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Simona Weller – Parola di Weller
Anche in questa mostra romana, il segno-grafia tipico della Weller da più di trent’anni, oscilla tra due poli opposti: micro e macroscopico. Le “parole dipinte” diventano di volta in volta un ductus microscopico su alcune tele e macroscopico su altre. Le opere più recenti sperimentano il fondo grezzo della tela di juta, in cui i frammenti ingranditi delle parole amate dall’artista (mare, erba, grano, alba) si trasformano in moduli allineati come nella scrittura
Comunicato stampa
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Come evento per l’apertura di stagione, Giuseppe Bertolami, Francesco Bonanno e Raffaele Cecora propongono nella Galleria Ricerca d’Arte l’opera più recente della pittrice romana Simona Weller.
Tra i più stimati artisti della sua generazione (anni ’40), la Weller ha esordito nei primi anni Settanta con grandi opere di pittura-scrittura che, rivisitate oggi per questa rassegna, confermano tutta la forza della loro originalità, come ha dimostrato il successo dell’ultima personale tenutasi presso la Galleria Rotta di Genova nella primavera 2008.
La pittura della Weller:
Anche in questa mostra romana, il segno-grafia tipico della Weller da più di trent’anni, oscilla tra due poli opposti: micro e macroscopico. Le “parole dipinte” diventano di volta in volta un ductus microscopico su alcune tele e macroscopico su altre. Le opere più recenti sperimentano il fondo grezzo della tela di juta, in cui i frammenti ingranditi delle parole amate dall’artista (mare, erba, grano, alba) si trasformano in moduli allineati come nella scrittura. Tali moduli hanno una dinamicità interna che li fa apparire come spinti da una forza nervosa, simile a quella che produce il vento con le onde del mare.
Negli anni Settanta l’artista aveva proposto quadri a fondo nero, sorta di tele che mimavano lavagne in cui la grafia fantasticava un dialogo muto tra l’infanzia e pittori e poeti a lei congeniali. Recentemente la Weller ha riproposto anche le lavagne, che mostrano una maggiore consapevolezza e maturità. Si deve sempre a quel periodo il passaggio della Weller dalla struttura della pagina di quaderno a quella di opere in cui la parola si trasforma in trama dipinta, ispirata a quelli che lei definiva “paesaggi mentali”, anche questi ultimi, oggi rivisitati in un ciclo di opere di grande intensità.
Agli anni Ottanta invece, appartiene la scoperta della parola come modulo. Ne nascono opere per certi versi più astratte, ovvero non riconducibili a nessun tipo di suggestione naturalistica, anche a causa della potente struttura, quasi geometrica, che le caratterizza all’interno.
Degli anni Novanta è una ricerca irripetibile e unica nel suo genere, in cui gli stessi moduli degli anni precedenti escono dal supporto e si fanno rilievo. Da queste opere nasce in modo molto naturale tutta la serie delle sculture e degli oggetti in ceramica.
Agli anni Duemila infine appartiene il ciclo “Lettere di una pittrice italiana a Van Gogh” che indaga in modo concettuale il rapporto tra grafia e immagine.
Chi è Simona Weller:
Nata a Roma nel 1940. Dopo gli studi classici si diploma all’Accademia di Belle Arti con Ferrazzi e Mafai. Dal 1960 al 1963 viaggia e lavora in Thailandia ed Egitto. Nel 1964 vive alcuni mesi a Madrid. In questo periodo la sua pittura risente di un surrealismo di natura, dovuto alla frequentazione dei musei e a un lungo ritiro nella campagna umbra. Nel 1970, tornata a Roma, diventa compagna di Cesare Vivaldi con cui frequenta le personalità più interessanti del mondo letterario ed artistico. Comincia ad insegnare come assistente di Giulio Turcato e nel 1973 esordisce alla Quadriennale di Roma con grandi tele di pittura-scrittura. In questi anni è segnalata al Premio Bolaffi da Giuliano Briganti, da Marcello Venturoli e da Cesare Vivaldi tra i giovani artisti più interessanti del momento. Nel 1976 pubblica il primo saggio sulle artiste italiane del XX secolo: Il Complesso di Michelangelo. Da questo momento la sua ricerca pittorica sarà sempre affiancata da quella saggistica e letteraria. Nel 1978 è invitata alla Biennale di Venezia e al F.I.A.C. di Parigi. Nel 1980 tiene la sua prima antologica alla Pinacoteca di Macerata e un corso speciale all’Accademia di Belle Arti di Roma. Nello stesso anno inizia la collaborazione al mensile Noi Donne, dove avrà una sua rubrica fino al 1996. Dal 1980 lavora regolarmente la ceramica presso la fabbrica L’Antica di Deruta, partecipando al progetto culturale Deruta 2000 e alla mostra scambio Algeri-Deruta. Dalla fine degli anni ’90 affianca la pittura con l’impegno letterario pubblicando alcuni romanzi storici sulla vita di pittrici celebri. Alcuni cicli delle sue opere pittoriche hanno come tema “la lettera”. Il più recente è Lettere di una pittrice italiana a Van Gogh che le è valso nel 2003 l’invito per una mostra itinerante in Olanda. Negli ultimi vent’anni ha eseguito lavori in ceramica a Deruta, dove ha elaborato nuove forme e nuovi decori. Nel 2005 due musei liguri hanno celebrato quarant’anni di attività della Weller con la mostra antologica Verba Picta. L'8 marzo del 2006, su indicazione del premio nobel Rita Levi Montalcini, il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, le ha conferito l'onorificenza di commendatore per meriti culturali.
