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Stefania Stasi – In nomine patris
“…Egli e la sua figlia artista sono ora, vedete?, sotto la stessa lumescenza.
Ma chi è l’autore? Stanno lì, presso il miracolo di una luce miracolosa…”
Comunicato stampa
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Noi che amiamo un certo rallentamento, un certo ozio di inerzia di fumo di Camel che sale verticale se non c’è vento nei caffè all’aperto nel ‘Sud del Sud dei Santi’, che non amiamo un granché la ferocia ideologica della salvezza che viene dalle tecniche, e neanche un po’ l’intero mito del moderno (dei ‘modi’ dico, delle ‘mode’, degli stili – stiletti, copiati dall’esterno), noi che non rinunciammo affatto alla carne, ma pure non affetti dallo scisma giudaico tra materia e spirito pure fummo, siamo alla ricerca di una forma (o dello spirito?) che resti illesa e intransitiva e non seppellisca come ulteriore sepolcro un altro sepolcro di forme, noi vediamo i dagherrotipi di Stefania Stasi e pensiamo con la nostalgia del non vissuto a Luisito Suarez che corre su campi di calcio in bianco e nero mentre segna da quaranta metri come un fantasma efficiente, noi pensiamo alla formidabile ascesi attoriale del teatro di Pippo Delbono, dove il corpo è scarnificazione, piaga nuda, relitto in deriva, ma anche folgore, realtà, sinolo di cose vissute e da vivere, casa di spirito, resistenza.
Noi che siamo scrittori e non critici d’arte (noi neghiamo la critica d’arte e forse anche l’arte, fuorché non sia la vita) forse non siamo idonei a parlare dell’oggetto che resta, ma ciò anche ci interessa poco. Ci interessa invece l’amore o il suo stato. Ci interessa l’azione che va verso le forme perenni che restano illustri e uraniche, l’anagogia di cui Dante dice, insomma.
Questo stato fragile, questo amare, questa azione il cui effetto umano è talvolta incerto, ma la cui direzione resta chiara, perché sia tale deve difendersi. Deve restare al riparo da ogni retorica, ma in prima linea nel luogo dal quale parte il colpo di stecca di biliardo del tempo che si incassa, si imbuca.
La folgorazione delle foto della Stasi è quello stato, è quel luogo.
Più rapida del tempo che ho di pensare, più della teoria dell’arte, di ogni filosofia estetica, essa non porta con sé l’analessi di un aver meditato per guardare o al contrario di un guardare che è meditazione (mediazione). Quella vista sul nudo, quella camera oscura è occhio che si apre con la delicata crudeltà di un fiore di Eliot nell’aprile risorgivo. Questa crudeltà dell’amare è l’arte alta dell’essere oltre l’esistere, è l’arte alta di scaccare il tempo in ferita, pur riconoscendola. Questo non evitare l’oggetto mette l’arte della Stasi al sicuro dalla doppia scure del troppo realismo di sole povere cose che rimangono nel mondo, o del troppo idealismo di essere sguardo piegato dall’amore letto come pietà.
Insomma la luce vibrante che sgocciola dal volto del padre, che risuona nel suo nome - effigie è ontologica e non esistenziale. Perché nel momento in cui vedete le foto voi vedete in un solo colpo l’occhio nudo della figlia, la luce del mondo che muore, il sorriso sardonico, infinitamente dolororoso, infinitamente ironico, del padre. Questa macchina fotografica non ha compiuto un miracolo di sovrimpressione finalmente. Qui non c’è nessuna finzione, nessuno spazio per la boria senza passione dei borghesi, che sono solitamente senza corpo (e quindi senza morte, né piacere, né dolore), e senza spirito (senza agire amoroso).
Il volto del padre dell’artista è fantasma che si dilegua, ma anche corpo e spirito che restano, e si legge l’enfisema nella forma del torace, l’insufficienza cardiaca nella congestione venosa che talvolta trabocca sotto la luce. E’ ciò che resta, ciò che si trasforma.
Egli ha il sorriso di Luisito Suarez dopo una rete da quaranta metri, la malinconia degli occhi che fa ridere di Macario al cabaret della metà del secolo scorso, la maschera irreparabile di Carmelo Bene durante l’Amlet Suite un po’ prima che chieda di volersi sposare con una brava ragazza di campagna, l’ovale di Alberto Sordi.
