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31
marzo 2012
Marco Tirelli. Metafisica della geometria in pittura
Personaggi
La pittura di Marco Tirelli è il frutto di un complesso processo intellettuale che, partendo dalla registrazione di dati reali, arriva a distillare forme pure. Astrazione come strumento perfetto per costruire sulla superficie della tela delle superbe “scenografie dell’immaginario”, composte di frammenti di realtà. Venticinque opere inedite, al Macro Testaccio per creare un percorso di alternanza fra luce e ombra, vuoto e pieno [di Paola Ugolini]
Marco Tirelli, classe 1956, ha studiato scenografia ed è stato allievo del poeta e pittore Toti Scialoja, dalla fine degli anni ’70 lavora in un grande studio luminoso che sembra appoggiato sui tetti del quartiere San Lorenzo a Roma. Quest’artista apparentemente informale con metodo e ostinazione, fin dai primissimi anni ’80, ha immaginato di poter realizzare una mappatura visiva del mondo fisico per mezzo di semplici forme geometriche.
Così come Cezanne teorizzava che la natura fosse riconducibile alla semplicità volumetrica dei solidi, Tirelli sperimenta la possibilità di archiviazione formale della fenomenologia fisica per mezzo della metafisica geometrica.
Le sue opere rappresentano non solo il distillato formale del suo pensiero ma, soprattutto, una sorta di sensibilissimo diaframma fra il suo mondo interiore, mentale, quello cioè che rielabora gli stimoli percettivi in forme geometriche, e il mondo esteriore in cui vivono le immagini oggettive. Le forme di Marco Tirelli trascendono la barriera fisica della tela, le sue costruzioni formali attirano lo sguardo dello spettatore dentro la pittura per portarlo oltre la rappresentazione in modo da fargli immaginare altri luoghi e altri possibili mondi.
Questo rigoroso uso della geometria come strumento di semplificazione, non è certo solo una speculazione astratta di matrice freddamente minimalista, ma un vero e proprio esercizio mentale volto soprattutto ad asciugare formalmente le sue visioni fenomenologiche. Le sue opere affondano le loro radici nella scia della razionale geometria di matrice Suprematista o Costruttivista, ma è anche vero che, grazie al suo essere un artista mediterraneo, quel nordico rigore nelle sue tele si umanizza e si “scalda” facendole diventare dei metafisici “distillati di realtà”.
Marco Tirelli costruisce delle superbe scenografie dell’immaginario, o meglio di un suo personale immaginario fatto di frammenti di realtà che, decontestualizzata e isolata, diventa imponente, assoluta e atemporale.
L’artista, per spiegare la sua poetica, ama ricorrere a un esempio tanto semplice quanto efficace: paragona le sue opere alla finestra della sua casa di campagna affacciata sul buio della notte, un buio materico profondo e totale che avvolge e nasconde tutto. Da questa finestra, con una torcia, come un moderno demiurgo illumina un piccolo frammento del quadrato nero del mondo circostante, rivelandolo allo sguardo gli infonde vita facendolo così diventare il protagonista solitario di un tutto che però è costantemente cancellato e negato.
Catalogare le forme del mondo, riducendole a concetti geometrici apparentemente astratti, è un continuo esercizio che quest’artista riporta con ossessivo metodo e certosina pazienza da più di trent’anni nei suoi diari di immagini, un’opera omnia che racchiude gli stimoli visivi e intellettuali di una lunga carriera di inventore di metafisici teatri della memoria. La ricerca dello scambio reciproco e continuo fra immagine pensata e forma espressa è filosoficamente riconducibile a Platone e alla sua caverna, il mitico luogo in cui si riflette una realtà frammentaria. Le forme: il quadrato, la sfera, il recinto, la scala o la spirale nelle opere di Tirelli non sono mai “alte o basse”, non esiste una forma preponderante o più nobile delle altre, sono tutte livellate su uno stesso piano visivo che, annullando i riferimenti qualitativi, le riporta a una sorta di tabula rasa percettiva che, scevra da giudizi e preconcetti, le rende universali.
