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Francesco Attolini – Io sono tutte le persone che ho incontrato
Video arte in mostra, un viaggio attraverso il concetto di identità nei volti degli altri: flussi di memorie, emozioni danzanti, condizioni di passaggio…
Comunicato stampa
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Testi di Andrea Sartori
Io sono tutte le persone che ho incontrato
Dell’identità non si può fare a meno, sebbene essa possa anche apparire un atto – ora sottile, ora marcato – di violenza.
Se da un lato non si può essere se stessi, senza avere la coscienza di una certezza intima, dall’altro lato identifichiamo chi ci sta accanto apponendogli sulla fronte un marchio di riconoscimento, che ne fissa e ne costringe univocamente, come un pregiudizio, o un’etichetta, le potenzialità visibili ed invisibili.
Il «chi» dell’identità è tanto necessario quanto fastidioso:
un limite, ma anche una condizione per esercitare la propria libertà, la consapevolezza di sé. Lo sguardo esercitato dal video-artista Francesco Attolini negli ultimi nove anni, sembra sciogliere con naturale leggerezza il peso di questa contraddizione, nella quale l’identità del «sé» adombra anche istanze nascoste ed in- quietanti, da cui altri sguardi, altre riprese, si fanno all’opposto suggestionare.
Quella di Attolini, non è d’altro canto una semplice rimozione del lato oscuro che contrappunta i processi di identificazione, ma una gestualità visiva che rovescia i chiaroscuri nel ritmo delle immagini, nella linearità dinamica delle superfici.
Egli, con le sue opere, vuole dirci esattamente questo: «io sono tutte le persone che ho incontrato», nulla di più, ma neppure nulla di meno.
Nei volti dell’altro, Attolini disperde il proprio volto, e nei luoghi più lontani egli ritrova inaspettatamente se stesso. Come in una carezza o in un sorriso del tutto inattesi, a viso aperto, senza intenzioni oblique, che dall’identificazione levino il sospetto del sopruso, della barriera, dell’osta- colo.
Il ricorso a primi piani, a partire da quelli dei Selfpotraits, indica la volontà di fissare i volti senza catturarli in schemi predefiniti, cogliendoli in un faccia a faccia senza filtri. Nel- le relazioni di prossimità, oltre a quanto tradisce il naturale pudore, non c’è nulla da nascondere. Respect è allora l’unico vincolo delle relazioni dirette in cui si strutturano le identità degli individui: un vincolo etico, non una coartazione.
Un vincolo universale quanto un semplice respiro, eppure altrettanto fondamentale. Il tema ricorrente del bacio – Kissik, ma anche The first Kiss – richiama appunto la necessità di uno stile che non ha bisogno di sovrastrutture concettose, men che meno d’insondabili ed oscuri abissi, per accedere alla purezza del propria esecuzione. I volti che si susseguono in Gli angeli di San Pietroburgo, alter- nati ad immagini di vita quotidiana, stanno tutti anch’essi nella luminosità della loro forma, quasi fossero dei chiari di luce nel bel mezzo di un accidentato tracciato urbano. Il rapporto con la città, con i luoghi, è l’altro aspetto di un’identità che scaturisce dall’incontro, essendo la trama cittadina – anche disabitata, come in Paesi fantasma – lo spazio in cui le identità si guardano, si toccano, comunicano, fino al punto di trasfigurarsi l’una nell’altra, l’una dentro l’altra – Estetica della disparizione. L’identità vive allora grazie al proprio essere un crocevia da sempre con- segnato ad una Condizione di passaggio, ad una caducità inafferrabile, ben resa dallo sguardo acceso sui quotidiani spostamenti di un uomo in metropolitana. O sulle figure intermittenti, come disturbate dalle luci di un neon guasto, di Benedetta’s pig. O ancora sugli entusiasmi di un gruppo di attori e registi che, discutendo delle proprie vite fuori sede, trapassano l’uno nei progetti dell’altro, l’uno nei film dell’altro, come in Bruxelles. Il posto dell’anima. Il volto e la città parlano entrambi, accogliendo in vario modo gli individui, d’una volontà di comunicare, di esprimere, di lasciare una traccia, un segno: il che accade all’uomo possibile, anzi, «esistibile», di 27, che scrive la sua città nei passaggi comuni di un edificio di periferia, portando l’intelligibilità del senso, e la varietà dei colori, là dove sembra esserci solo un rugginoso e malinconico grigiore. La traccia lungo la quale l’identità insegue se stessa, senza rassegnarsi a sopprimere il proprio poter-essere, è d’altra parte non solo traccia scritta, ma anche vocale, fonica, come quella lasciata nella gracchiante segreteria telefonica di Fine messaggi.
