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Arturo Patten – In fondo agli occhi
Ritratti in bianco e nero di siciliani impegnati nel mondo della cultura e dell’arte che il fotografo americano ritrasse negli anni Novanta
Comunicato stampa
Segnala l'evento
CURATORI: Sebastiano FAVITTA, favitta.sebastiano@tiscali.it Attilio GERBINO, attiliogerbino@libero.it.
APPARATO CRITICO: Marina BENEDETTO, Piero CARBONE, Nicolò D’ALESSANDRO, Angelo DI GARBO, Claudio FAVA, Sebastiano FAVITTA, Gianluca FIUSCO, Attilio GERBINO, Jérôme Godeau, Pippo PAPPALARDO, Angelo PITRONE e Antonio TABUCCHI.
COORDINAMENTO, ALLESTIMENTO E GRAFICA: Sebastiano FAVITTA e Attilio GERBINO
TRADUZIONI: Vera VERDIANI
RINGRAZIAMENTI: Edith de la HÉRONNIÈRE, IMEC - Institut Mémoire de l’Édition Contemporaine di Caen e gli amici dell’ Association “Arturo Patten” PARIGI
La Galleria Fotografica Luigi Ghirri di Caltagirone CT, impegnata da circa un decennio nella diffusione della cultura fotografica in Sicilia, in sinergia e col sostegno del Servizio Cristiano – Istituto Valdese di Riesi – e la curatela di Sebastiano FAVITTA e Attilio GERBINO, presenta la mostra:
In FONDO agli OCCHI
Fotografie di ARTURO PATTEN
Dopo le esposizioni di Garches, Vézelay, Caen, Agrigento, Parma, Modica, Palermo, Aix-en-Provence, Genova, Marsiglia e Grenoble sono presenti a Riesi, nello spazio della ex Scuola meccanica del Villaggio Valdese – prestigiosa architettura organica di Leonardo Ricci –, i ritratti in bianco e nero di siciliani impegnati nel mondo della cultura e dell’arte che il fotografo americano Arturo Patten ritrasse negli anni novanta. Le trentaquattro immagini in mostra provengono dall’IMEC – l’Institut Mémoire de l’Édition Contemporaine di Caen, in Francia – grazie alla sensibilità e la grande disponibilità di Edith de la Héronnière, la scrittrice e filosofa francese, legata al fotografo da profonda amicizia.
La mostra, ideata nel 2004 dal Centro culturale Pier Paolo Pasolini di Agrigento, presenta al pubblico la produzione tarda del fotografo americano che, in questa ricerca, esprime una notevole sensibilità artistica attraverso la scelta di anteporre, nella maggior parte delle trentaquattro immagini, i volti paradigmatici di questi siciliani allo sfondo scuro che, ritagliandone nettamente i contorni – quasi un poetico e suggestivo omaggio agli intriganti ritratti di Antonello da Messina –, fa convergere l’attenzione dell’osservatore sui dettagli e sulla profonda intensità di questi sguardi.
“Sono siciliano” era solito ripetere Patten, il grande fotografo ritrattista nato in California nel 1939, amico dello scrittore americano Russel Banks e del regista Federico Fellini. Dopo l’esordio come attore presso l’Actor’s Studio di New York, a ventinove anni lascia gli Stati Uniti per trasferirsi in Europa e da qui comincia a viaggiare per il mondo fermandosi anche in India, quindi in Francia e, dal 1970, a Roma. Scoperta tardi la passione per la fotografia ed in particolare per il ritratto, studiato traendo ispirazione dal taglio e dalle pose tipiche della pittura rinascimentale italiana, Arturo Patten pubblica regolarmente le sue foto, tra gli altri, sul quotidiano francese Le Monde e sugli italiani La Repubblica e Il Messaggero prima che i suoi reportage, vere istantanee sui quartieri popolari di Roma o di piccole città italiane e americane, vengano riconosciuti e apprezzati.
Se nei suoi ritratti, il fotografo americano, evidenzia un forte richiamo alla scrittura di Marguerite Yourcenar e alla cinematografia del regista russo Andreij Tarkovskij, di lui Salvatore Silvano Nigro – uno dei soggetti ritratti in mostra, docente di letteratura italiana moderna e contemporanea alla Scuola Normale di Pisa – ha detto “Come fotografo, Patten era improvvisato, non apparteneva a nessuna scuola: lui la foto se l'è inventata".
Purtroppo nel marzo del 1999 Arturo Patten decide di togliersi la vita ad Agrigento.
Oggi le sue spoglie riposano nella nuda terra del piccolo cimitero di Montaperto.
I suoi archivi sono conservati nell’abbazia d’Ardenne in Normandia – sede dell’IMEC l’Institut Mémoires de l’Edition Contemporaine – e nelle collezioni della Bibliothèque Nationale de France a Parigi.
Sebastiano FAVITTA e Attilio GERBINO
Marina BENEDETTO: L’invisibile oltre gli occhi: la ricerca metafisica di Arturo Patten
Non più ottico ma spacciatore di lenti
per improvvisare occhi contenti,
perché le pupille abituate a copiare
inventino i mondi sui quali guardare.
Seguite con me questi occhi sognare,
fuggire dall'orbita e non voler ritornare.