Nel 1992, la Galleria Civica di Modena, ha ospitato la prima grande mostra antologica di Tirelli, oggi, nel 2012, esattamente dieci anni dopo, fino al 13 maggio i due padiglioni del Museo MACRO Testaccio presenteranno la prima grande mostra monografica romana a lui dedicata, a cura di Bartolomeo Pietromarchi, in una sorta di proseguimento ideale del lavoro realizzato dall’artista dopo quella data.
Le venticinque opere inedite, tutte alte tre metri e ideate appositamente per gli spazi del museo sono giocate sul contrasto bianco/nero per creare quello scenografico percorso di alternanza fra luce e ombra, vuoto e pieno che è la cifra stilistica distintiva dell’artista. In questi grandi nuovi lavori che indagano in maniera approfondita il rapporto tra forma e luce e tra forma riconoscibile e astrazione le figure, imponenti e assolute, sembrano emergere dalla tela, come se l’artista, lasciatosi alle spalle la bidimensionalità iniziale, cercasse di realizzare sulla superficie piatta del quadro un’immagine avvolgente e dai volumi scultorei. Il ritmo della mostra è dato anche dall’apparente contrasto espositivo che, in realtà, mette in intima relazione i due padiglioni, che diventano anticipazione e “prologo” l’uno dell’altro. Il primo è infatti allestito in maniera tradizionale con le opere alternate ritmicamente lungo le pareti, in una sorta di “continuum” visivo quasi cinematografico, mentre il secondo è stato completamente ripensato dall’artista con un’installazione ambientale “site specific”. Lo spazio, trasformato da Marco Tirelli in una sorta di luogo sacro e meditativo, è la migliore rappresentazione formale di quel “teatro della memoria” che come un “fil rouge” lega concettualmente tutto il suo lavoro. L’intento dell’artista, per altro perfettamente riuscito, è il voler coinvolgere lo spettatore in un’esperienza totale e straniante dentro un microcosmo che racconta un macrocosmo. In quello spazio conchiuso e metafisico c’è la summa del suo percorso creativo, come se le idee dalla mente dell’artista siano esplose sulle pareti dove le opere, in perenne bilico fra riconoscibilità e astrazione, sembrano dialogare fra loro.
Se quella che stiamo vivendo è, come penso, l’epoca in cui finalmente le sperimentazioni concettuali si riconcilieranno con la ricerca pittorica, allora Tirelli è tra gli artisti che hanno saputo (già da tempo a dire il vero) prendere questa direzione. Quando all’inizio degli anni Ottanta ci fu il boom della Transavanguardia, il ritorno alla pittura assecondava più che altro una richiesta del mercato. I percorsi artistici di Paladino, De Maria, Cucchi, Clemente e Chia (notevoli, s’intende) hanno seguito infatti strade divergenti. Se la tendenza alla figurazione, che poi è l’approccio più istintivo alla pittura, continuerà per sempre a caratterizzare una parte della produzione artistica, è innnegabile che oggi la ricerca e la sperimentazione in pittura non possono fare a meno di confrontarsi con le correnti astratte del Novecento e di inserirsi in quel solco. Si parla tanto di sovraproduzione artistica: siamo inondati dalle immagini da quando la fotografia e il cinema hanno ereditato dall’arte figurativa il compito di rappresentare la realtà. Credo però che il nostro presente, in cui l’esigenza primaria è uscire da (o quantomeno adattarsi a) una cupa crisi culturale, sociale ed economica, spinga nuovamente verso la ricerca dell’armonia e dell’equilibrio (che di questi tempi hanno poco in comune con il reale). La capacità di fondere la concretezza del gesto (pittura, disegno, composizione) con la ricerca puramente mentale è dunque, a mio parere, requisito essenziale per fare arte oggi. La nuova frontiera potrebbe essere riuscire nell’impresa non solo con i media tradizionali, ma con la fotografia e i nuovi mezzi tecnologici.