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Davide Silipo – Odùsseia
Il viaggio dell’accedere alle nostre identità, sia in senso biologico che psicologico, è colto dall’artista proprio nell’acme del momento metamorfico, in cui una forma, involucro di sostanza, viene abbandonata per diventare altro
Comunicato stampa
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DAVIDE SILIPO
Odùsseia, viaggio e approdo di arte e scienza in una terra comune.
Lontana dal “bello” classicamente inteso, l’arte di Davide Silipo si propone come interpretazione immaginifica della bellezza del mondo.
Le sue creature acquatiche, inesistenti a metà – L’uomo granchio non esiste, ma l’uomo sì, e parimenti il granchio - sono simboli creativi della metamorfosi, quel cambiamento lento e incisivo in cui la forma originaria diventa se stessa, soppiantando da un lato la sua riconoscibilità, dall’altro svelandola.
L’identità è un cantiere aperto, un work in progress, non un dato di fatto originario che si conferma evolvendosi. Si contraddice invece, a volte, attraversa mutamenti importanti.
Come si fa a valutare un mutamento, o constatarne il suo semplice accadimento? Non esiste altro modo che applicare una riflessione comparativa, cara alle discipline epistemologiche.
Anche la scienza, è per questo artista musa ispiratrice di ricche suggestioni, ed è capace di colpirne l’estro come un dardo.
<>.
La variabilità, che ci distingue, si rivela qui essere da un punto di vista biologico una fondamentale invariante.
Saputolo, Silipo ha visto e cercato in un blocco di argilla una creatura ambigua, potente, svelativa nel mostrare, seppur creativamente, un’analogia stretta, fondamentale, incancellabile ma invisibile ad occhio nudo, tra noi e quello che consideriamo uno tra gli ultimi degli esseri viventi.
Così è nato L’uomo calamaro, più calamaro che uomo. L’animale nella sua fisicità e organicità prende il sopravvento morfologico, ma l’uomo è capace volontariamente di lottare per accedere alla sua identità. Gli animali invece compiono uno sforzo di adattamento, lottano per natura e ne sono inconsapevoli.
Davide Silipo dedica questa collezione di sculture metamorfiche al ritorno a Itaca di Nessuno, Odisseo in greco: il nome con cui l’astuto Ulisse si salvò dalla vendetta del Ciclope accecato, che chiese stoltamente al dio degli dei di vendicarlo per l’offesa subita da “Nessuno”.
Odùsseia è l’archetipo del travaglio, della fatica del viaggio interrotto non solo da tappe, ma da agguati feroci orditi da divinità vendicative e affatto superiori al mortale, bensì depositarie di poteri magico-superiori, come oggi ci appare il destino.
L’approdare continuamente in terra straniera, salvezza e trappola al contempo, offre a Ulisse la possibilità di scoprire il fascino della diversità: non c’è più solo l’angoscia dello sconosciuto, già per questo temibile e rifiutato, ma il desiderio e la curiosità di un sapere rinnovato.
Cambia Ulisse in questo lungo viaggio di ritorno, invecchia, fa esperienza di luoghi inimmaginabili, di personaggi che lo salvano per poi ricattarlo, di mostri meravigliosi e terribili.
L’acqua è sempre presente, si mischia alla terra e irrora anche gli inferi.
Pausania allude, descrivendo l’Ade dove Ulisse discende per incontrare l’anima di Tiresia, a un’acqua che “sembra indicare un fiume, apparentemente L’Acheronte”. In quel liquido incerto, indefinibile, Ulisse scorge ombre simili a pesci.
Scienza e letteratura, mitologia e astronomia, laboratori artistici e politecnici si incontrano, sorprendentemente, a inseguire con mezzi diversi la stessa utopia: quando si immagina un uomo cercar vita in un mondo sconosciuto, su un altro pianeta o nelle viscere del nostro, l’acqua diventa indizio imprescindibile.
L’abbiamo cercata ostinatamente anche su Marte, dove ci è parso di scorgere sagome umane. Erano ombre, proiezioni sfumate e imprecise che hanno acceso le speranze e la fantasia di scienziati e spettatori incantati e delusi dopo l’analisi delle immagini.