Fabrizio DE ANDRÈ, Un ottico, 1971
Che si tratti di pittura, fotografia, letteratura o musica, una comune matrice lega la scelta artistica di coloro che, anime capaci di cogliere la realtà oltre la soglia dell’apparenza, indagano l’essenza dell’Esistere attraverso la cifra stilistica del ritratto: Edgar Lee Masters, ai primi del Novecento, nell’Antologia di Spoon River rese immortali una serie di anonimi cittadini dell’oscura provincia americana, Fabrizio De Andrè diede loro sonorità espressiva, parallelamente il fotografo americano Arturo Patten, nel suo celebre reportage “Patten a Patten”, percorreva strade parallele nel nord est americano, ritraendo una sfilata di analogamente comuni e ignoti cittadini del Maine. Americani, Lee Masters e Patten, italiano De Andrè, ma idealmente vicino a Patten nella scelta di chiudere la propria vita in un’isola del Meridione italiano. Epoche e culture disomogenee fra loro, eppure unite dall’urgenza di fotografare – in versi, in musica o attraverso un obiettivo – una sfilata di personaggi dei quali altrimenti alcuno avrebbe serbato memoria, degni di passare alla storia per la semplice carica umana che essi custodivano in sé.
Arturo Patten consacra la sua opera di artista a questa instancabile ricerca di volti da suggellare in posa: in uno scatto, capace di evocare la parabola esistenziale dei soggetti, tenta un’indagine che varca la conoscenza sensibile e ne abbozza il ritratto interiore. Per giungere a ciò, egli non utilizza né parole né musica, bensì il mezzo a lui congeniale, la macchina fotografica, e lo fa nel senso più ancestrale del termine, quello di “scrivere con la luce”. Traccia così la storia di un’umanità composita, sconosciuti americani, romani, oppure, per antinomia, approdato in Sicilia ritrae celebri personalità in qualche modo legate all’Isola.
La tecnica privilegiata è sempre il bianco e nero, nella direzione di chi, eliminando il colore e i suoi compromessi di suggestioni empatiche, è costretto a intuire ciò che si cela dietro le illusioni. Il soggetto si delinea netto nel contrasto sapiente di luci ed ombre, e Patten conduce il nostro sguardo dove il suo intento ha deciso di guidarlo: allo scandaglio dell’anima colta al di là dello sguardo.
Ma tutto sta nel viso, e nel viso, gli occhi hanno un ruolo di primo piano (…) i gesti infatti significano l’animo e il volto è l’immagine dell’anima, gli occhi ne sono le spie: questa è l’unica parte del corpo che possa assumere tanti atteggiamenti diversi, quanti i moti dell’animo. Attraverso gli occhi, guardando fisso o con dolcezza, minacciosamente o con gioia, esprimiamo i sentimenti dell’animo, in maniera conforme al tenore del discorso. La natura ci diede gli occhi per significare i nostri stati d’animo, per cui, nel gestire, dopo la voce conta il volto ed esso è dominato dagli occhi.
CICERONE, De Oratore, III, 221-223
La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tua tenebra!
Vangelo di MATTEO, 6, 22-23
Questa intuizione si fa strada già agli albori della nostra cultura: l’occhio è percepito come tramite diretto al cuore umano, come il meno carnale fra gli organi di senso, nobilitato dalla sua capacità di lasciar trapelare sentimenti dell’animo. Conquistato da questa consapevolezza, Patten anno dopo anno, ritraendo centinaia di volti, suggella in un istante reso eterno il soffio dell’anima celato dietro a ciascuno di essi.
Losca virtù delle istantanee! Sorridono. E quel sorriso ora è per lui, anche se essi non lo vogliono. L’intimità di un istante irripetibile della loro vita è sua, dilatata nel tempo e sempre identica a sé stessa; e visibile infinite volte (…)
Antonio TABUCCHI, Il filo dell’orizzonte, Feltrinelli, 1986
Patten insegue ciò che ognuno dei suoi soggetti può trasmettergli oltre la cortina del suo sguardo, radiografandoli nel bianco e nero delle sue immagini, e nell’istante in cui pare di toccare il limen montaliano, la “maglia rotta nella rete”, in quei momenti
(…) in cui le cose
s' abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità
Lo sguardo fruga d' intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità
Eugenio MONTALE, I limoni, Ossi di seppia, 1925
l’istante si consuma, ed egli deve ripartire alla caccia di ciò che, a ogni fotografia scattata, per un attimo possiede ma subito dopo gli sfugge, in una impossibile ricerca dell’intangibile: ricerca dello sguardo, dell’oltre che sta dietro ad esso, dell’istante supremo, del congiungimento con l’eterno attraverso un’indagine della felicità o della sofferenza.
La stessa che, a mio avviso, porta il giovane protagonista di American Beauty, diretto nel 1999 dell’inglese Sam Mendes, a filmare ossessivamente la realtà, colta in ogni frammento del quotidiano, e che, alla richiesta di motivare questo assillante tormento, risponde:
“Quando vedi cose del genere, è come se Dio ti guardasse fisso, e solo se stai attento, per un secondo, puoi ricambiare lo sguardo.” “E cosa vedi?” “Bellezza (…) C’è tanta bellezza nel mondo,. A volte è come se la vedessi tutta insieme, ed è troppo. Il cuore mi si riempie come un palloncino che sta per scoppiare, e smetto di cercare di tenermela stretta, e dopo scorre attraverso me come pioggia, e io non posso provare altro che gratitudine per ogni singolo momento della mia stupida, piccola Vita”
Così Arturo Patten, in perpetua fuga, dall’America, dall’India, da Parigi e da Roma, approda in Sicilia e avvia il catalogo di nuovi volti, in questa ricerca esponenti più o meno noti della cultura e dell’arte che, per amicizia o perché soggiogati dal talento del fotografo americano, accettano di farsi ritrarre.
