica che sia), con i suoi totem segnici e alfanumerici, con i suoi quadri materici fatti di ‘sorde’ resine incendiate di luce e di ‘sacre’ scritture e di impronte sindoniche, ha tratto dalla Storia ancestrale dell’uomo, dai meandri più profondi del suo inconscio primordiale un repertorio di segni ‘cosmogonici’, di immagini e di tecniche che poi ha personalmente rielaborato in un linguaggio decisamente ‘post-moderno’, ovvero che ha superato le barriere labili di quel presunto ed obsoleto limes tra figurativo ed informale. Le sue opere sono popolate da un universo simbolico ed ancestrale dove la mistica antica, la sapienza egiziana ed ebraica, il parlar cortese e l’iniziazione alchemica di ascendenza medievale si fondono in temi, figurazioni e soggetti dai connotati fortemente volumetrici e impalpabilmente eterei ad un tempo, nei quali il linguaggio ed il colore monocromatico di un passato - divenuto quasi atemporale per il trascorrere dei secoli - si fondono con i tratti dell’arte moderna, rinnegando la prospettiva classica. Così la favola di un tempo, disseminata di angeli e di demoni, di dame e di cavalieri, diviene metafora filosofica, teosofica ed esistanzialista del futuro dell’Umanità; collegando il passato direttamente all’avvenire, egli annulla provocatoriamente la realtà del presente ed i suoi quadri assurgono a vibrazioni filosofiche di una Classicità prossima ventura, alla ricerca di una ‘pietra filosofale’ fantascientificamente wagneriana.
Infine, Filippo Maria Topi, con le sue eruzioni gestuali, spiraliformi e caotiche di colore bianco e nero, ‘razionalizzato’ dall’inserto ‘deistico’ numerico. Come le idee si aggrovigliano, si affastellano e si confondono nella mente ‘creatrice’, per poi giungere piano piano al una chiarificazione e ad un ordine, enucleando solo alcuni concetti, così nell’apparente caos primordiale senza senso (per chi non sa vedere) mano a mano l’occhio si abitua e l’osservatore può estrapolare le matrici segniche dal vorticoso ‘magma’ che le ha ispirate e prodotte in una necessità assoluta e categorica, intellettuale e, direi, quasi fisica. Così, talvolta emergono indefinite ‘impronte’ digitali che si frammentano in sottili filamenti come nervature di foglie fossili. Ma sono i numeri - timbri o sigilli personalizzanti - gli elementi alla base di questa scrittura simbolica e ‘antropologica’, con assonanze in aderenza a quanto espresso da certa Poesia Visiva, proclami intellettualistico-simbolici più che meri saggi di estetica formale. Numeri quali forme nel ‘segreto’ dell'arte moderna. Al contrario di Ugo Nespolo, che ha fatto dei numeri e del loro dinamico groviglio uno dei soggetti privilegiati dei suoi inconfondibili e coloratissimi acrilici su legno, le tele di Topi sono razionalizzate nel loro caos proprio dall’orma (stampigliatura) del numero, matrice e base pitagorica della conoscenza e della filosofia, in grado di svelare tutti i misteri dell'Universo. ‘Idee’ e ‘forme’, magma e numeri come vera essenza del mondo nel suo divenire.
Giampaolo Trotta
Gli artisti proposti, come si è detto, sono quattro: Giuliano Caporali, Giorgio Celiberti, Luigi petracchi, Filippo Maria Topi.
La cittadina, patria di Giosuè Carducci e di Eugenio Barsanti (inventore del motore a scoppio), ospita illustri artisti come Fernando Botero e Igor Mitoraj e con questa manifestazione vuole continuare a promuovere eventi di qualità, coerentemente con il suo illustre passato.
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Nella mostra pietrasantina sono presentate quattro maniere differenti di intendere la pittura, ma unite da un sottile filo conduttore che, come è espresso nel titolo, è costituito proprio dall’assenza del colore nella sua festevole o simbolica dominante, divenendo la forma/non forma e la simbologia concettuale sottesa le protagoniste assolute delle opere.