L’astronomo Giovanni Schiapparelli, padre dell’aerografia o geografia marziana - spiega il Professor Stefano Sandrelli, membro dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e responsabile dell’ufficio per la comunicazione della scienza presso l’Osservatorio astronomico di Brera-, dopo anni di costante e ossessiva osservazione di Marte dall’Osservatorio braidense, si accorse che con il passare della stagione invernale a quella primaverile, comparivano sulla superficie del pianeta striature precise, equidistanti, gemellari e ordinate che chiamò “canali”. Era impossibile che il caso le disegnasse così: doveva esserci vita intelligente e organizzata a scavare canali del genere. E a che cosa servono i canali, se non a drenare l’acqua che fluiva sul pianeta di fuoco dopo il disgelo invernale? Fu così che nacquero i marziani, i meticolosi abitanti di Marte. Telescopi più potenti dimostreranno che si trattava solo di illusioni ottiche, ma le spedizioni continuano sognando di poter gridare: acqua! Acqua!
Quello che Silipo ha colto e interpretato con una neo-mitologia scultorea di grande impatto estetico, è la reale potenzialità dell’acqua, di mare ma anche dolce, di contenere le possibilità per la vita organica di generarsi e rigenerarsi mutandosi.
L’uomo e la rana è un’opera chiara nella sua ambiguità: non è detto affatto che l’anfibio si trasformi in uomo, migliorandosi, evolvendosi.
C’è piuttosto un inquietante isomorfismo tra i due esseri, che noi pensiamo scissi, opposti per natura, c’è una contaminazione anatomica che allude a una possibile origine capovolta delle specie, come aveva fantasticato Ovidio nel sesto Libro delle Metamorfosi: Latona, una dea, si trova in terra di Licia stremata dalla sete e dal caldo, in fuga con i suoi due piccoli figli dalle ire di Giunone. Scorto in lontananza un laghetto, vi si recò per abbeverarsi. Una masnada di contadini avidi e impietosi glielo impedì. La dea li pregò: “abbiate pietà almeno di questi, che dal mio seno tendono le loro braccine”. Quelli invece si ostinarono nel divieto e intorbidarono l’acqua con il fango, saltandovi dentro apposta. Latona allora li maledisse gridando al cielo: “che viviate in eterno in questo stagno”. E’ a questo punto che la metamorfosi si realizza, trasmutando la natura umana in quella animale: <>.
Non ci sono in Silipo riconciliazioni facili, composizioni a lieto fine dei conflitti fra le diverse nature che anche allegoricamente e introspettivamente ci riguardano, ma squarci, tagli, tensioni muscolari e tendinee, spasimi e contratture, emersioni e immersioni tra corpi condannati ad affrontare un’antinomia ineluttabile e persistente, come lo sono il buio e la luce, l’uomo e la donna, l’alto e il basso, il microscopico e il gigante, ma anche la normalità e la follia.
Thinking anemone , trasognato e perso più che assorto, allude proprio alla più alta ambivalenza esistenziale: quella tra la capacità propria esclusivamente dell’essere umano, cioè il pensare, e la sua possibilità di ottundersi, di sprofondare negli abissi della disperazione, nel deserto emotivo, nell’impossibilità di parlarne. In questa opera c’è una mollezza, un languore nel corpo che rinvia alla malinconia implacabile, di matrice duehreriana, che annega in silenzio un dolore così profondo da rendere l’uomo estraneo a se stesso, come un anemone marino scosso appena dalle correnti, memore solo della sua sofferenza. Sott’acqua non si ha voce, né servirebbe averla.