Patten si radica nell’isola, trae linfa da essa e in essa, nell’isolamento interiore che questa terra sa trasmettere a coloro che hanno antenne per cogliere i suoi segnali invisibili, attende che la vita metta sul suo cammino altri codici da decifrare: l’isola è “solitudine” – Gesualdo Bufalino – l’isola è “l’attesa di ciò che accadrà” – Predrag Matevejevic.
La partita si fa più serrata, Patten, in bianco e nero, continua a giocare solo con se stesso sulla scacchiera dell’umanità, in una storia che è anche la vicenda umana di ognuno di noi, dove il Bianco e il Nero coesistono e si sfidano in una eterna dicotomia oppositiva:
Se bianco e nero formano una sola, stessa persona, si crea la situazione assurda per cui uno stesso cervello deve saper e insieme non sapere una cosa, e funzionando come bianco deve a comando dimenticare completamente ciò che un minuto prima, come nero, aveva voluto e previsto.
Stefan ZWEIG, Novella degli scacchi, Garzanti, 1982
Come il protagonista della Novella degli scacchi di Zweig – e come Zweig stesso – Patten giunge al limite della propria coscienza, e si avventura nei territori dove la ragione, scossa da una sensibilità esasperata, varca la soglia che ai più è preclusa:
“Ho cercato la vita in Sicilia e la morte ha mostrato il suo volto (…)”
Edith de la HÉRONNIÈRE, Dal vulcano al caos. Diario siciliano, L’Ippocampo, 2004
Proprio come l’io narrante del Malte Laurids Brigge Rilkiano, in una ricerca in bilico fra la vita e la morte, anche Patten “impara a vedere”:
Io imparo a vedere. Sì, incomincio. Va ancora male. Ma voglio mettere a profitto il mio tempo.
Non mi era mai capitato di accorgermi, per esempio, di quanti volti ci siano. C'è un'infinità di uomini, ma i volti sono ancor più numerosi poiché ciascuno ne ha più d'uno. Vi sono persone che portano un volto per anni, naturalmente si logora, diviene laido, si piega nelle rughe, si sforma come i guanti portati in viaggio. Queste sono persone econome, semplici; non mutano di volto, non lo fanno pulire neppure una volta. Va bene così, sostengono, e chi gli può dimostrare il contrario? Solo, viene da chiedersi: poiché hanno più volti, cosa ne fanno degli altri? Li mettono in serbo. Li porteranno i loro figli. Capita anche, però, che li portino i loro cani. E perché no? Una faccia è una faccia. Altri, si mettono un volto dopo l'altro con rapidità inquietante, e li logorano. A tutta prima sembra loro di averne per sempre; ma sono appena sui quaranta, e già arriva l'ultimo. Questo naturalmente è una tragedia. Non sono abituati a tener da conto i volti, il loro ultimo se ne va in otto giorni, ha dei buchi, in molti punti è sottile come la carta, e allora a poco a poco vien fuori il rovescio, il nonvolto, e vanno in giro con esso.
Rainer Maria RILKE, I quaderni di Malte Laurids Brigge, I, 1910
Ecco forse svelarsi il senso di una vita intera trascorsa ad indagare volti, a decodificare segnali impercettibili, imprigionando sguardi percepiti come sipari sulla mente, sulla vita.
E sulla morte. Patten come Cesare Pavese, a caccia di uno sguardo, per varcarlo e proseguire oltre:
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi,
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
(…)
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
Cesare PAVESE, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Einaudi, 1951
Patten, coi suoi ritratti in bianco e nero, come Silvia Plath, la poetessa americana che, poco prima di porre fine alla sua esistenza, in “bianco e nero” detta il suo testamento spirituale:
“Sono un groviglio di nervi senza identità. Ora so cos’è la solitudine, credo. Parte da un punto indefinito dell’Io: come una malattia del sangue che si diffonde in tutto il corpo sicché non si può localizzarne il focolaio.[...]
Non ho consistenza, sono vuota, dietro gli occhi sento una caverna pietrificata, un abisso infernale.
Voglio lavorare per mettere insieme il complesso mosaico della mia infanzia: esercitarmi a catturare sensazioni ed esperienze nell’informe subbuglio della memoria e sbatterle in bianco e nero sulla macchina da scrivere”
Silvia PLATH, Diari, Adelphi, 1998
Zweig, Pavese, Plath, Patten: sensibilità particolari, anime capaci di percezioni acuite, permeabili alla sofferenza dell’umanità intera, al leopardiano pessimismo esistenziale. Coscienze al limite, “oltre il quale il dolore non è più sostenibile” (Andrea Camilleri), accomunate dal coraggio estremo dei pochi capaci di porre volontariamente la fine della propria parabola vitale. Stesso coraggio, per chiudere in musica, che Luigi Tenco ci dimostrò nel gennaio 1967:
Andare via lontano
a cercare un altro mondo
dire addio al cortile,
andarsene sognando
Luigi TENCO, Ciao amore ciao, 1967
Jérôme GODEAU: Che cos’è che ci fa stare in piedi?