In greco, il termine áchroa, plurale neutro dell’aggettivo áchroos, vuol dire letteralmente ‘cose senza colore’, incolori, scolorite, pallide. È composto da alpha privativo e dal termine chróa, chroiá, originariamente indicante il colorito della pelle, ma anche la superficie della pelle stessa, come del resto chróma (poi, per estensione, ‘colore’). Pertanto, in un certo senso, quelle esposte a Pietrasanta sono opere (quadri e sculture) non solo prive di colore, ma anche di epidermide, ‘spellate’: al di sotto della superficie, come muri privati del proprio intonaco liscio e colorato, rivelano la vera natura, la struttura reale, simbolicamente segnata da grumi ed asperità, da graffi, lacerti e cicatrici dell’esistenza. In altre parole, disvelano la verità, non più ricoperta di suadenti colori, ma nell’assolutezza del bianco e del nero, della luce assoluta e del buio, dove non vi è posto che per la totalità del colore, summa di tutti (bianco) o loro negazione (nero). Luce e tenebre, come nella simbologia ancestrale cosmogonica. Realtà simbolica, fatta senza l’intrigante ausilio cromatico (semantico horror colorum), come solamente i grandi maestri riescono a comunicarci.
E, in effetti, di alcuni indiscussi maestri si parla, come di Giorgio Celiberti, pittore e scultore, uno dei maggiori artisti italiani viventi. Fondamentale, nel suo percorso artistico ed interiore, la visita del 1965 al Lager di Terezin, dove circa 15.000 bambini ebrei, prima di essere trucidati dai Nazisti nel corso nel 1944, lasciarono testimonianze toccanti della loro tragedia. Forse il significato più profondo dell’opera celibertiana lo ha colto Italo Calvino: “La tua pittura mi piace perché è robusta e raffinata nello stesso tempo; perché c’è dentro un senso di solidità delle cose, una soddisfazione della fisicità, un piacere nella fatica di esistere, e insieme una continua ricerca della musica che scorre tra le cose, ritmo e canto”. La pittura informale di Celiberti - soprattutto i suoi ‘muri’ ad ‘affresco’, graffiati, incisi, tormentati nel segno, le sue pareti di Terezin ricoperte di “frasi cancellate” dal tempo, di cuori, di farfalle o di lettere e buste, come carbonizzate dall’Olocausto - sono pareti interiori che, al pari di un palinsesto, raccolgono emozioni e sentimenti di un’intera esistenza: i suoi sono ‘quadri’ di vita, di amore, di libertà. Come scultore, egli imprime nella materia i segni dei suoi ‘incomprensibili’ alfabeti. Sorta di ‘Poesia Visiva’ scritta nell’anima, ecco che ricopre i cippi, le algide steli e gli obelischi della memoria, svettanti menhir dai riflessi argentei dell’allumino come grattacieli di una città lunare del futuro, di lettere e di segni come usciti alla rinfusa dal vecchio cassetto tipografico di un proto, che si dispongono seguendo un linguaggio comprensibile solamente attraverso un’emozionante vibrazione dell’anima.
Poi, Giuliano Caporali e le sue tele ‘vuote’, monocromi assoluti ancora una volta come muri, segnati da dilavature, sgocciolature, croci, parole. Muri di tela meno aspri di quelli celibertiani, superfici lisce segnate dal passaggio dell’uomo, dal suo ‘atto’ che ne storicizza l’esistenza. Colpi di bianca vernice che scardina la monotonia ordinata del monocromo del fondo, accensioni di nero su nero a disegnare gli irrazionali sentieri interiori, ‘dilavati’ da impalpabili nebbie senza colore. Intonaci evanescenti, come di ‘pietre’ fatte di aria, cromaticamente dissolventisi in toni monocromi o, come nelle opere qui esposte, acromatici, prolungamento psicologico ed emotivo della mente dell’artista stesso. Con riferimenti all’esistenza umana e all’inconscio individuale e collettivo, le sue tele hanno un riscontro estetico-formale nell’originaria matrice del monocromo novecentista lacerato, qualificato dai richiami all’astrazione italiana della seconda metà del Novecento. Sono ‘pagine’ fatte di silenzi, dove si rifrangono le luci del giorno, i bagliori dell’alba, i riflessi del tramonto e il buio della notte, le ore, le opere e i giorni. Sono il luogo del tempo e dello spazio, del tutto e del nulla, del silenzio che ‘grida’, della Storia stessa che si ‘liquefa’, del colore che si va slavando sotto un effetto meteorico tutto interiore. Finestre ‘assolute’ che si aprono sulle vertigini dello spirito.