Il mostrum, per gli antichi era un prodigio, un semidio, un essere sostanziato di più di un’identità, quindi più ricco di qualità e capacità. Le sirene, riproposte da Silipo nella variante maschile (The lake. Cello visions), ne sono forse l’esempio più conosciuto, insieme con Medusa: la più famosa delle Gorgoni, capace di pietrificare con lo sguardo un animale che si trasformò in corallo. E’ proprio quella creatura dal volto umano con chioma di serpenti, ad essere stata immaginata dal pensiero mitico come la prima scultrice. Con sfolgorante acutezza Italo Calvino indugia meticolosamente ne Le lezioni americane sul “linguaggio di immagini” del mito, ancora una volta ovidiano, sul rapporto complesso e sorprendente tra Perseo, guerriero alato, e Medusa, da lui vinta e decapitata a colpi di spada ma trattata, anche da morta, con venerabile rispetto. Calvino coglie quanta delicatezza vi sia, da parte dell’eroe vincitore di mostri, nel trattare quello che per un altro sarebbe stato solo vanagloriosa ostentazione di vittoria, uno scalpo: <>. Da questa gentilezza “rinfrescante” come la denota Calvino, sortisce un miracolo metamorfico: “i ramoscelli marini a contatto con la Medusa si trasformano in coralli”, ornamento aggraziato caro alle Ninfe che avvicinano appositamente ramoscelli alla testa del mostro, ma anche alla tradizione pittorica cristiana che adornava il collo di Gesù bambino con un piccolo corallo rosso.
Nei primi anni del XIX secolo nacque in Francia la teratologia, con il naturalista Etienne Geoffroy Saint-Hilaire, una vera e propria disciplina scientifica preposta allo studio della mostruosità come ricchissima prospettiva euristica ed epistemologica. Erano anche gli anni in cui si veniva consolidando la biologia come scienza. Proprio nello studio dell’anomalia anatomica, dell’eccezione conclamata, entrambi gli ambiti cercavano di dimostrare una regolarità costante nelle leggi di natura.
Questo farsi carico anche della parte più spaventevole e minacciosa della realtà, della vita, delle sue incompiutezze, del grottesco, degli scarti di natura è lo spirito che ha animato questa mostra dedicata segnatamente all’Acquario Civico di Milano: non una galleria d’arte, ma un luogo dove la scienza comunica con il pubblico, espone gli esemplari che studia in vita.
Siamo particolarmente grati al Direttore di questa istituzione, il Dottor Mauro Mariani, per aver permesso la realizzazione di questa collezione di sculture che non espone il vero, né il verosimile, ma la più libera e fantastica interpretazione del processo metamorfico in cui natura e arte, arte e scienza, dialogano con grande suggestione.
Seahorse man, Modified Fish, Black Ink, sono opere d’arte, ma anche ipotesi affascinanti sull’ambiguità ancestrale e latente della natura dell’animale uomo.
Cristina Muccioli
Critico d’arte
Odùsseia, viaggio e approdo di arte e scienza in una terra comune.
Lontana dal “bello” classicamente inteso, l’arte di Davide Silipo si propone come interpretazione immaginifica della bellezza del mondo.
Le sue creature acquatiche, inesistenti a metà – L’uomo granchio non esiste, ma l’uomo sì, e parimenti il granchio - sono simboli creativi della metamorfosi, quel cambiamento lento e incisivo in cui la forma originaria diventa se stessa, soppiantando da un lato la sua riconoscibilità, dall’altro svelandola.
L’identità è un cantiere aperto, un work in progress, non un dato di fatto originario che si conferma evolvendosi. Si contraddice invece, a volte, attraversa mutamenti importanti.
Come si fa a valutare un mutamento, o constatarne il suo semplice accadimento? Non esiste altro modo che applicare una riflessione comparativa, cara alle discipline epistemologiche.
Anche la scienza, è per questo artista musa ispiratrice di ricche suggestioni, ed è capace di colpirne l’estro come un dardo.
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La variabilità, che ci distingue, si rivela qui essere da un punto di vista biologico una fondamentale invariante.
Saputolo, Silipo ha visto e cercato in un blocco di argilla una creatura ambigua, potente, svelativa nel mostrare, seppur creativamente, un’analogia stretta, fondamentale, incancellabile ma invisibile ad occhio nudo, tra noi e quello che consideriamo uno tra gli ultimi degli esseri viventi.
Così è nato L’uomo calamaro, più calamaro che uomo. L’animale nella sua fisicità e organicità prende il sopravvento morfologico, ma l’uomo è capace volontariamente di lottare per accedere alla sua identità. Gli animali invece compiono uno sforzo di adattamento, lottano per natura e ne sono inconsapevoli.
Davide Silipo dedica questa collezione di sculture metamorfiche al ritorno a Itaca di Nessuno, Odisseo in greco: il nome con cui l’astuto Ulisse si salvò dalla vendetta del Ciclope accecato, che chiese stoltamente al dio degli dei di vendicarlo per l’offesa subita da “Nessuno”.