Quale punto dobbiamo fissare intensamente per mantenere l’equilibrio?
Quel punto cruciale, invisibile e tuttavia riflesso nei ritratti di Arturo Patten e nello sguardo dei modelli esposti alla nostra contemplazione. Ritratti in apparenza quanto mai semplici e limpidi nella loro composizione, ma segnati da qualcosa di fatale, da una forma di stupore che ci afferra a contraccolpo. Come se di fronte all’obiettivo l’espressione, ormai inflazionata, degli occhi intesi come “specchio dell’anima” tornasse ad operare con la forza di un sortilegio. E questa parentela segreta conferisce ai volti catturati da Arturo Patten un’aria “di famiglia”.
Niente a che vedere con l’aria che abbiamo, con l’aria che assumiamo per sedurre o per convincere, per imporre agli altri – e soprattutto a noi stessi – l’immagine che pensiamo ci assomigli. Di questa somiglianza il fotografo non si cura. Né lusinga, né affettazione. Ai modelli viene chiesto di calare la maschera, di deporre le armi. Come per “Li siggnori romani” ognuno è invitato a spogliarsi, sacrificando sull’altare della fotografia gli attributi del proprio savoir-faire e della propria posizione sociale: il barbiere i suoi rasoi, il caffettiere i suoi flaconi e il fornaio il suo pane quotidiano.
L’artista insegue una forma d’identità di tutt’altro genere. I suoi ritratti ci conducono sulla soglia di una realtà sottile: quella fatta intravedere dallo scrittore siciliano Andrea Camilleri all’ingresso della sua casa di campagna a Porto Empedocle; il pesante portone in ferro si è dischiuso … su quale camera oscura? La testa di gufo, o da Granduca, di Camilleri che scruta la grande notte dalla quale veniamo e alla quale facciamo ritorno.
La fotografia di Arturo Patten è un atto lucido. Il suo occhio ha il potere di fare luce, di illuminare la parte in ombra. In Sicilia, a Parigi o a Roma, il rituale non cambia. Tesa dietro al soggetto in posa, una semplice tenda nera basta a rivelarci con forza allucinante il miracolo della Presenza.
Scaturite su sfondi di tenebre, ognuna di queste teste è un’apparizione. Alcune di esse ci piacciono e ci trattengono, altre ci respingono. Tutte ci interrogano. Testa a testa. La sovranità di Topazia Alliata, regina in esilio; il riserbo di Dominique Rolin, fredda testa di sfinge; il campo di battaglia del volto di Natalia Ginzburg, scampata dal corpo a corpo con le parole … E l’alba tonda e piena di un’infanzia: quella del piccolo Michele Orlando, imbevuto di una saggezza millenaria. E la tragicità degli spettri di Patten presi a pugni, tumefatti, decomposti dal panico nella solitudine di una cittadina della Nuova Inghilterra.
Uomini, donne, bambini, vecchi, i cui visi non differiscono poi tanto l’uno dall’altro, portatori come sono di una verità sconvolgente, segnati dalla medesima attesa del salto liberatore. Ogni tratto è una confessione. La minima ruga, il minimo stigma di queste presenze dagli occhi spalancati e dalle labbra chiuse tradiscono la pesantezza – o la grazia – di una testa che devono portare fino alla fine. Il peso di un segreto indicibile, ma inscritto naturalmente nella carne. Contemplando questa galleria di ritratti è difficile restare sordi all’eco di una parola sacra, di un incanto gettato da Rainer Maria Rilke nel Libro della Povertà e della Morte:
O Signore, concedi a ciascuno la sua morte,
frutto di quella vita
in cui trovò amore, senso e pena.
In Arturo Patten c’è qualcosa del negromante, del profeta e del mago, come se anticipasse il giorno del Giudizio Universale e desse credito alla resurrezione della carne. Non uno manca all’appello. I vicini, gli amici, gli sconosciuti. I vivi e i morti, coloro che non sono più e coloro che non sono ancora. Impudica e gloriosa, gravida dell’avvenire che le gonfia i fianchi, una Dea Madre apre il corteo. Sono tutti lì, con il volto che è stato loro affidato, salvi per sempre dal pericolo dell’insignificanza o della banalità: poeti, musicisti, siggnori romani, anime in pena del Nuovo Mondo, lupe romane strette con una tale forza tra le braccia dei loro figli da far credere che perpetuino l’antica stirpe di Romolo e Remo. Agli occhi dell’iniziato l’umanità, anche la più semplice, appare sempre esemplare, alla stessa stregua della mitologia e della leggenda. Ogni ritratto di Arturo è una forma di assunzione che rende giustizia e testimonianza nei confronti della vita. Sono tutti lì, in piedi, nel chiarore dell’istante fotografico, disarmati e raggianti, nimbati di fierezza e di sconcerto, aureolati di tutte le promesse mantenute o tradite, nella gloria delle loro sconfitte e della loro nostalgia.
Così profondamente umani. Così amati, insomma.
