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Luciano Bonacini- Artist Photografer
Luciano Bonacini nasce a Scandiano (RE) nel 1954 Laureato in psicologia presso l’Università di Padova, ha dedicato la sua ricerca ed attività di fotografo all’espressione della bellezza come percezione dell’invisibile, dell’imponderabile.Ha vinto il primo premio ai concorsiThe Eu- Agfa Portrait 94.
Comunicato stampa
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IL RAMO DELLA BELLEZZA
Folgorazioni avvolte nel silenzio. Un silenzio che ha a che fare con Dio e con le rivelazioni ultime, sospeso e ingordo di bellezza come solo l’odore di eternità sa dispensare. Le opere di Luciano Bonacini sono frammenti rubati ad un sempre atavico ed ancestrale; tutto tranne fotografie, piuttosto privati cosmodromi sul mistero del vivere e del morire. Se il linguaggio dell’immagine, nella sua accezione oggi più frequentata, è spesso quello più oggettivo e spudorato del flash negli occhi, del caos rutilante, della tecnologia più esibita, qui siamo di fronte all’esatto contrario: la bellezza del dettaglio, l’unicità di un volto, a dire l’essenza dell’animo umano, sempre profondamente uguale a se stessa, eppure, ogni volta ad ogni scatto, così sorprendentemente diversa, mutevole, duttile alle rughe che increspano la pelle di un nuovo segno. Non è un caso che Luciano ami spogliare i corpi di tutto ciò che è cronaca, coincidenza, maschera, lasciando che sia la pelle a fare da voce narrante.
La pelle che, come la scorza di un albero secolare, come la buccia di un frutto, svela il tema natale di un viaggio benedetto, l’ordine superiore che governa le cose la mano ispirata di un compositore rimasto nell’ombra. Il nudo femminile è allora un paesaggio su cui scrivere e a cui chiedere, così come quelle distese mozzafiato – siano esse Kenia, Arizona o Bali, o ancora quelle animate dai giganti frondosi di Central Park – nascondono l’intimo pulasre di un umanissima essenza di un corpo antico, macerato dagli anni e dalle stagioni. Viene da sorridere guardando Luciano, abbarbicato all’obiettivo come ad un’arma di pace e di sapienza: lo si crederebbe un contadino incapace di staccarsi dalla propria terra, un pastore errante di landa in landa, un medico di anime o un guaritore. Uno che interroga il mondo con quotidiana, caparbia devozione cercando le segrete assonaze fra la terra e il cielo, il sigillo di un’alleanza perduta. E per fare questo occore mettere a tacere ogni rumore esterno, ogni interferenza: occorre trovare in se la giusta corda della meditazione profonda, la verticle dell’equilibrista sospeso sull’abisso. In ogni opera riaffora una millenaria lentezza, un tempo lasciato decantare senza fretta come un vino d’annata: è quello dell’attesa paziente e vigile del santo a cogliere il miracolo, l’apparizione di un dettaglio che sollevi l’anima dal corpo. Strane alchimie di cui oggi si è parsa la formula. Non posso fare a meno di ricordare il primo incontro con l’arte di Luciano: lei era Melanie, icona di una fisicità primitiva (animalesca) quanto regale; la sua pelle di bronzo, accesa da una luce mattutine, sembrava danzare nel nulla, come se tutto quanto intorno – quei campi della bassa, quel casolare con la sua memoria fatiscente, quella strada da carrettieri, sterrata come un’antica via carovaniera – fosse stato lì solo per abbracciarne il passaggio. Eravamo in una galleria; improvvisamente di fronte a quella manciata di scatti, nessuno dei presenti più fiatava. Non era eccitazione, nè semplice meraviglia: era una mancata commozione. Come al cospetto di un alba boreale, di una notte nel deserto o di uno scampolo di campagna senese, con il suo contrappunto di linee e colori. Come se ognuno di noi, stesse respirando il riverbero di questa vertigine. Luciano è questo, e la sua biografia sono le sue opere. Ogni gesto aggiunto non serve a dirne di più. Qui sta la sua verità, nei gesti vellutati con cui scrive, cura, si sporca le mani e i piedi; gli occhi si inumidiscono, il cuore si fa stanco e traboccante. Uno dopo l’altro questi scatti iniziano così a venire al mondo e a portare alla luce nicchie insospettate. Donne, soprattutto, ma anche squarci di mondo, frammenti di destini stesi e mancati, briciole di assoluto: inni alla vita che da soli dicono più di qualsiasi commento. Siano allora quester parole (inutili e affettuose , come solo la scrittura sa essere) niente di più di una restituzione una carezza sul cuore tracciata in punta di pennino, come un arabesco.