Descrizione della mostra:
La mostra si avvale di venti opere recenti a olio su tela e ad acrilico su tela di juta, affiancate da dieci opere degli anni Settanta a tecnica mista.
L’esposizione sarà integrata da una campionatura di sculture in ceramica e oggetti d’uso modellati in forme non tradizionali.
Simona Weller
di Paolo Portoghesi
Penso al mio dipingere un quadro dopo l’altro, / un anno dopo l’altro, come ad un’onda che spinta dal vento si formi e si riformi. / Il mare resta là come l’arte, come la pittura, pronto a cambiare, / ma nello stesso tempo immutabile. / Al contrario dell’onda, io so che non posso cambiare il mare, la pittura, l’arte, / ma esattamente come l’onda percorrerò il mare, la pittura, l’arte / fino a quella spumeggiante e (mi auguro invidiabile) fine.
Simona Weller, nata con due vocazioni autentiche per la pittura e per la scrittura, si racconta in queste parole come nessun altro ha saputo fare. Anzitutto fa i conti con il mare, uno dei protagonisti del suo esserci e si descrive in perenne percorso pronta a cambiare, ma sicura di avere dentro di se qualcosa di immutabile. E proprio da questa contraddizione tra una personalità forte e decisa e una inclinazione tutta femminile a provare, a sfidare l’occasione e il destino, emerge una delle avventure intellettuali più gioiose e genuine della pittura italiana di questi ultimi decenni.
Simona rivela fin dall’inizio una capacità istintiva nell’indagare ipotesi plurime di ricerca. Negli anni Sessanta, ancora fedele alla figurazione filtrata, anticipa strade che saranno percorse da altri a distanza di anni o di decenni, fino a che, aiutata da un clima favorevole a stabilire un rapporto pittura-scrittura, si cimenta con le grazie dell’alfabeto e le parole ripetute, non “in libertà” ma secondo una precisa strategia ritmica che individua un valore pittorico nella mutevolezza, nella ripetizione, nella sovrapposizione, nella metamorfosi, nel ruolo del colore. In principio utilizza la malleveria del segno infantile e attraverso il fondo nero della lavagna accentua nel quadro il valore del messaggio da decrittare, ma presto subentra il mare di lettere, la successione infinita di lettere che diventano increspature di maretta, onde sottili che riprendono contatto con le emozioni che provengono dallo spettacolo della natura. Così il giro si compie per intero: l’astrazione si concretizza nel segno, acquista durezza con il supporto della parola e attraverso la vibrazione del colore ritorna alla evocazione della natura e al culto della bellezza, vissuto in proprio da una donna di grande fascino, ma proiettato nella felicità del segno e nella pienezza del colore.
Simona ha raggiunto maturità e prestigio e potrebbe abbandonarsi alle gioie (?) del mercato, ma non si stanca di sperimentare: scrive lettere d’amore ai grandi che hanno aperto il ciclo dell’arte moderna: a van Gogh, a Seurat, a Mondrian e poi ai cubisti. Lo fa in modo confidenziale al limite della irriverenza; a van Gogh scrive: Caro van Gogh, quando in primavera fuggivamo nei prati; a Seurat: Caro Seurat, aspettando un pomeriggio di domenica per tornare all’isola. A Mondrian: Caro Mondrian, ho sognato il tuo albero... Il procedimento è affettuosamente ironico; la tecnica del divisionismo interessa Simona sempre nel senso della scrittura, il punto di Seurat, come il tratto fibroso di Vincent fanno parte del mondo della interpunzione come la virgola e l’accento e il punto e virgola di cui un quadro celebra l’infinita solitudine e lamenta la condizione permanente di disoccupato. Per una specialista di scrittura questi segni sono fondamentali. Di Mondrian rievoca il progressivo allontanarsi dalla immagine naturalistica e opera un transfert: suggerisce all’austero cultore della teosofia di provare i foglietti cubisti trasformando l’idea dell’albero in un gioco di quadrati permutati matematicamente. Si ha l’impressione che la pittrice si rivolga con tanta gentilezza ai suoi predecessori non per imitarli ma per farsi prestare qualche strumento prezioso da utilizzare per fini del tutto diversi. Perché la sua ironia è caustica e irriverente. Il pomeriggio alla Grand Jatte è oggetto dei decostruzione e riduzione in frammenti incoerenti, fino a trasformarsi, dopo l’analisi e le vivisezioni in una vibrante calligrafia.