Traduzione dal francese di Vera VERDIANI
APPARATO CRITICO: Marina BENEDETTO, Piero CARBONE, Nicolò D’ALESSANDRO, Angelo DI GARBO, Claudio FAVA, Sebastiano FAVITTA, Gianluca FIUSCO, Attilio GERBINO, Jérôme Godeau, Pippo PAPPALARDO, Angelo PITRONE e Antonio TABUCCHI.
COORDINAMENTO, ALLESTIMENTO E GRAFICA: Sebastiano FAVITTA e Attilio GERBINO
TRADUZIONI: Vera VERDIANI
RINGRAZIAMENTI: Edith de la HÉRONNIÈRE, IMEC - Institut Mémoire de l’Édition Contemporaine di Caen e gli amici dell’ Association “Arturo Patten” PARIGI
La Galleria Fotografica Luigi Ghirri di Caltagirone CT, impegnata da circa un decennio nella diffusione della cultura fotografica in Sicilia, in sinergia e col sostegno del Servizio Cristiano – Istituto Valdese di Riesi – e la curatela di Sebastiano FAVITTA e Attilio GERBINO, presenta la mostra:
In FONDO agli OCCHI
Fotografie di ARTURO PATTEN
Dopo le esposizioni di Garches, Vézelay, Caen, Agrigento, Parma, Modica, Palermo, Aix-en-Provence, Genova, Marsiglia e Grenoble sono presenti a Riesi, nello spazio della ex Scuola meccanica del Villaggio Valdese – prestigiosa architettura organica di Leonardo Ricci –, i ritratti in bianco e nero di siciliani impegnati nel mondo della cultura e dell’arte che il fotografo americano Arturo Patten ritrasse negli anni novanta. Le trentaquattro immagini in mostra provengono dall’IMEC – l’Institut Mémoire de l’Édition Contemporaine di Caen, in Francia – grazie alla sensibilità e la grande disponibilità di Edith de la Héronnière, la scrittrice e filosofa francese, legata al fotografo da profonda amicizia.
La mostra, ideata nel 2004 dal Centro culturale Pier Paolo Pasolini di Agrigento, presenta al pubblico la produzione tarda del fotografo americano che, in questa ricerca, esprime una notevole sensibilità artistica attraverso la scelta di anteporre, nella maggior parte delle trentaquattro immagini, i volti paradigmatici di questi siciliani allo sfondo scuro che, ritagliandone nettamente i contorni – quasi un poetico e suggestivo omaggio agli intriganti ritratti di Antonello da Messina –, fa convergere l’attenzione dell’osservatore sui dettagli e sulla profonda intensità di questi sguardi.
“Sono siciliano” era solito ripetere Patten, il grande fotografo ritrattista nato in California nel 1939, amico dello scrittore americano Russel Banks e del regista Federico Fellini. Dopo l’esordio come attore presso l’Actor’s Studio di New York, a ventinove anni lascia gli Stati Uniti per trasferirsi in Europa e da qui comincia a viaggiare per il mondo fermandosi anche in India, quindi in Francia e, dal 1970, a Roma. Scoperta tardi la passione per la fotografia ed in particolare per il ritratto, studiato traendo ispirazione dal taglio e dalle pose tipiche della pittura rinascimentale italiana, Arturo Patten pubblica regolarmente le sue foto, tra gli altri, sul quotidiano francese Le Monde e sugli italiani La Repubblica e Il Messaggero prima che i suoi reportage, vere istantanee sui quartieri popolari di Roma o di piccole città italiane e americane, vengano riconosciuti e apprezzati.
Se nei suoi ritratti, il fotografo americano, evidenzia un forte richiamo alla scrittura di Marguerite Yourcenar e alla cinematografia del regista russo Andreij Tarkovskij, di lui Salvatore Silvano Nigro – uno dei soggetti ritratti in mostra, docente di letteratura italiana moderna e contemporanea alla Scuola Normale di Pisa – ha detto “Come fotografo, Patten era improvvisato, non apparteneva a nessuna scuola: lui la foto se l'è inventata".
Purtroppo nel marzo del 1999 Arturo Patten decide di togliersi la vita ad Agrigento.
Oggi le sue spoglie riposano nella nuda terra del piccolo cimitero di Montaperto.
I suoi archivi sono conservati nell’abbazia d’Ardenne in Normandia – sede dell’IMEC l’Institut Mémoires de l’Edition Contemporaine – e nelle collezioni della Bibliothèque Nationale de France a Parigi.
Sebastiano FAVITTA e Attilio GERBINO
Marina BENEDETTO: L’invisibile oltre gli occhi: la ricerca metafisica di Arturo Patten
Non più ottico ma spacciatore di lenti
per improvvisare occhi contenti,
perché le pupille abituate a copiare
inventino i mondi sui quali guardare.
Seguite con me questi occhi sognare,
fuggire dall'orbita e non voler ritornare.