Odùsseia è l’archetipo del travaglio, della fatica del viaggio interrotto non solo da tappe, ma da agguati feroci orditi da divinità vendicative e affatto superiori al mortale, bensì depositarie di poteri magico-superiori, come oggi ci appare il destino.
L’approdare continuamente in terra straniera, salvezza e trappola al contempo, offre a Ulisse la possibilità di scoprire il fascino della diversità: non c’è più solo l’angoscia dello sconosciuto, già per questo temibile e rifiutato, ma il desiderio e la curiosità di un sapere rinnovato.
Cambia Ulisse in questo lungo viaggio di ritorno, invecchia, fa esperienza di luoghi inimmaginabili, di personaggi che lo salvano per poi ricattarlo, di mostri meravigliosi e terribili.
L’acqua è sempre presente, si mischia alla terra e irrora anche gli inferi.
Pausania allude, descrivendo l’Ade dove Ulisse discende per incontrare l’anima di Tiresia, a un’acqua che “sembra indicare un fiume, apparentemente L’Acheronte”. In quel liquido incerto, indefinibile, Ulisse scorge ombre simili a pesci.
Scienza e letteratura, mitologia e astronomia, laboratori artistici e politecnici si incontrano, sorprendentemente, a inseguire con mezzi diversi la stessa utopia: quando si immagina un uomo cercar vita in un mondo sconosciuto, su un altro pianeta o nelle viscere del nostro, l’acqua diventa indizio imprescindibile.
L’abbiamo cercata ostinatamente anche su Marte, dove ci è parso di scorgere sagome umane. Erano ombre, proiezioni sfumate e imprecise che hanno acceso le speranze e la fantasia di scienziati e spettatori incantati e delusi dopo l’analisi delle immagini.
L’astronomo Giovanni Schiapparelli, padre dell’aerografia o geografia marziana - spiega il Professor Stefano Sandrelli, membro dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e responsabile dell’ufficio per la comunicazione della scienza presso l’Osservatorio astronomico di Brera-, dopo anni di costante e ossessiva osservazione di Marte dall’Osservatorio braidense, si accorse che con il passare della stagione invernale a quella primaverile, comparivano sulla superficie del pianeta striature precise, equidistanti, gemellari e ordinate che chiamò “canali”. Era impossibile che il caso le disegnasse così: doveva esserci vita intelligente e organizzata a scavare canali del genere. E a che cosa servono i canali, se non a drenare l’acqua che fluiva sul pianeta di fuoco dopo il disgelo invernale? Fu così che nacquero i marziani, i meticolosi abitanti di Marte. Telescopi più potenti dimostreranno che si trattava solo di illusioni ottiche, ma le spedizioni continuano sognando di poter gridare: acqua! Acqua!
Quello che Silipo ha colto e interpretato con una neo-mitologia scultorea di grande impatto estetico, è la reale potenzialità dell’acqua, di mare ma anche dolce, di contenere le possibilità per la vita organica di generarsi e rigenerarsi mutandosi.
L’uomo e la rana è un’opera chiara nella sua ambiguità: non è detto affatto che l’anfibio si trasformi in uomo, migliorandosi, evolvendosi.
C’è piuttosto un inquietante isomorfismo tra i due esseri, che noi pensiamo scissi, opposti per natura, c’è una contaminazione anatomica che allude a una possibile origine capovolta delle specie, come aveva fantasticato Ovidio nel sesto Libro delle Metamorfosi: Latona, una dea, si trova in terra di Licia stremata dalla sete e dal caldo, in fuga con i suoi due piccoli figli dalle ire di Giunone. Scorto in lontananza un laghetto, vi si recò per abbeverarsi. Una masnada di contadini avidi e impietosi glielo impedì. La dea li pregò: “abbiate pietà almeno di questi, che dal mio seno tendono le loro braccine”. Quelli invece si ostinarono nel divieto e intorbidarono l’acqua con il fango, saltandovi dentro apposta. Latona allora li maledisse gridando al cielo: “che viviate in eterno in questo stagno”. E’ a questo punto che la metamorfosi si realizza, trasmutando la natura umana in quella animale: <
Non ci sono in Silipo riconciliazioni facili, composizioni a lieto fine dei conflitti fra le diverse nature che anche allegoricamente e introspettivamente ci riguardano, ma squarci, tagli, tensioni muscolari e tendinee, spasimi e contratture, emersioni e immersioni tra corpi condannati ad affrontare un’antinomia ineluttabile e persistente, come lo sono il buio e la luce, l’uomo e la donna, l’alto e il basso, il microscopico e il gigante, ma anche la normalità e la follia.