L’orgoglio di essere donna e pittrice ha una forte influenza sulla sicurezza e perfino aggressività di molte sue immagini, ma trova il suo esito migliore nella ricostruzione accurata della biografia di due donne pittrici, Angelica Kauffmann e Suzanne Valadon in cui dimostra doti di scrittore di vaglia. E i due libri sulla Valadon fanno capire quanto Simona abbia voluto immergersi nell’aura mitica degli albori della modernità, mescolandosi idealmente a quel gruppo di personalità geniali che abitavano Parigi in quegli anni cruciali.
Nonostante il distacco e l’ironia sui mezzi e sulle eredità da mettere a frutto la pittura di Simona è lirica, senza complessi: in tutti e due i significati della parola, quello che allude al cantare al suono della lira e quello che indica una poesia caratterizzata da soggettivismo. La musica infatti è la condizione alla quale aspira costantemente, svolgendosi nel tempo attraverso il procedimento di lettura che suggerisce: da sinistra verso destra come si conviene a una scrittura, e componendo sempre delle serie, serie di segni, serie di intervalli, serie di inquadrature. L’obiettivo è il tempo da imprigionare nelle immagini; la musicalità una conseguenza di questo godere dello scorrere, del succedersi, dell’incessante fermento della materia viva. Simona siede divertita sul greto del fiume o sulla sponda del mare, o davanti alle fiamme del caminetto, e guarda le forme del movimento, ne studia i segreti per impossessarsene. Ci riesce confezionando delle “lunule”, simili a quelle studiate da Leonardo, combinazioni di segmenti di cerchio, simili a virgole giganti ma corpose, cariche di colore tanto da perdere il valore disegnativo.
La soggettività poi è smaccata e seducente: evoca spesso il quotidiano, l’aneddoto, il ricordo e lo confronta con lo storico con l’importante. Mao è il gatto nero di Lella (lavagna) è il titolo di un quadro dipinto quando infuriava la “rivoluzione culturale”; Se piove la prima uscirà dal portone dell’asilo è un altro titolo. Lo scintillio non è un canto di sirena, ma colore liquido a cui lasciarsi andare; Ad una carta così sono necessari gli azzurri, una scacchiera e l’estate. Titoli così sembrano appunti su un taccuino o parole rivolte dalla pittrice ai quadri che sta facendo, trattati come persone che stentano a capire cosa si chiede loro.
Dovendo trovare una parola che esprime bene il valore e l’eccezionalità della pittura di Simona Weller opterei per la gioia, così raramente presente nella contemporaneità e che si addice a questa ricerca di orizzonti luminosi, di spazi del vento, di cicliche vicende solari, di ondulate sonorità. A patto però che non si confonda la gioia con la spensieratezza e la supina accettazione del presente. Molto bene ha colto la profondità di questa gioia che non ignora, dove rinuncia al colore, la cruda ciclicità e la morte un grande poeta come Elio Pecora: Parole che parlano foglie, / nubi, paludi. / Dentro stretti alfabeti / il mare, la morte. / l’A della attesa, / l’U dello stupore... E parli, ma dentro una rete / di azzurri-verdi-viola, / di gialli assolati, di rossi: / in essi il grido, il sussurro / l’annuncio tardo, segreto, / lo scarno saluto, l’inizio / di un mai concluso discorso.
Ho visitato periodicamente, ad intervalli di decenni gli studi in cui la Weller dipinge e adesso che entrambi abbiamo scelto Calcata come stabile soggiorno, assai più spesso accedo alla sua officina per godere anch’io, amante della natura, della linea curva, delle foglie, del vento e del movimento delle acque e del fuoco, ma anche delle virgole, dei punti e dei punti e virgole disoccupati, di questa sua capacità di raccontarsi e di raccontare emozioni, sentimenti che al cospetto dei suoi quadri tornano a galla da dentro le proprie radici. Perché uno dei pregi dell’arte è proprio quello di nascere da una esasperata soggettività e privatezza per poi generare una magnifica intesa aperta a chi bussa alla porta dell’artista, con la volontà di ascoltare in silenzio.
Simona Weller: tra caos e cosmos
di Claudio Strinati
Simona Weller ha impresso una svolta energica a quella sua tipica grafia a tessitura con cui ha costruito in anni recenti un vero e proprio sistema figurativo
piene di sottili varianti interne ma sorretto da una continuità e una coerenza ammirevoli.