Fabrizio DE ANDRÈ, Un ottico, 1971
Che si tratti di pittura, fotografia, letteratura o musica, una comune matrice lega la scelta artistica di coloro che, anime capaci di cogliere la realtà oltre la soglia dell’apparenza, indagano l’essenza dell’Esistere attraverso la cifra stilistica del ritratto: Edgar Lee Masters, ai primi del Novecento, nell’Antologia di Spoon River rese immortali una serie di anonimi cittadini dell’oscura provincia americana, Fabrizio De Andrè diede loro sonorità espressiva, parallelamente il fotografo americano Arturo Patten, nel suo celebre reportage “Patten a Patten”, percorreva strade parallele nel nord est americano, ritraendo una sfilata di analogamente comuni e ignoti cittadini del Maine. Americani, Lee Masters e Patten, italiano De Andrè, ma idealmente vicino a Patten nella scelta di chiudere la propria vita in un’isola del Meridione italiano. Epoche e culture disomogenee fra loro, eppure unite dall’urgenza di fotografare – in versi, in musica o attraverso un obiettivo – una sfilata di personaggi dei quali altrimenti alcuno avrebbe serbato memoria, degni di passare alla storia per la semplice carica umana che essi custodivano in sé.
Arturo Patten consacra la sua opera di artista a questa instancabile ricerca di volti da suggellare in posa: in uno scatto, capace di evocare la parabola esistenziale dei soggetti, tenta un’indagine che varca la conoscenza sensibile e ne abbozza il ritratto interiore. Per giungere a ciò, egli non utilizza né parole né musica, bensì il mezzo a lui congeniale, la macchina fotografica, e lo fa nel senso più ancestrale del termine, quello di “scrivere con la luce”. Traccia così la storia di un’umanità composita, sconosciuti americani, romani, oppure, per antinomia, approdato in Sicilia ritrae celebri personalità in qualche modo legate all’Isola.
La tecnica privilegiata è sempre il bianco e nero, nella direzione di chi, eliminando il colore e i suoi compromessi di suggestioni empatiche, è costretto a intuire ciò che si cela dietro le illusioni. Il soggetto si delinea netto nel contrasto sapiente di luci ed ombre, e Patten conduce il nostro sguardo dove il suo intento ha deciso di guidarlo: allo scandaglio dell’anima colta al di là dello sguardo.
Ma tutto sta nel viso, e nel viso, gli occhi hanno un ruolo di primo piano (…) i gesti infatti significano l’animo e il volto è l’immagine dell’anima, gli occhi ne sono le spie: questa è l’unica parte del corpo che possa assumere tanti atteggiamenti diversi, quanti i moti dell’animo. Attraverso gli occhi, guardando fisso o con dolcezza, minacciosamente o con gioia, esprimiamo i sentimenti dell’animo, in maniera conforme al tenore del discorso. La natura ci diede gli occhi per significare i nostri stati d’animo, per cui, nel gestire, dopo la voce conta il volto ed esso è dominato dagli occhi.
CICERONE, De Oratore, III, 221-223
La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tua tenebra!
Vangelo di MATTEO, 6, 22-23
Questa intuizione si fa strada già agli albori della nostra cultura: l’occhio è percepito come tramite diretto al cuore umano, come il meno carnale fra gli organi di senso, nobilitato dalla sua capacità di lasciar trapelare sentimenti dell’animo. Conquistato da questa consapevolezza, Patten anno dopo anno, ritraendo centinaia di volti, suggella in un istante reso eterno il soffio dell’anima celato dietro a ciascuno di essi.
Losca virtù delle istantanee! Sorridono. E quel sorriso ora è per lui, anche se essi non lo vogliono. L’intimità di un istante irripetibile della loro vita è sua, dilatata nel tempo e sempre identica a sé stessa; e visibile infinite volte (…)
Antonio TABUCCHI, Il filo dell’orizzonte, Feltrinelli, 1986
Patten insegue ciò che ognuno dei suoi soggetti può trasmettergli oltre la cortina del suo sguardo, radiografandoli nel bianco e nero delle sue immagini, e nell’istante in cui pare di toccare il limen montaliano, la “maglia rotta nella rete”, in quei momenti
(…) in cui le cose
s' abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità
Lo sguardo fruga d' intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità
Eugenio MONTALE, I limoni, Ossi di seppia, 1925
l’istante si consuma, ed egli deve ripartire alla caccia di ciò che, a ogni fotografia scattata, per un attimo possiede ma subito dopo gli sfugge, in una impossibile ricerca dell’intangibile: ricerca dello sguardo, dell’oltre che sta dietro ad esso, dell’istante supremo, del congiungimento con l’eterno attraverso un’indagine della felicità o della sofferenza.
La stessa che, a mio avviso, porta il giovane protagonista di American Beauty, diretto nel 1999 dell’inglese Sam Mendes, a filmare ossessivamente la realtà, colta in ogni frammento del quotidiano, e che, alla richiesta di motivare questo assillante tormento, risponde:
“Quando vedi cose del genere, è come se Dio ti guardasse fisso, e solo se stai attento, per un secondo, puoi ricambiare lo sguardo.” “E cosa vedi?” “Bellezza (…) C’è tanta bellezza nel mondo,. A volte è come se la vedessi tutta insieme, ed è troppo. Il cuore mi si riempie come un palloncino che sta per scoppiare, e smetto di cercare di tenermela stretta, e dopo scorre attraverso me come pioggia, e io non posso provare altro che gratitudine per ogni singolo momento della mia stupida, piccola Vita”
Così Arturo Patten, in perpetua fuga, dall’America, dall’India, da Parigi e da Roma, approda in Sicilia e avvia il catalogo di nuovi volti, in questa ricerca esponenti più o meno noti della cultura e dell’arte che, per amicizia o perché soggiogati dal talento del fotografo americano, accettano di farsi ritrarre.