Egli e la sua figlia artista sono ora, vedete?, sotto la stessa lumescenza.
Ma chi è l’autore? Stanno lì, presso il miracolo di una luce miracolosa che si riceve delicata in stato di crisalide; nascita ancora, di nuovo di nuovo, infinita trasparenza, oh troppa trasparenza, nudità, visione, verità.
Noi che siamo scrittori e non critici d’arte (noi neghiamo la critica d’arte e forse anche l’arte, fuorché non sia la vita) forse non siamo idonei a parlare dell’oggetto che resta, ma ciò anche ci interessa poco. Ci interessa invece l’amore o il suo stato. Ci interessa l’azione che va verso le forme perenni che restano illustri e uraniche, l’anagogia di cui Dante dice, insomma.
Questo stato fragile, questo amare, questa azione il cui effetto umano è talvolta incerto, ma la cui direzione resta chiara, perché sia tale deve difendersi. Deve restare al riparo da ogni retorica, ma in prima linea nel luogo dal quale parte il colpo di stecca di biliardo del tempo che si incassa, si imbuca.
La folgorazione delle foto della Stasi è quello stato, è quel luogo.
Più rapida del tempo che ho di pensare, più della teoria dell’arte, di ogni filosofia estetica, essa non porta con sé l’analessi di un aver meditato per guardare o al contrario di un guardare che è meditazione (mediazione). Quella vista sul nudo, quella camera oscura è occhio che si apre con la delicata crudeltà di un fiore di Eliot nell’aprile risorgivo. Questa crudeltà dell’amare è l’arte alta dell’essere oltre l’esistere, è l’arte alta di scaccare il tempo in ferita, pur riconoscendola. Questo non evitare l’oggetto mette l’arte della Stasi al sicuro dalla doppia scure del troppo realismo di sole povere cose che rimangono nel mondo, o del troppo idealismo di essere sguardo piegato dall’amore letto come pietà.
Insomma la luce vibrante che sgocciola dal volto del padre, che risuona nel suo nome - effigie è ontologica e non esistenziale. Perché nel momento in cui vedete le foto voi vedete in un solo colpo l’occhio nudo della figlia, la luce del mondo che muore, il sorriso sardonico, infinitamente dolororoso, infinitamente ironico, del padre. Questa macchina fotografica non ha compiuto un miracolo di sovrimpressione finalmente. Qui non c’è nessuna finzione, nessuno spazio per la boria senza passione dei borghesi, che sono solitamente senza corpo (e quindi senza morte, né piacere, né dolore), e senza spirito (senza agire amoroso).
Il volto del padre dell’artista è fantasma che si dilegua, ma anche corpo e spirito che restano, e si legge l’enfisema nella forma del torace, l’insufficienza cardiaca nella congestione venosa che talvolta trabocca sotto la luce. E’ ciò che resta, ciò che si trasforma.
Egli ha il sorriso di Luisito Suarez dopo una rete da quaranta metri, la malinconia degli occhi che fa ridere di Macario al cabaret della metà del secolo scorso, la maschera irreparabile di Carmelo Bene durante l’Amlet Suite un po’ prima che chieda di volersi sposare con una brava ragazza di campagna, l’ovale di Alberto Sordi.
Egli e la sua figlia artista sono ora, vedete?, sotto la stessa lumescenza.
Ma chi è l’autore? Stanno lì, presso il miracolo di una luce miracolosa che si riceve delicata in stato di crisalide; nascita ancora, di nuovo di nuovo, infinita trasparenza, oh troppa trasparenza, nudità, visione, verità.
27
aprile 2008
Stefania Stasi – In nomine patris
Dal 27 aprile al 31 maggio 2008
fotografia
arte contemporanea
arte contemporanea
Location
ENOTECA RISTORANTE FALSOPEPE
Massafra, Via Santi Ii Medici, 42, (Taranto)
Massafra, Via Santi Ii Medici, 42, (Taranto)
Orario di apertura
da mercoledì a domenica ore 19-01.00
Vernissage
27 Aprile 2008, ore 18.30
Autore