Ne ha detto bene Alberto Veca quando notava, a proposito di certe
opere molto significative della Weller come l’insieme potesse essere percepito quale tabella “dove si accumulano, solo apparentemente a caso, episodi, memorie, appunti di parole e di figure, in un procedere continuo, interrotto solo per i limiti fisici del supporto perché, altrimenti, il discorso sarebbe all’infinito”.
E proprio questo sembra essere successo nella produzione ultima dell’ artista che affronta con maggiore energia e determinazione rispetto al passato il tema del limite apparentemente imposto dal suo stesso linguaggio e poi di fatto superato in un continuo andirivieni di argomenti e spunti sempre nuovi e sempre connessi con un preciso precedente.
In questi lavori che ora l’artista presenta, quale nuovo ciclo dotato di una propria intima organicità, si ha l’impressione che il flusso incessante della gremita scrittura che aveva invaso fino a poco tempo fa lo spazio del suo immaginario si sia ingigantito e trasformato in una sorta di onda irrefrenabile che acquista sempre più spessore e perentorietà.
La discrezione, a ben vedere, sembra essere stata per molto tempo una caratteristica dell’arte di Simona Weller che ha lavorato con la mentalità di certi antichi quando attirano l’ osservatore nel proprio spazio rendendolo edotto, prima di ogni altra cosa, della difficoltà di intendere fino in fondo il linguaggio in sé dell’artista. Questi parla, e nel caso della Weller scrive, ma non necessariamente spiega, e solo chi vuole intendere intenderà. C’è in questo atteggiamento un misto di pudicizia e di orgoglio che ha reso tanti lavori della Weller singolarmente affascinanti.
C’è stata e c’è in lei la consapevolezza di un modo di esprimersi che vela e svela attestandosi su grandi principi strutturali e camminando implacabilmente nello spazio estetico, saturando o allentando la stretta in una ampiezza del segno e dell’ espressione che hanno uno splendido esito nell’armonia della composizione e nella pregnanza del segno. Ma ecco che questa discrezione e questa riservatezza appaiono come violate o perlomeno ripensate nelle opere recentissime. Vi si sente una sorta di “urlo” dell’artista abituata alla micrografia e all’impercettibile succedersi di flussi di materia.
In questi quadri ultimissimi il colore è netto e forte, il segno assume la forma dilatata dei suoi stessi messaggi cifrati, dispersi in mille rivoli e in innumerevoli dettagli, ma adesso come accantonati a favore di un diverso stato d’animo. Ora gli elementi costitutivi dell’opera sono pochi e nettamente definiti. Un impeto di trascinamento del proprio entusiasmo ha ricollocato Simona Weller in uno spazio inatteso che ha molti riferimenti con il suo stesso passato e pochissimi con la tradizione aniconica della pittura italiana.
Un olio su carta di parecchi anni fa si chiama “La pittura è facile e difficile come l’amore”. Ora tutta la sua opera potrebbe intitolarsi così. È evidente che questi lavori recentissimi scaturiscono da un impulso amoroso ed è altrettanto logico che i segni scaturiscano da quell’elemento, il mare, che è stato sempre al centro dell’attenzione dell’artista.
I mari di fuoco che interessarono la Weller già negli anni settanta ritornano rafforzati e felici in una serie da cui scaturisce energia e intima soddisfazione. Tutta l’arte di Simona Weller è “naturale” nel senso che l’ispirazione nasce e si sviluppa attraverso l’osservazione delle trame fitte e multiformi riscontrabili nell’ intrecciarsi degli elementi del mondo che ci circonda tra l’ erba dei prati, la luna nel cielo, il volo degli uccelli, la continuità tra la campagna e il mare, la luce abbacinante del sole.
La Weller fa da sempre una pittura “realistica” perché nulla entra nella sua immaginazione di pittrice che non sia già transitato nel concreto dell’esperienza esistenziale, dove una passeggiata o la lettura di una poesia fanno parte, a parità e a pieno titolo, del bagaglio dell’artista sempre pronta a farne materia vera di espressione.
È remota dal suo orizzonte creativo l’idea dell’astrazione perché le immagini che si formano nell’opera sono vere e sostanziali cognizioni visive che si organizzano in sequenze e in autentici cicli per restituire a chi guarda la stessa tipologia di emozione e di stupefazione che l’artista trova sul suo cammino.
C’è dentro il suo immaginario un’idea antichissima e sempre ricorrente nelle più diverse forme artistiche di epoche remote o incombenti su di noi. È l’idea del contrasto tra Caos e Cosmos che ciascuno conosce a modo suo e ciascuno avverte come principi supremi e ordinatori del tutto.
La Weller è sempre in traccia dei segni delle cose e questi lavori ne danno una vivida immagine in una fase culminante della sua carriera di artista consapevole di sé e del senso profondo della sua pittura, una “lavagna per pensare” come lei stessa ebbe occasione di definirla qualche tempo fa nel titolo di un’opera assai bella.