Luigi Petracchi (l’unico a mantenere, fra i quattro artisti presentati, maggiori legami con la figurazione), con i suoi cuscini, morbidi ed angolosi ad un tempo, che raccolgono i frammenti della perfezione umana (Davide michelangiolesco o Venere classica che sia), con i suoi totem segnici e alfanumerici, con i suoi quadri materici fatti di ‘sorde’ resine incendiate di luce e di ‘sacre’ scritture e di impronte sindoniche, ha tratto dalla Storia ancestrale dell’uomo, dai meandri più profondi del suo inconscio primordiale un repertorio di segni ‘cosmogonici’, di immagini e di tecniche che poi ha personalmente rielaborato in un linguaggio decisamente ‘post-moderno’, ovvero che ha superato le barriere labili di quel presunto ed obsoleto limes tra figurativo ed informale. Le sue opere sono popolate da un universo simbolico ed ancestrale dove la mistica antica, la sapienza egiziana ed ebraica, il parlar cortese e l’iniziazione alchemica di ascendenza medievale si fondono in temi, figurazioni e soggetti dai connotati fortemente volumetrici e impalpabilmente eterei ad un tempo, nei quali il linguaggio ed il colore monocromatico di un passato - divenuto quasi atemporale per il trascorrere dei secoli - si fondono con i tratti dell’arte moderna, rinnegando la prospettiva classica. Così la favola di un tempo, disseminata di angeli e di demoni, di dame e di cavalieri, diviene metafora filosofica, teosofica ed esistanzialista del futuro dell’Umanità; collegando il passato direttamente all’avvenire, egli annulla provocatoriamente la realtà del presente ed i suoi quadri assurgono a vibrazioni filosofiche di una Classicità prossima ventura, alla ricerca di una ‘pietra filosofale’ fantascientificamente wagneriana.
Infine, Filippo Maria Topi, con le sue eruzioni gestuali, spiraliformi e caotiche di colore bianco e nero, ‘razionalizzato’ dall’inserto ‘deistico’ numerico. Come le idee si aggrovigliano, si affastellano e si confondono nella mente ‘creatrice’, per poi giungere piano piano al una chiarificazione e ad un ordine, enucleando solo alcuni concetti, così nell’apparente caos primordiale senza senso (per chi non sa vedere) mano a mano l’occhio si abitua e l’osservatore può estrapolare le matrici segniche dal vorticoso ‘magma’ che le ha ispirate e prodotte in una necessità assoluta e categorica, intellettuale e, direi, quasi fisica. Così, talvolta emergono indefinite ‘impronte’ digitali che si frammentano in sottili filamenti come nervature di foglie fossili. Ma sono i numeri - timbri o sigilli personalizzanti - gli elementi alla base di questa scrittura simbolica e ‘antropologica’, con assonanze in aderenza a quanto espresso da certa Poesia Visiva, proclami intellettualistico-simbolici più che meri saggi di estetica formale. Numeri quali forme nel ‘segreto’ dell'arte moderna. Al contrario di Ugo Nespolo, che ha fatto dei numeri e del loro dinamico groviglio uno dei soggetti privilegiati dei suoi inconfondibili e coloratissimi acrilici su legno, le tele di Topi sono razionalizzate nel loro caos proprio dall’orma (stampigliatura) del numero, matrice e base pitagorica della conoscenza e della filosofia, in grado di svelare tutti i misteri dell'Universo. ‘Idee’ e ‘forme’, magma e numeri come vera essenza del mondo nel suo divenire.
Giampaolo Trotta
18
agosto 2009
Axpoa – Acromo. pittura senza colore per incidere i muri dello spirito
Dal 18 agosto al primo settembre 2009
arte contemporanea
Location
STUDIO D’ARTE EUGENIO RIOTTO
Pietrasanta, Viale Guglielmo Oberdan, 24, (Lucca)
Pietrasanta, Viale Guglielmo Oberdan, 24, (Lucca)
Orario di apertura
Tutti i giorni, dalle ore 16 alle 20
Vernissage
18 Agosto 2009, ore 18.30
Autore
Curatore