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Made to Measure
Una mostra che mette in scena il presente, soprattutto il messaggio delle nuove generazioni; la loro libertà di esprimersi, senza scontrarsi con l’ipocrisia dominante, di truccarsi anche quando non ce ne sarebbe bisogno
Comunicato stampa
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MADE TO MEASURE di Luciano Inga-Pin
Questa è la mia 87° mostra in uno spazio pubblico ed anche questa non tradisce di un solo millimetro la determinazione di rappresentare la contemporaneità non solo dell’arte, ma della vita stessa, della società che rappresentiamo o, meglio, che siamo costretti a rappresentare, spesso nostro malgrado.
Da sempre, da quando ho iniziato ad occuparmene quotidianamente, ho volutamente rinunciato alle grandi lezioni del passato, al restauro delle ideologie, a frequentare vecchie pinacoteche o musei fatiscenti come se dovessi poi presentarmi all’ennesimo esame di maturità.
Fin da piccolo, inventandomi persino linguaggi nuovi, inesistenti, ho cercato di appropriarmi esclusivamente del presente, di vivere giorno per giorno in mezzo alle etnie più diverse, studiando e analizzando ciò che quelle ore mi offrivano. In poche parole: non ho mai tradito per un solo istante il presente, con le sue emozioni, le sue delusioni.
Anche qui voglio presentare il presente, soprattutto il messaggio delle nuove generazioni; la loro libertà di esprimersi, senza scontrarsi con l’ipocrisia dominante, di truccarsi anche quando non ce ne sarebbe bisogno, di fare musica anche quando è solo rumore. Rimpiangere poi il passato è semplicemente inutile: è come mangiare tutti i giorni la solita minestra, incontrare gli stessi amici, non uscire dal proprio quartiere. E Londra, New York, Berlino dove li metti?
Se non proprio fisicamente, la nuova generazione dell’arte un treno, un aereo, finisce per prenderlo con la fantasia, gironzolando con i siti, ascoltando gli altri che ci sono andati veramente, andando più frequentemente al cinema, a teatro, riempiendosi di immagini — un paio di miliardi al giorno come minimo. Ognuno è come se si proponesse di oltrepassare le differenze, di annientare con qualunque mezzo il vuoto esistenziale. Non per niente in campo artistico si sfruttano tutte le tecniche possibili, nessuna esclusa, pur di raggiungere un possibile, dignitoso traguardo e facendo persino eseguire l’opera da altri, da un gruppo di tecnici, dall’altra parte del continente. Noti artisti del pennello sono coadiuvati da due, tre, dieci assistenti che dipingono per loro. Qualcuno, Kiefer per esempio, ha una sua propria azienda di spedizioni. Perché meravigliarsene?
Vere scuole d’arte come in passato, piaccia o no, l’arte di oggi è diventata un vero e proprio oggetto di comunicazione e per questa semplice ragione segue tutte le leggi, nessuna esclusa, del “medianismo”. Come ha sottolineato più volte Gabriele Perretta, siamo arrivati alla visione del molteplice: un solo personaggio sulla scena non ci basta più. Come capita spesso a teatro, ad un certo punto occorre un colpo di fulmine, la sarabanda di un combattimento, perché il pubblico riprenda a battere le mani.
Se adesso prendiamo in rassegna i nostri ospiti, c’è quasi da stupirsi. Alcuni hanno compiuto da poco ventenni come Pasquale Gadaleta (1988) e Michele D’Agostino (idem) e stanno riscuotendo un successo incredibile sia di pubblico che di mercato. La loro ironia piace. Ma a ruota, a solo tre, quattro anni di distanza, come Tommaso Chiappa (1983) o Stefano Spera (idem) e Matteo Antonimi (1984) seguono tre eccellenti pittori con una serie di immagini da mozzafiato, tanto è ormai la loro abilità per inquadrare il soggetto, sviluppare un’entusiasmante evoluzione cromatica legata soprattutto al gusto dei nostri tempi. Giovanissimo anche Emanuele Resini (1980) che unisce la sua vocazione artistica a quella educativa all’interno di centri specializzati per il recupero del linguaggio.
In un altro contesto incontriamo Emilio Savinetti (1951) della provincia di Benevento che ebbe subito un successo internazionale e che poi abbandonò volutamente per dedicarsi alla complessità del nostro corpo, al suo esistere con noi e dentro di noi.
Chi è Sara Montani, classe 1951. Un’artista che ha dedicato se stessa alle problematiche femminili, in parte ancora irrisolte, con una caparbietà, ma al tempo stesso con un’ironia davvero rare.
Comunque non conta più ormai l’età, né il sesso, né il luogo d’origine. L’artista è un essere come un altro che vive, lavora in mezzo agli altri e partecipa a ciò che viene definita — forse paradossalmente — l’evoluzione della specie, al ruolo puramente biologico dell’esistenza stessa. Ci dici poco?