Roma, Gennaio 2007
Tra i più stimati artisti della sua generazione (anni ’40), la Weller ha esordito nei primi anni Settanta con grandi opere di pittura-scrittura che, rivisitate oggi per questa rassegna, confermano tutta la forza della loro originalità, come ha dimostrato il successo dell’ultima personale tenutasi presso la Galleria Rotta di Genova nella primavera 2008.
La pittura della Weller:
Anche in questa mostra romana, il segno-grafia tipico della Weller da più di trent’anni, oscilla tra due poli opposti: micro e macroscopico. Le “parole dipinte” diventano di volta in volta un ductus microscopico su alcune tele e macroscopico su altre. Le opere più recenti sperimentano il fondo grezzo della tela di juta, in cui i frammenti ingranditi delle parole amate dall’artista (mare, erba, grano, alba) si trasformano in moduli allineati come nella scrittura. Tali moduli hanno una dinamicità interna che li fa apparire come spinti da una forza nervosa, simile a quella che produce il vento con le onde del mare.
Negli anni Settanta l’artista aveva proposto quadri a fondo nero, sorta di tele che mimavano lavagne in cui la grafia fantasticava un dialogo muto tra l’infanzia e pittori e poeti a lei congeniali. Recentemente la Weller ha riproposto anche le lavagne, che mostrano una maggiore consapevolezza e maturità. Si deve sempre a quel periodo il passaggio della Weller dalla struttura della pagina di quaderno a quella di opere in cui la parola si trasforma in trama dipinta, ispirata a quelli che lei definiva “paesaggi mentali”, anche questi ultimi, oggi rivisitati in un ciclo di opere di grande intensità.
Agli anni Ottanta invece, appartiene la scoperta della parola come modulo. Ne nascono opere per certi versi più astratte, ovvero non riconducibili a nessun tipo di suggestione naturalistica, anche a causa della potente struttura, quasi geometrica, che le caratterizza all’interno.
Degli anni Novanta è una ricerca irripetibile e unica nel suo genere, in cui gli stessi moduli degli anni precedenti escono dal supporto e si fanno rilievo. Da queste opere nasce in modo molto naturale tutta la serie delle sculture e degli oggetti in ceramica.
Agli anni Duemila infine appartiene il ciclo “Lettere di una pittrice italiana a Van Gogh” che indaga in modo concettuale il rapporto tra grafia e immagine.
Chi è Simona Weller:
Nata a Roma nel 1940. Dopo gli studi classici si diploma all’Accademia di Belle Arti con Ferrazzi e Mafai. Dal 1960 al 1963 viaggia e lavora in Thailandia ed Egitto. Nel 1964 vive alcuni mesi a Madrid. In questo periodo la sua pittura risente di un surrealismo di natura, dovuto alla frequentazione dei musei e a un lungo ritiro nella campagna umbra. Nel 1970, tornata a Roma, diventa compagna di Cesare Vivaldi con cui frequenta le personalità più interessanti del mondo letterario ed artistico. Comincia ad insegnare come assistente di Giulio Turcato e nel 1973 esordisce alla Quadriennale di Roma con grandi tele di pittura-scrittura. In questi anni è segnalata al Premio Bolaffi da Giuliano Briganti, da Marcello Venturoli e da Cesare Vivaldi tra i giovani artisti più interessanti del momento. Nel 1976 pubblica il primo saggio sulle artiste italiane del XX secolo: Il Complesso di Michelangelo. Da questo momento la sua ricerca pittorica sarà sempre affiancata da quella saggistica e letteraria. Nel 1978 è invitata alla Biennale di Venezia e al F.I.A.C. di Parigi. Nel 1980 tiene la sua prima antologica alla Pinacoteca di Macerata e un corso speciale all’Accademia di Belle Arti di Roma. Nello stesso anno inizia la collaborazione al mensile Noi Donne, dove avrà una sua rubrica fino al 1996. Dal 1980 lavora regolarmente la ceramica presso la fabbrica L’Antica di Deruta, partecipando al progetto culturale Deruta 2000 e alla mostra scambio Algeri-Deruta. Dalla fine degli anni ’90 affianca la pittura con l’impegno letterario pubblicando alcuni romanzi storici sulla vita di pittrici celebri. Alcuni cicli delle sue opere pittoriche hanno come tema “la lettera”. Il più recente è Lettere di una pittrice italiana a Van Gogh che le è valso nel 2003 l’invito per una mostra itinerante in Olanda. Negli ultimi vent’anni ha eseguito lavori in ceramica a Deruta, dove ha elaborato nuove forme e nuovi decori. Nel 2005 due musei liguri hanno celebrato quarant’anni di attività della Weller con la mostra antologica Verba Picta. L'8 marzo del 2006, su indicazione del premio nobel Rita Levi Montalcini, il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, le ha conferito l'onorificenza di commendatore per meriti culturali.