Thinking anemone , trasognato e perso più che assorto, allude proprio alla più alta ambivalenza esistenziale: quella tra la capacità propria esclusivamente dell’essere umano, cioè il pensare, e la sua possibilità di ottundersi, di sprofondare negli abissi della disperazione, nel deserto emotivo, nell’impossibilità di parlarne. In questa opera c’è una mollezza, un languore nel corpo che rinvia alla malinconia implacabile, di matrice duehreriana, che annega in silenzio un dolore così profondo da rendere l’uomo estraneo a se stesso, come un anemone marino scosso appena dalle correnti, memore solo della sua sofferenza. Sott’acqua non si ha voce, né servirebbe averla.
Il mostrum, per gli antichi era un prodigio, un semidio, un essere sostanziato di più di un’identità, quindi più ricco di qualità e capacità. Le sirene, riproposte da Silipo nella variante maschile (The lake. Cello visions), ne sono forse l’esempio più conosciuto, insieme con Medusa: la più famosa delle Gorgoni, capace di pietrificare con lo sguardo un animale che si trasformò in corallo. E’ proprio quella creatura dal volto umano con chioma di serpenti, ad essere stata immaginata dal pensiero mitico come la prima scultrice. Con sfolgorante acutezza Italo Calvino indugia meticolosamente ne Le lezioni americane sul “linguaggio di immagini” del mito, ancora una volta ovidiano, sul rapporto complesso e sorprendente tra Perseo, guerriero alato, e Medusa, da lui vinta e decapitata a colpi di spada ma trattata, anche da morta, con venerabile rispetto. Calvino coglie quanta delicatezza vi sia, da parte dell’eroe vincitore di mostri, nel trattare quello che per un altro sarebbe stato solo vanagloriosa ostentazione di vittoria, uno scalpo: <
Nei primi anni del XIX secolo nacque in Francia la teratologia, con il naturalista Etienne Geoffroy Saint-Hilaire, una vera e propria disciplina scientifica preposta allo studio della mostruosità come ricchissima prospettiva euristica ed epistemologica. Erano anche gli anni in cui si veniva consolidando la biologia come scienza. Proprio nello studio dell’anomalia anatomica, dell’eccezione conclamata, entrambi gli ambiti cercavano di dimostrare una regolarità costante nelle leggi di natura.
Questo farsi carico anche della parte più spaventevole e minacciosa della realtà, della vita, delle sue incompiutezze, del grottesco, degli scarti di natura è lo spirito che ha animato questa mostra dedicata segnatamente all’Acquario Civico di Milano: non una galleria d’arte, ma un luogo dove la scienza comunica con il pubblico, espone gli esemplari che studia in vita.
Siamo particolarmente grati al Direttore di questa istituzione, il Dottor Mauro Mariani, per aver permesso la realizzazione di questa collezione di sculture che non espone il vero, né il verosimile, ma la più libera e fantastica interpretazione del processo metamorfico in cui natura e arte, arte e scienza, dialogano con grande suggestione.
Seahorse man, Modified Fish, Black Ink, sono opere d’arte, ma anche ipotesi affascinanti sull’ambiguità ancestrale e latente della natura dell’animale uomo.
Cristina Muccioli
Critico d’arte
09
gennaio 2009
Davide Silipo – Odùsseia
Dal 09 gennaio all'otto febbraio 2009
arte contemporanea
Location
ACQUARIO E CIVICA STAZIONE IDROBIOLOGICA
Milano, Viale Gerolamo Gadio, 2, (Milano)
Milano, Viale Gerolamo Gadio, 2, (Milano)
Vernissage
9 Gennaio 2009, ore 18.30
Sito web
www.davidesilipo.it
Autore
Curatore