Patten si radica nell’isola, trae linfa da essa e in essa, nell’isolamento interiore che questa terra sa trasmettere a coloro che hanno antenne per cogliere i suoi segnali invisibili, attende che la vita metta sul suo cammino altri codici da decifrare: l’isola è “solitudine” – Gesualdo Bufalino – l’isola è “l’attesa di ciò che accadrà” – Predrag Matevejevic.
La partita si fa più serrata, Patten, in bianco e nero, continua a giocare solo con se stesso sulla scacchiera dell’umanità, in una storia che è anche la vicenda umana di ognuno di noi, dove il Bianco e il Nero coesistono e si sfidano in una eterna dicotomia oppositiva:
Se bianco e nero formano una sola, stessa persona, si crea la situazione assurda per cui uno stesso cervello deve saper e insieme non sapere una cosa, e funzionando come bianco deve a comando dimenticare completamente ciò che un minuto prima, come nero, aveva voluto e previsto.
Stefan ZWEIG, Novella degli scacchi, Garzanti, 1982
Come il protagonista della Novella degli scacchi di Zweig – e come Zweig stesso – Patten giunge al limite della propria coscienza, e si avventura nei territori dove la ragione, scossa da una sensibilità esasperata, varca la soglia che ai più è preclusa:
“Ho cercato la vita in Sicilia e la morte ha mostrato il suo volto (…)”
Edith de la HÉRONNIÈRE, Dal vulcano al caos. Diario siciliano, L’Ippocampo, 2004
Proprio come l’io narrante del Malte Laurids Brigge Rilkiano, in una ricerca in bilico fra la vita e la morte, anche Patten “impara a vedere”:
Io imparo a vedere. Sì, incomincio. Va ancora male. Ma voglio mettere a profitto il mio tempo.
Non mi era mai capitato di accorgermi, per esempio, di quanti volti ci siano. C'è un'infinità di uomini, ma i volti sono ancor più numerosi poiché ciascuno ne ha più d'uno. Vi sono persone che portano un volto per anni, naturalmente si logora, diviene laido, si piega nelle rughe, si sforma come i guanti portati in viaggio. Queste sono persone econome, semplici; non mutano di volto, non lo fanno pulire neppure una volta. Va bene così, sostengono, e chi gli può dimostrare il contrario? Solo, viene da chiedersi: poiché hanno più volti, cosa ne fanno degli altri? Li mettono in serbo. Li porteranno i loro figli. Capita anche, però, che li portino i loro cani. E perché no? Una faccia è una faccia. Altri, si mettono un volto dopo l'altro con rapidità inquietante, e li logorano. A tutta prima sembra loro di averne per sempre; ma sono appena sui quaranta, e già arriva l'ultimo. Questo naturalmente è una tragedia. Non sono abituati a tener da conto i volti, il loro ultimo se ne va in otto giorni, ha dei buchi, in molti punti è sottile come la carta, e allora a poco a poco vien fuori il rovescio, il nonvolto, e vanno in giro con esso.
Rainer Maria RILKE, I quaderni di Malte Laurids Brigge, I, 1910
Ecco forse svelarsi il senso di una vita intera trascorsa ad indagare volti, a decodificare segnali impercettibili, imprigionando sguardi percepiti come sipari sulla mente, sulla vita.
E sulla morte. Patten come Cesare Pavese, a caccia di uno sguardo, per varcarlo e proseguire oltre:
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi,
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
(…)
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
Cesare PAVESE, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Einaudi, 1951
Patten, coi suoi ritratti in bianco e nero, come Silvia Plath, la poetessa americana che, poco prima di porre fine alla sua esistenza, in “bianco e nero” detta il suo testamento spirituale:
“Sono un groviglio di nervi senza identità. Ora so cos’è la solitudine, credo. Parte da un punto indefinito dell’Io: come una malattia del sangue che si diffonde in tutto il corpo sicché non si può localizzarne il focolaio.[...]
Non ho consistenza, sono vuota, dietro gli occhi sento una caverna pietrificata, un abisso infernale.
Voglio lavorare per mettere insieme il complesso mosaico della mia infanzia: esercitarmi a catturare sensazioni ed esperienze nell’informe subbuglio della memoria e sbatterle in bianco e nero sulla macchina da scrivere”
Silvia PLATH, Diari, Adelphi, 1998
Zweig, Pavese, Plath, Patten: sensibilità particolari, anime capaci di percezioni acuite, permeabili alla sofferenza dell’umanità intera, al leopardiano pessimismo esistenziale. Coscienze al limite, “oltre il quale il dolore non è più sostenibile” (Andrea Camilleri), accomunate dal coraggio estremo dei pochi capaci di porre volontariamente la fine della propria parabola vitale. Stesso coraggio, per chiudere in musica, che Luigi Tenco ci dimostrò nel gennaio 1967:
Andare via lontano
a cercare un altro mondo
dire addio al cortile,
andarsene sognando
Luigi TENCO, Ciao amore ciao, 1967
Jérôme GODEAU: Che cos’è che ci fa stare in piedi?
Quale punto dobbiamo fissare intensamente per mantenere l’equilibrio?