Descrizione della mostra:
La mostra si avvale di venti opere recenti a olio su tela e ad acrilico su tela di juta, affiancate da dieci opere degli anni Settanta a tecnica mista.
L’esposizione sarà integrata da una campionatura di sculture in ceramica e oggetti d’uso modellati in forme non tradizionali.
Simona Weller
di Paolo Portoghesi
Penso al mio dipingere un quadro dopo l’altro, / un anno dopo l’altro, come ad un’onda che spinta dal vento si formi e si riformi. / Il mare resta là come l’arte, come la pittura, pronto a cambiare, / ma nello stesso tempo immutabile. / Al contrario dell’onda, io so che non posso cambiare il mare, la pittura, l’arte, / ma esattamente come l’onda percorrerò il mare, la pittura, l’arte / fino a quella spumeggiante e (mi auguro invidiabile) fine.
Simona Weller, nata con due vocazioni autentiche per la pittura e per la scrittura, si racconta in queste parole come nessun altro ha saputo fare. Anzitutto fa i conti con il mare, uno dei protagonisti del suo esserci e si descrive in perenne percorso pronta a cambiare, ma sicura di avere dentro di se qualcosa di immutabile. E proprio da questa contraddizione tra una personalità forte e decisa e una inclinazione tutta femminile a provare, a sfidare l’occasione e il destino, emerge una delle avventure intellettuali più gioiose e genuine della pittura italiana di questi ultimi decenni.
Simona rivela fin dall’inizio una capacità istintiva nell’indagare ipotesi plurime di ricerca. Negli anni Sessanta, ancora fedele alla figurazione filtrata, anticipa strade che saranno percorse da altri a distanza di anni o di decenni, fino a che, aiutata da un clima favorevole a stabilire un rapporto pittura-scrittura, si cimenta con le grazie dell’alfabeto e le parole ripetute, non “in libertà” ma secondo una precisa strategia ritmica che individua un valore pittorico nella mutevolezza, nella ripetizione, nella sovrapposizione, nella metamorfosi, nel ruolo del colore. In principio utilizza la malleveria del segno infantile e attraverso il fondo nero della lavagna accentua nel quadro il valore del messaggio da decrittare, ma presto subentra il mare di lettere, la successione infinita di lettere che diventano increspature di maretta, onde sottili che riprendono contatto con le emozioni che provengono dallo spettacolo della natura. Così il giro si compie per intero: l’astrazione si concretizza nel segno, acquista durezza con il supporto della parola e attraverso la vibrazione del colore ritorna alla evocazione della natura e al culto della bellezza, vissuto in proprio da una donna di grande fascino, ma proiettato nella felicità del segno e nella pienezza del colore.
Simona ha raggiunto maturità e prestigio e potrebbe abbandonarsi alle gioie (?) del mercato, ma non si stanca di sperimentare: scrive lettere d’amore ai grandi che hanno aperto il ciclo dell’arte moderna: a van Gogh, a Seurat, a Mondrian e poi ai cubisti. Lo fa in modo confidenziale al limite della irriverenza; a van Gogh scrive: Caro van Gogh, quando in primavera fuggivamo nei prati; a Seurat: Caro Seurat, aspettando un pomeriggio di domenica per tornare all’isola. A Mondrian: Caro Mondrian, ho sognato il tuo albero... Il procedimento è affettuosamente ironico; la tecnica del divisionismo interessa Simona sempre nel senso della scrittura, il punto di Seurat, come il tratto fibroso di Vincent fanno parte del mondo della interpunzione come la virgola e l’accento e il punto e virgola di cui un quadro celebra l’infinita solitudine e lamenta la condizione permanente di disoccupato. Per una specialista di scrittura questi segni sono fondamentali. Di Mondrian rievoca il progressivo allontanarsi dalla immagine naturalistica e opera un transfert: suggerisce all’austero cultore della teosofia di provare i foglietti cubisti trasformando l’idea dell’albero in un gioco di quadrati permutati matematicamente. Si ha l’impressione che la pittrice si rivolga con tanta gentilezza ai suoi predecessori non per imitarli ma per farsi prestare qualche strumento prezioso da utilizzare per fini del tutto diversi. Perché la sua ironia è caustica e irriverente. Il pomeriggio alla Grand Jatte è oggetto dei decostruzione e riduzione in frammenti incoerenti, fino a trasformarsi, dopo l’analisi e le vivisezioni in una vibrante calligrafia.