Questa è la mia 87° mostra in uno spazio pubblico ed anche questa non tradisce di un solo millimetro la determinazione di rappresentare la contemporaneità non solo dell’arte, ma della vita stessa, della società che rappresentiamo o, meglio, che siamo costretti a rappresentare, spesso nostro malgrado.
Da sempre, da quando ho iniziato ad occuparmene quotidianamente, ho volutamente rinunciato alle grandi lezioni del passato, al restauro delle ideologie, a frequentare vecchie pinacoteche o musei fatiscenti come se dovessi poi presentarmi all’ennesimo esame di maturità.
Fin da piccolo, inventandomi persino linguaggi nuovi, inesistenti, ho cercato di appropriarmi esclusivamente del presente, di vivere giorno per giorno in mezzo alle etnie più diverse, studiando e analizzando ciò che quelle ore mi offrivano. In poche parole: non ho mai tradito per un solo istante il presente, con le sue emozioni, le sue delusioni.
Anche qui voglio presentare il presente, soprattutto il messaggio delle nuove generazioni; la loro libertà di esprimersi, senza scontrarsi con l’ipocrisia dominante, di truccarsi anche quando non ce ne sarebbe bisogno, di fare musica anche quando è solo rumore. Rimpiangere poi il passato è semplicemente inutile: è come mangiare tutti i giorni la solita minestra, incontrare gli stessi amici, non uscire dal proprio quartiere. E Londra, New York, Berlino dove li metti?
Se non proprio fisicamente, la nuova generazione dell’arte un treno, un aereo, finisce per prenderlo con la fantasia, gironzolando con i siti, ascoltando gli altri che ci sono andati veramente, andando più frequentemente al cinema, a teatro, riempiendosi di immagini — un paio di miliardi al giorno come minimo. Ognuno è come se si proponesse di oltrepassare le differenze, di annientare con qualunque mezzo il vuoto esistenziale. Non per niente in campo artistico si sfruttano tutte le tecniche possibili, nessuna esclusa, pur di raggiungere un possibile, dignitoso traguardo e facendo persino eseguire l’opera da altri, da un gruppo di tecnici, dall’altra parte del continente. Noti artisti del pennello sono coadiuvati da due, tre, dieci assistenti che dipingono per loro. Qualcuno, Kiefer per esempio, ha una sua propria azienda di spedizioni. Perché meravigliarsene?
Vere scuole d’arte come in passato, piaccia o no, l’arte di oggi è diventata un vero e proprio oggetto di comunicazione e per questa semplice ragione segue tutte le leggi, nessuna esclusa, del “medianismo”. Come ha sottolineato più volte Gabriele Perretta, siamo arrivati alla visione del molteplice: un solo personaggio sulla scena non ci basta più. Come capita spesso a teatro, ad un certo punto occorre un colpo di fulmine, la sarabanda di un combattimento, perché il pubblico riprenda a battere le mani.
Se adesso prendiamo in rassegna i nostri ospiti, c’è quasi da stupirsi. Alcuni hanno compiuto da poco ventenni come Pasquale Gadaleta (1988) e Michele D’Agostino (idem) e stanno riscuotendo un successo incredibile sia di pubblico che di mercato. La loro ironia piace. Ma a ruota, a solo tre, quattro anni di distanza, come Tommaso Chiappa (1983) o Stefano Spera (idem) e Matteo Antonimi (1984) seguono tre eccellenti pittori con una serie di immagini da mozzafiato, tanto è ormai la loro abilità per inquadrare il soggetto, sviluppare un’entusiasmante evoluzione cromatica legata soprattutto al gusto dei nostri tempi. Giovanissimo anche Emanuele Resini (1980) che unisce la sua vocazione artistica a quella educativa all’interno di centri specializzati per il recupero del linguaggio.
In un altro contesto incontriamo Emilio Savinetti (1951) della provincia di Benevento che ebbe subito un successo internazionale e che poi abbandonò volutamente per dedicarsi alla complessità del nostro corpo, al suo esistere con noi e dentro di noi.
Chi è Sara Montani, classe 1951. Un’artista che ha dedicato se stessa alle problematiche femminili, in parte ancora irrisolte, con una caparbietà, ma al tempo stesso con un’ironia davvero rare.
Comunque non conta più ormai l’età, né il sesso, né il luogo d’origine. L’artista è un essere come un altro che vive, lavora in mezzo agli altri e partecipa a ciò che viene definita — forse paradossalmente — l’evoluzione della specie, al ruolo puramente biologico dell’esistenza stessa. Ci dici poco?
29
aprile 2008
Made to Measure
Dal 29 aprile all'undici maggio 2008
fotografia
arte contemporanea
arte contemporanea
Location
VILLA POMINI
Castellanza, Via Don Luigi Testori, 14, (Varese)
Castellanza, Via Don Luigi Testori, 14, (Varese)
Orario di apertura
Dal martedì al venerdì:17-19; Sabato e festivi: 15-19; Domenica 10-12,30 e 15-19
Vernissage
29 Aprile 2008, ore 20.30
Autore
Curatore