L’identità caleidoscopica dell’io non potrebbe tenersi insieme, essere un racconto unitario, se non si distendesse lungo una storia, tra eventi individuali e collettivi, lieti e tragici, componendo la distensione della memoria e degli anni. Una memoria, in questo caso, sportiva e giocosa, sebbene colta in contesti diversi: quello dell’Autodromo Internazionale Enzo e Dino Ferrari di Imola – Imola Mon Amour – e quello, agro e tragico, degli orrori dello stadio di Sarajevo – Sarajevo Stadion Balkanika. Anche quando tocca il tema della guerra, lo sguardo di Attolini non dismette le sue peculiarità, e non cessa di essere simile a quello del bambino rom di Ciao mistèr, che nel campo nomadi alle porte di Bari, per i suoi sentieri polverosi, esercita la propria curiosità.
Un luogo, il campo nomadi, che accoglie ma anche limita il «sé» del bambino, identificandolo come «altro» dal cittadino integrato, senza però poterlo privare della gioia di giocare a palla, e d’interrogarsi sorridente su chi incontra.
BIOGRAFIA
Francesco Attolini, artista, video maker e scenografo, vive e lavora tra Milano e San Pietroburgo da 5 anni. Dal 1998 al 2003 è a Bruxelles, dove si forma artisticamente all’Academie Rojal de Beaux Arts. Dopo la borsa Erasmus, frequenta un master in teorie e pratiche dell’audiovisivo, e si laurea a Bari in Scenografia nel 2000. Tornato a Bruxelles, vince lo stage in Commissione Europea per il progetto MEDIA PLUS, e realizza le prime opere video, tra le quali spicca “FINE MESSAGGI”, presentato in occasione dell’ EXPO Acà, sempre nel 2000. Ora è responsabile ed ideatore del Norman MediaLab, e da maggio 2007 creative director di Mandarino, house horgan del Gruppo Norman, oltre che responsabile dell’Osservatorio Brain (OB) di San Pietroburgo dal 2007. Apprezzato dalla critica internazionale per aver vinto il Festival di Torino, premio Luci di Brindisi con il video “Ciao Mistèr” nel 2002. Sempre con “Ciao Mistèr” vince nel 2003 il premio Tele + Grigio e Canal Plus, e nel 2004 il premio della critica al Festival dei Corti di Bari, “Città Plurale”. 2005 è l’anno della consacrazione a Milano dove espone 3 opere video nella metropolitana di Milano nell’ambito della mostra d’arte Galleria in Galleria diretta da Giacinto di Pietrantonio. Sempre nel 2005 con il Museo d’arte Paolo Pini partecipa al MIART con l’opera MappeRotte. Tra il novembre 2005 e il febbraio 2006 espone alla Triennale di Milano l’opera video 27. Nel 2007 e nel 2008 vince per due anni di fila il festival d’arte internazionale d’arte di San Pietroburgo “Master class” con le opere video “Balkanika” e “Gli angeli di San Pietroburgo”. Balkanika viene selezionata anche nell’ambito di PARATISSIMA 2007. Nell’ottobre del 2008 espone nell’ambito del progetto “stopbreatherespect” l’opera immobility con l’artista Fabio Pietrantonio. L’opera di Attolini è quotata ora dall’azienda leader nel settore delle istituzioni artistiche europee Haunce of Venison, membro a sua volta di Christie. Sempre nel 2008 con Gli angeli di San Pietroburgo partecipa ancora a PARATISSIMA.
Io sono tutte le persone che ho incontrato
Dell’identità non si può fare a meno, sebbene essa possa anche apparire un atto – ora sottile, ora marcato – di violenza.