L’orgoglio di essere donna e pittrice ha una forte influenza sulla sicurezza e perfino aggressività di molte sue immagini, ma trova il suo esito migliore nella ricostruzione accurata della biografia di due donne pittrici, Angelica Kauffmann e Suzanne Valadon in cui dimostra doti di scrittore di vaglia. E i due libri sulla Valadon fanno capire quanto Simona abbia voluto immergersi nell’aura mitica degli albori della modernità, mescolandosi idealmente a quel gruppo di personalità geniali che abitavano Parigi in quegli anni cruciali.
Nonostante il distacco e l’ironia sui mezzi e sulle eredità da mettere a frutto la pittura di Simona è lirica, senza complessi: in tutti e due i significati della parola, quello che allude al cantare al suono della lira e quello che indica una poesia caratterizzata da soggettivismo. La musica infatti è la condizione alla quale aspira costantemente, svolgendosi nel tempo attraverso il procedimento di lettura che suggerisce: da sinistra verso destra come si conviene a una scrittura, e componendo sempre delle serie, serie di segni, serie di intervalli, serie di inquadrature. L’obiettivo è il tempo da imprigionare nelle immagini; la musicalità una conseguenza di questo godere dello scorrere, del succedersi, dell’incessante fermento della materia viva. Simona siede divertita sul greto del fiume o sulla sponda del mare, o davanti alle fiamme del caminetto, e guarda le forme del movimento, ne studia i segreti per impossessarsene. Ci riesce confezionando delle “lunule”, simili a quelle studiate da Leonardo, combinazioni di segmenti di cerchio, simili a virgole giganti ma corpose, cariche di colore tanto da perdere il valore disegnativo.
La soggettività poi è smaccata e seducente: evoca spesso il quotidiano, l’aneddoto, il ricordo e lo confronta con lo storico con l’importante. Mao è il gatto nero di Lella (lavagna) è il titolo di un quadro dipinto quando infuriava la “rivoluzione culturale”; Se piove la prima uscirà dal portone dell’asilo è un altro titolo. Lo scintillio non è un canto di sirena, ma colore liquido a cui lasciarsi andare; Ad una carta così sono necessari gli azzurri, una scacchiera e l’estate. Titoli così sembrano appunti su un taccuino o parole rivolte dalla pittrice ai quadri che sta facendo, trattati come persone che stentano a capire cosa si chiede loro.
Dovendo trovare una parola che esprime bene il valore e l’eccezionalità della pittura di Simona Weller opterei per la gioia, così raramente presente nella contemporaneità e che si addice a questa ricerca di orizzonti luminosi, di spazi del vento, di cicliche vicende solari, di ondulate sonorità. A patto però che non si confonda la gioia con la spensieratezza e la supina accettazione del presente. Molto bene ha colto la profondità di questa gioia che non ignora, dove rinuncia al colore, la cruda ciclicità e la morte un grande poeta come Elio Pecora: Parole che parlano foglie, / nubi, paludi. / Dentro stretti alfabeti / il mare, la morte. / l’A della attesa, / l’U dello stupore... E parli, ma dentro una rete / di azzurri-verdi-viola, / di gialli assolati, di rossi: / in essi il grido, il sussurro / l’annuncio tardo, segreto, / lo scarno saluto, l’inizio / di un mai concluso discorso.
Ho visitato periodicamente, ad intervalli di decenni gli studi in cui la Weller dipinge e adesso che entrambi abbiamo scelto Calcata come stabile soggiorno, assai più spesso accedo alla sua officina per godere anch’io, amante della natura, della linea curva, delle foglie, del vento e del movimento delle acque e del fuoco, ma anche delle virgole, dei punti e dei punti e virgole disoccupati, di questa sua capacità di raccontarsi e di raccontare emozioni, sentimenti che al cospetto dei suoi quadri tornano a galla da dentro le proprie radici. Perché uno dei pregi dell’arte è proprio quello di nascere da una esasperata soggettività e privatezza per poi generare una magnifica intesa aperta a chi bussa alla porta dell’artista, con la volontà di ascoltare in silenzio.
Simona Weller: tra caos e cosmos
di Claudio Strinati
Simona Weller ha impresso una svolta energica a quella sua tipica grafia a tessitura con cui ha costruito in anni recenti un vero e proprio sistema figurativo
piene di sottili varianti interne ma sorretto da una continuità e una coerenza ammirevoli.
Ne ha detto bene Alberto Veca quando notava, a proposito di certe
opere molto significative della Weller come l’insieme potesse essere percepito quale tabella “dove si accumulano, solo apparentemente a caso, episodi, memorie, appunti di parole e di figure, in un procedere continuo, interrotto solo per i limiti fisici del supporto perché, altrimenti, il discorso sarebbe all’infinito”.
E proprio questo sembra essere successo nella produzione ultima dell’ artista che affronta con maggiore energia e determinazione rispetto al passato il tema del limite apparentemente imposto dal suo stesso linguaggio e poi di fatto superato in un continuo andirivieni di argomenti e spunti sempre nuovi e sempre connessi con un preciso precedente.