Quel punto cruciale, invisibile e tuttavia riflesso nei ritratti di Arturo Patten e nello sguardo dei modelli esposti alla nostra contemplazione. Ritratti in apparenza quanto mai semplici e limpidi nella loro composizione, ma segnati da qualcosa di fatale, da una forma di stupore che ci afferra a contraccolpo. Come se di fronte all’obiettivo l’espressione, ormai inflazionata, degli occhi intesi come “specchio dell’anima” tornasse ad operare con la forza di un sortilegio. E questa parentela segreta conferisce ai volti catturati da Arturo Patten un’aria “di famiglia”.
Niente a che vedere con l’aria che abbiamo, con l’aria che assumiamo per sedurre o per convincere, per imporre agli altri – e soprattutto a noi stessi – l’immagine che pensiamo ci assomigli. Di questa somiglianza il fotografo non si cura. Né lusinga, né affettazione. Ai modelli viene chiesto di calare la maschera, di deporre le armi. Come per “Li siggnori romani” ognuno è invitato a spogliarsi, sacrificando sull’altare della fotografia gli attributi del proprio savoir-faire e della propria posizione sociale: il barbiere i suoi rasoi, il caffettiere i suoi flaconi e il fornaio il suo pane quotidiano.
L’artista insegue una forma d’identità di tutt’altro genere. I suoi ritratti ci conducono sulla soglia di una realtà sottile: quella fatta intravedere dallo scrittore siciliano Andrea Camilleri all’ingresso della sua casa di campagna a Porto Empedocle; il pesante portone in ferro si è dischiuso … su quale camera oscura? La testa di gufo, o da Granduca, di Camilleri che scruta la grande notte dalla quale veniamo e alla quale facciamo ritorno.
La fotografia di Arturo Patten è un atto lucido. Il suo occhio ha il potere di fare luce, di illuminare la parte in ombra. In Sicilia, a Parigi o a Roma, il rituale non cambia. Tesa dietro al soggetto in posa, una semplice tenda nera basta a rivelarci con forza allucinante il miracolo della Presenza.
Scaturite su sfondi di tenebre, ognuna di queste teste è un’apparizione. Alcune di esse ci piacciono e ci trattengono, altre ci respingono. Tutte ci interrogano. Testa a testa. La sovranità di Topazia Alliata, regina in esilio; il riserbo di Dominique Rolin, fredda testa di sfinge; il campo di battaglia del volto di Natalia Ginzburg, scampata dal corpo a corpo con le parole … E l’alba tonda e piena di un’infanzia: quella del piccolo Michele Orlando, imbevuto di una saggezza millenaria. E la tragicità degli spettri di Patten presi a pugni, tumefatti, decomposti dal panico nella solitudine di una cittadina della Nuova Inghilterra.
Uomini, donne, bambini, vecchi, i cui visi non differiscono poi tanto l’uno dall’altro, portatori come sono di una verità sconvolgente, segnati dalla medesima attesa del salto liberatore. Ogni tratto è una confessione. La minima ruga, il minimo stigma di queste presenze dagli occhi spalancati e dalle labbra chiuse tradiscono la pesantezza – o la grazia – di una testa che devono portare fino alla fine. Il peso di un segreto indicibile, ma inscritto naturalmente nella carne. Contemplando questa galleria di ritratti è difficile restare sordi all’eco di una parola sacra, di un incanto gettato da Rainer Maria Rilke nel Libro della Povertà e della Morte:
O Signore, concedi a ciascuno la sua morte,
frutto di quella vita
in cui trovò amore, senso e pena.
In Arturo Patten c’è qualcosa del negromante, del profeta e del mago, come se anticipasse il giorno del Giudizio Universale e desse credito alla resurrezione della carne. Non uno manca all’appello. I vicini, gli amici, gli sconosciuti. I vivi e i morti, coloro che non sono più e coloro che non sono ancora. Impudica e gloriosa, gravida dell’avvenire che le gonfia i fianchi, una Dea Madre apre il corteo. Sono tutti lì, con il volto che è stato loro affidato, salvi per sempre dal pericolo dell’insignificanza o della banalità: poeti, musicisti, siggnori romani, anime in pena del Nuovo Mondo, lupe romane strette con una tale forza tra le braccia dei loro figli da far credere che perpetuino l’antica stirpe di Romolo e Remo. Agli occhi dell’iniziato l’umanità, anche la più semplice, appare sempre esemplare, alla stessa stregua della mitologia e della leggenda. Ogni ritratto di Arturo è una forma di assunzione che rende giustizia e testimonianza nei confronti della vita. Sono tutti lì, in piedi, nel chiarore dell’istante fotografico, disarmati e raggianti, nimbati di fierezza e di sconcerto, aureolati di tutte le promesse mantenute o tradite, nella gloria delle loro sconfitte e della loro nostalgia.
Così profondamente umani. Così amati, insomma.
Traduzione dal francese di Vera VERDIANI
06
dicembre 2008
Arturo Patten – In fondo agli occhi
Dal 06 dicembre 2008 al 09 gennaio 2009
fotografia
Location
EX SCUOLA MECCANICA – SERVIZIO CRISTIANO ISTITUTO VALDESE
Riesi, Via Monte Degli Ulivi, 6, (Caltanissetta)
Riesi, Via Monte Degli Ulivi, 6, (Caltanissetta)
Orario di apertura
lun./ven. 9-12.30 e 14-17 e su appuntamento
Vernissage
6 Dicembre 2008, ore 18.30
Autore
Curatore