Se da un lato non si può essere se stessi, senza avere la coscienza di una certezza intima, dall’altro lato identifichiamo chi ci sta accanto apponendogli sulla fronte un marchio di riconoscimento, che ne fissa e ne costringe univocamente, come un pregiudizio, o un’etichetta, le potenzialità visibili ed invisibili.
Il «chi» dell’identità è tanto necessario quanto fastidioso:
un limite, ma anche una condizione per esercitare la propria libertà, la consapevolezza di sé. Lo sguardo esercitato dal video-artista Francesco Attolini negli ultimi nove anni, sembra sciogliere con naturale leggerezza il peso di questa contraddizione, nella quale l’identità del «sé» adombra anche istanze nascoste ed in- quietanti, da cui altri sguardi, altre riprese, si fanno all’opposto suggestionare.
Quella di Attolini, non è d’altro canto una semplice rimozione del lato oscuro che contrappunta i processi di identificazione, ma una gestualità visiva che rovescia i chiaroscuri nel ritmo delle immagini, nella linearità dinamica delle superfici.
Egli, con le sue opere, vuole dirci esattamente questo: «io sono tutte le persone che ho incontrato», nulla di più, ma neppure nulla di meno.
Nei volti dell’altro, Attolini disperde il proprio volto, e nei luoghi più lontani egli ritrova inaspettatamente se stesso. Come in una carezza o in un sorriso del tutto inattesi, a viso aperto, senza intenzioni oblique, che dall’identificazione levino il sospetto del sopruso, della barriera, dell’osta- colo.
Il ricorso a primi piani, a partire da quelli dei Selfpotraits, indica la volontà di fissare i volti senza catturarli in schemi predefiniti, cogliendoli in un faccia a faccia senza filtri. Nel- le relazioni di prossimità, oltre a quanto tradisce il naturale pudore, non c’è nulla da nascondere. Respect è allora l’unico vincolo delle relazioni dirette in cui si strutturano le identità degli individui: un vincolo etico, non una coartazione.
Un vincolo universale quanto un semplice respiro, eppure altrettanto fondamentale. Il tema ricorrente del bacio – Kissik, ma anche The first Kiss – richiama appunto la necessità di uno stile che non ha bisogno di sovrastrutture concettose, men che meno d’insondabili ed oscuri abissi, per accedere alla purezza del propria esecuzione. I volti che si susseguono in Gli angeli di San Pietroburgo, alter- nati ad immagini di vita quotidiana, stanno tutti anch’essi nella luminosità della loro forma, quasi fossero dei chiari di luce nel bel mezzo di un accidentato tracciato urbano. Il rapporto con la città, con i luoghi, è l’altro aspetto di un’identità che scaturisce dall’incontro, essendo la trama cittadina – anche disabitata, come in Paesi fantasma – lo spazio in cui le identità si guardano, si toccano, comunicano, fino al punto di trasfigurarsi l’una nell’altra, l’una dentro l’altra – Estetica della disparizione. L’identità vive allora grazie al proprio essere un crocevia da sempre con- segnato ad una Condizione di passaggio, ad una caducità inafferrabile, ben resa dallo sguardo acceso sui quotidiani spostamenti di un uomo in metropolitana. O sulle figure intermittenti, come disturbate dalle luci di un neon guasto, di Benedetta’s pig. O ancora sugli entusiasmi di un gruppo di attori e registi che, discutendo delle proprie vite fuori sede, trapassano l’uno nei progetti dell’altro, l’uno nei film dell’altro, come in Bruxelles. Il posto dell’anima. Il volto e la città parlano entrambi, accogliendo in vario modo gli individui, d’una volontà di comunicare, di esprimere, di lasciare una traccia, un segno: il che accade all’uomo possibile, anzi, «esistibile», di 27, che scrive la sua città nei passaggi comuni di un edificio di periferia, portando l’intelligibilità del senso, e la varietà dei colori, là dove sembra esserci solo un rugginoso e malinconico grigiore. La traccia lungo la quale l’identità insegue se stessa, senza rassegnarsi a sopprimere il proprio poter-essere, è d’altra parte non solo traccia scritta, ma anche vocale, fonica, come quella lasciata nella gracchiante segreteria telefonica di Fine messaggi.