In questi lavori che ora l’artista presenta, quale nuovo ciclo dotato di una propria intima organicità, si ha l’impressione che il flusso incessante della gremita scrittura che aveva invaso fino a poco tempo fa lo spazio del suo immaginario si sia ingigantito e trasformato in una sorta di onda irrefrenabile che acquista sempre più spessore e perentorietà.
La discrezione, a ben vedere, sembra essere stata per molto tempo una caratteristica dell’arte di Simona Weller che ha lavorato con la mentalità di certi antichi quando attirano l’ osservatore nel proprio spazio rendendolo edotto, prima di ogni altra cosa, della difficoltà di intendere fino in fondo il linguaggio in sé dell’artista. Questi parla, e nel caso della Weller scrive, ma non necessariamente spiega, e solo chi vuole intendere intenderà. C’è in questo atteggiamento un misto di pudicizia e di orgoglio che ha reso tanti lavori della Weller singolarmente affascinanti.
C’è stata e c’è in lei la consapevolezza di un modo di esprimersi che vela e svela attestandosi su grandi principi strutturali e camminando implacabilmente nello spazio estetico, saturando o allentando la stretta in una ampiezza del segno e dell’ espressione che hanno uno splendido esito nell’armonia della composizione e nella pregnanza del segno. Ma ecco che questa discrezione e questa riservatezza appaiono come violate o perlomeno ripensate nelle opere recentissime. Vi si sente una sorta di “urlo” dell’artista abituata alla micrografia e all’impercettibile succedersi di flussi di materia.
In questi quadri ultimissimi il colore è netto e forte, il segno assume la forma dilatata dei suoi stessi messaggi cifrati, dispersi in mille rivoli e in innumerevoli dettagli, ma adesso come accantonati a favore di un diverso stato d’animo. Ora gli elementi costitutivi dell’opera sono pochi e nettamente definiti. Un impeto di trascinamento del proprio entusiasmo ha ricollocato Simona Weller in uno spazio inatteso che ha molti riferimenti con il suo stesso passato e pochissimi con la tradizione aniconica della pittura italiana.
Un olio su carta di parecchi anni fa si chiama “La pittura è facile e difficile come l’amore”. Ora tutta la sua opera potrebbe intitolarsi così. È evidente che questi lavori recentissimi scaturiscono da un impulso amoroso ed è altrettanto logico che i segni scaturiscano da quell’elemento, il mare, che è stato sempre al centro dell’attenzione dell’artista.
I mari di fuoco che interessarono la Weller già negli anni settanta ritornano rafforzati e felici in una serie da cui scaturisce energia e intima soddisfazione. Tutta l’arte di Simona Weller è “naturale” nel senso che l’ispirazione nasce e si sviluppa attraverso l’osservazione delle trame fitte e multiformi riscontrabili nell’ intrecciarsi degli elementi del mondo che ci circonda tra l’ erba dei prati, la luna nel cielo, il volo degli uccelli, la continuità tra la campagna e il mare, la luce abbacinante del sole.
La Weller fa da sempre una pittura “realistica” perché nulla entra nella sua immaginazione di pittrice che non sia già transitato nel concreto dell’esperienza esistenziale, dove una passeggiata o la lettura di una poesia fanno parte, a parità e a pieno titolo, del bagaglio dell’artista sempre pronta a farne materia vera di espressione.
È remota dal suo orizzonte creativo l’idea dell’astrazione perché le immagini che si formano nell’opera sono vere e sostanziali cognizioni visive che si organizzano in sequenze e in autentici cicli per restituire a chi guarda la stessa tipologia di emozione e di stupefazione che l’artista trova sul suo cammino.
C’è dentro il suo immaginario un’idea antichissima e sempre ricorrente nelle più diverse forme artistiche di epoche remote o incombenti su di noi. È l’idea del contrasto tra Caos e Cosmos che ciascuno conosce a modo suo e ciascuno avverte come principi supremi e ordinatori del tutto.
La Weller è sempre in traccia dei segni delle cose e questi lavori ne danno una vivida immagine in una fase culminante della sua carriera di artista consapevole di sé e del senso profondo della sua pittura, una “lavagna per pensare” come lei stessa ebbe occasione di definirla qualche tempo fa nel titolo di un’opera assai bella.
Roma, Gennaio 2007
10
ottobre 2008
Simona Weller – Parola di Weller
Dal 10 ottobre al 15 novembre 2008
arte contemporanea
Location
GALLERIA RICERCA D’ARTE
Roma, Via Di Monserrato, 121/a, (Roma)
Roma, Via Di Monserrato, 121/a, (Roma)
Orario di apertura
dal lunedì pomeriggio al sabato (11-13 / 16.30-20
Vernissage
10 Ottobre 2008, ore 16.30
Sito web
www.simonaweller.com
Autore
Curatore