Elide Bergamaschi
Folgorazioni avvolte nel silenzio. Un silenzio che ha a che fare con Dio e con le rivelazioni ultime, sospeso e ingordo di bellezza come solo l’odore di eternità sa dispensare. Le opere di Luciano Bonacini sono frammenti rubati ad un sempre atavico ed ancestrale; tutto tranne fotografie, piuttosto privati cosmodromi sul mistero del vivere e del morire. Se il linguaggio dell’immagine, nella sua accezione oggi più frequentata, è spesso quello più oggettivo e spudorato del flash negli occhi, del caos rutilante, della tecnologia più esibita, qui siamo di fronte all’esatto contrario: la bellezza del dettaglio, l’unicità di un volto, a dire l’essenza dell’animo umano, sempre profondamente uguale a se stessa, eppure, ogni volta ad ogni scatto, così sorprendentemente diversa, mutevole, duttile alle rughe che increspano la pelle di un nuovo segno. Non è un caso che Luciano ami spogliare i corpi di tutto ciò che è cronaca, coincidenza, maschera, lasciando che sia la pelle a fare da voce narrante.
La pelle che, come la scorza di un albero secolare, come la buccia di un frutto, svela il tema natale di un viaggio benedetto, l’ordine superiore che governa le cose la mano ispirata di un compositore rimasto nell’ombra. Il nudo femminile è allora un paesaggio su cui scrivere e a cui chiedere, così come quelle distese mozzafiato – siano esse Kenia, Arizona o Bali, o ancora quelle animate dai giganti frondosi di Central Park – nascondono l’intimo pulasre di un umanissima essenza di un corpo antico, macerato dagli anni e dalle stagioni. Viene da sorridere guardando Luciano, abbarbicato all’obiettivo come ad un’arma di pace e di sapienza: lo si crederebbe un contadino incapace di staccarsi dalla propria terra, un pastore errante di landa in landa, un medico di anime o un guaritore. Uno che interroga il mondo con quotidiana, caparbia devozione cercando le segrete assonaze fra la terra e il cielo, il sigillo di un’alleanza perduta. E per fare questo occore mettere a tacere ogni rumore esterno, ogni interferenza: occorre trovare in se la giusta corda della meditazione profonda, la verticle dell’equilibrista sospeso sull’abisso. In ogni opera riaffora una millenaria lentezza, un tempo lasciato decantare senza fretta come un vino d’annata: è quello dell’attesa paziente e vigile del santo a cogliere il miracolo, l’apparizione di un dettaglio che sollevi l’anima dal corpo. Strane alchimie di cui oggi si è parsa la formula. Non posso fare a meno di ricordare il primo incontro con l’arte di Luciano: lei era Melanie, icona di una fisicità primitiva (animalesca) quanto regale; la sua pelle di bronzo, accesa da una luce mattutine, sembrava danzare nel nulla, come se tutto quanto intorno – quei campi della bassa, quel casolare con la sua memoria fatiscente, quella strada da carrettieri, sterrata come un’antica via carovaniera – fosse stato lì solo per abbracciarne il passaggio. Eravamo in una galleria; improvvisamente di fronte a quella manciata di scatti, nessuno dei presenti più fiatava. Non era eccitazione, nè semplice meraviglia: era una mancata commozione. Come al cospetto di un alba boreale, di una notte nel deserto o di uno scampolo di campagna senese, con il suo contrappunto di linee e colori. Come se ognuno di noi, stesse respirando il riverbero di questa vertigine. Luciano è questo, e la sua biografia sono le sue opere. Ogni gesto aggiunto non serve a dirne di più. Qui sta la sua verità, nei gesti vellutati con cui scrive, cura, si sporca le mani e i piedi; gli occhi si inumidiscono, il cuore si fa stanco e traboccante. Uno dopo l’altro questi scatti iniziano così a venire al mondo e a portare alla luce nicchie insospettate. Donne, soprattutto, ma anche squarci di mondo, frammenti di destini stesi e mancati, briciole di assoluto: inni alla vita che da soli dicono più di qualsiasi commento. Siano allora quester parole (inutili e affettuose , come solo la scrittura sa essere) niente di più di una restituzione una carezza sul cuore tracciata in punta di pennino, come un arabesco.
Elide Bergamaschi
28
febbraio 2009
Luciano Bonacini- Artist Photografer
Dal 28 febbraio al 15 marzo 2009
fotografia
Location
SPAZIO 6
Verona, Via Santa Maria In Organo, 6, (Verona)
Verona, Via Santa Maria In Organo, 6, (Verona)
Orario di apertura
da martedì a Domenica ore 16,30-19,30
Vernissage
28 Febbraio 2009, ore 18,00
Autore
Curatore