L’identità caleidoscopica dell’io non potrebbe tenersi insieme, essere un racconto unitario, se non si distendesse lungo una storia, tra eventi individuali e collettivi, lieti e tragici, componendo la distensione della memoria e degli anni. Una memoria, in questo caso, sportiva e giocosa, sebbene colta in contesti diversi: quello dell’Autodromo Internazionale Enzo e Dino Ferrari di Imola – Imola Mon Amour – e quello, agro e tragico, degli orrori dello stadio di Sarajevo – Sarajevo Stadion Balkanika. Anche quando tocca il tema della guerra, lo sguardo di Attolini non dismette le sue peculiarità, e non cessa di essere simile a quello del bambino rom di Ciao mistèr, che nel campo nomadi alle porte di Bari, per i suoi sentieri polverosi, esercita la propria curiosità.
Un luogo, il campo nomadi, che accoglie ma anche limita il «sé» del bambino, identificandolo come «altro» dal cittadino integrato, senza però poterlo privare della gioia di giocare a palla, e d’interrogarsi sorridente su chi incontra.
BIOGRAFIA
Francesco Attolini, artista, video maker e scenografo, vive e lavora tra Milano e San Pietroburgo da 5 anni. Dal 1998 al 2003 è a Bruxelles, dove si forma artisticamente all’Academie Rojal de Beaux Arts. Dopo la borsa Erasmus, frequenta un master in teorie e pratiche dell’audiovisivo, e si laurea a Bari in Scenografia nel 2000. Tornato a Bruxelles, vince lo stage in Commissione Europea per il progetto MEDIA PLUS, e realizza le prime opere video, tra le quali spicca “FINE MESSAGGI”, presentato in occasione dell’ EXPO Acà, sempre nel 2000. Ora è responsabile ed ideatore del Norman MediaLab, e da maggio 2007 creative director di Mandarino, house horgan del Gruppo Norman, oltre che responsabile dell’Osservatorio Brain (OB) di San Pietroburgo dal 2007. Apprezzato dalla critica internazionale per aver vinto il Festival di Torino, premio Luci di Brindisi con il video “Ciao Mistèr” nel 2002. Sempre con “Ciao Mistèr” vince nel 2003 il premio Tele + Grigio e Canal Plus, e nel 2004 il premio della critica al Festival dei Corti di Bari, “Città Plurale”. 2005 è l’anno della consacrazione a Milano dove espone 3 opere video nella metropolitana di Milano nell’ambito della mostra d’arte Galleria in Galleria diretta da Giacinto di Pietrantonio. Sempre nel 2005 con il Museo d’arte Paolo Pini partecipa al MIART con l’opera MappeRotte. Tra il novembre 2005 e il febbraio 2006 espone alla Triennale di Milano l’opera video 27. Nel 2007 e nel 2008 vince per due anni di fila il festival d’arte internazionale d’arte di San Pietroburgo “Master class” con le opere video “Balkanika” e “Gli angeli di San Pietroburgo”. Balkanika viene selezionata anche nell’ambito di PARATISSIMA 2007. Nell’ottobre del 2008 espone nell’ambito del progetto “stopbreatherespect” l’opera immobility con l’artista Fabio Pietrantonio. L’opera di Attolini è quotata ora dall’azienda leader nel settore delle istituzioni artistiche europee Haunce of Venison, membro a sua volta di Christie. Sempre nel 2008 con Gli angeli di San Pietroburgo partecipa ancora a PARATISSIMA.
24
gennaio 2009
Francesco Attolini – Io sono tutte le persone che ho incontrato
Dal 24 gennaio al 02 febbraio 2009
arte contemporanea
Location
GALLERIA SAN LORENZO
Milano, Via Giuseppe Sirtori, 31, (Milano)
Milano, Via Giuseppe Sirtori, 31, (Milano)
Orario di apertura
da lunedì a sabato ore 15 - 19
Vernissage
24 Gennaio 2009, ore 18
Autore