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Paola De Pietri / Lala Meredith-Vula – Un altro tempo, un altro da me
Paola De Pietri (Reggio Emilia 1960) e Lala Meredith-Vula (Sarajevo 1966) hanno in comune il mezzo e un certo modo di usare questo mezzo (la macchina fotografica) come strumento di analisi delle forme di vita (Wittgenstein) e delle relazioni –quasi sempre conflittuali – tra livelli di realtà diversi
Comunicato stampa
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Paola De Pietri (Reggio Emilia 1960) e Lala Meredith-Vula (Sarajevo 1966) hanno in comune il mezzo e un certo modo di usare questo mezzo (la macchina fotografica) come strumento di analisi delle forme di vita (Wittgenstein) e delle relazioni –quasi sempre conflittuali - tra livelli di realtà diversi, tra abitudini, stili di vita, e contesti differenti. Osservano il mondo per evidenziare la complessità e la promiscuità di dimensioni ed esperienze che contraddistinguono la nostra epoca globale. Tuttavia sia Paola De Pietri che Lala Meredith-Vula travalicano questo primo livello concettuale (il metodo di lavoro-il progetto) e formale (la tecnica fotografica documentaristica) con risultati linguistici di rara bellezza in cui di nuovo la poesia prevale sull’informazione, la funzione simbolica su quella comunicativa, l’ineffabile esperienza conoscitiva dell’arte sulla presa di coscienza teorica, la visione ecmnesica (Barthes) e espressiva (Deleuze) su quella illusionistica o riproduttiva. Sono fotografie, ma tra il mezzo e il soggetto c’è di mezzo piuttosto la pittura che il tubo catodico o il cinema. Sia l’una che l’altra in poche parole analizzano perlustrano, indagano, ma poi di fatto contemplano la realtà da cui estraggono immagini che possono essere giudicate e godute per la loro bellezza. E questa bellezza non è solo un dato assoluto fine a se stesso, cioè autosufficiente dal punto di vista formale. C’è un pendolarismo e un travaso tra la bellezza dell’immagine e la specificità dei contenuti. E dietro queste belle immagini si lasciano intuire storie e ragioni molto speciali. Parafrasando Pasolini potremmo dire che qui le cose o le storie semplici appaiano trasformate in qualcosa di esemplare e di speciale, e che la bellezza è sostanziale tanto al dramma e all’evento quanto al senso che da una parte e l’altra attribuiscono all’immagine e alla realtà osservata l’autore e lo spettatore. Lala Meredith-Vula racconta traverso immagini di rara bellezza e drammaticità storie della propria terra, lo scarto esistente tra il mondo tradizionale ( e quindi la memoria e le consuetudini) e il mondo attuale. L’artista di Sarajevo sembra tornare indietro a considerare le proprie origini culturali, il rimosso, quanto di più familiare appartiene ad un gruppo: usanze, paesaggi, ambienti, rituali. Tra le sue fotografie si scopre un corpo immerso in una pozza d’acqua, una piscina dentro la quale alcune donne si lavano (come per purificarsi e non solo detergersi), ruderi e bambini, e poi una serie di fotografie nate a seguito di una sorta di performance. L’artista vestita in costumi kossovari tradizionali attraversa una città di oggi, campagne, luoghi arcaici che sembrano appartenere a un tempo piuttosto mitico che storico. In una di queste foto ad esempio si vede l’artista abbigliata da donna di un altro tempo che siede sotto un’enorme pietra – un masso gigantesco che sembra una meteorite o un pezzo di montagna scagliato da un titano. Quello che colpisce è la sproporzione tra il macigno e la giovane fanciulla. Questa di sproporzione rende la scena drammaticissima anche se tutto appare sospeso in un atmosfera di mito. In fondo sembra che il tempo si sia bloccato così come la scena di cui non conosciamo l’esito finale.
Anche Paola De Pietri ritrae la realtà semplice del nostro mondo e lascia che prevalga un tempo sospeso. Un tempo appunto che restituisce aura alle cose di questo mondo. E queste semplici cose o situazioni fin troppo familiari possono essere madri con bambini al centro di crocicchi o ai bordi di marciapiedi nelle periferie, gruppi di stranieri che banchettano, stralci di una campagna che sopravvive ai bordi delle metropoli o delle aree industriali, ragazzi e ragazze distese a ridosso di laghi e fiumi. E così tra la realtà analizzata e il linguaggio c’è un salto formale e simbolico che è il portato della poesia e della bellezza figurale, alla quale le due artiste sembrano affidare il proprio messaggio e ogni esplicita o meno dichiarazione d’intenti.
Per molti versi le composizioni dell’una e dell’altra parlano un gergo figurativo che è quello della pittura: colori, luci, inquadratura, prospettive. Ma è un gergo di grande tradizione e scuola. E alla storia della pittura rinascimentale piuttosto che romantica o modernista, difatti rinviano i temi e i generi affrontati da Lala Meredith-Vula e Paola De Pietri: paesaggi trovati en plein air in un caso e paesaggi in cui si riconosce il sublime nell’altro. Lo speciale rapporto col tempo e lo spazio è anch’esso conseguenza di questo spostamento di orizzonte poetico-figurale: dalla fotografia come testimone in diretta di un fatto alla fotografia come immagine trasfigurata di un’esperienza reale ma sconvolgente o sorprendente, inaspettata o scioccante. Esperienza del mondo e delle sue complesse vicende contemporanee che può essere anche fenomenologica e antropologica. Insomma né l’una né l’altra sembrano interessate a spiegare le cose, a dirci come sono andate, perché e per come. Per l’una e l’altra dire poeticamente le cose significa dire molto di più. Significa dire la verità attraverso un linguaggio (folle-allucinato-esclamativo-aureo) che confonde il limite tra nuomenico e fenomenico, tra realtà e verità. E non lo fanno solo scientemente, a tavolino. Perché quel limite o punctum è possibile raggiungerlo solo per abbandono dei mezzi sicuri di trasporto - quelli intellettualistici e pratici - accettando di dipendere da quelli fortuiti e eventuali dell’ispirazione visionaria e dell’immaginazione sensibile. La realtà (dell’immagine, quindi quella iconica, poi quella del senso, e quindi quella fenomenologica) appare essere un’altra cosa da quello che in realtà supponevamo, sapevamo, potevamo pensare che fosse. E spesse volte la bellezza riscatta e travalica lo stesso impianto concettuale e metodologico.
Per queste due nostre artiste, il progresso ad esempio è contraddittorio. L’anacronismo ben più complesso di un semplice andirivieni tra epoche e stagioni diverse della storia moderna. Infatti tra le rovine di una civiltà ( e la civiltà è anche questo erigersi di rovine su cui trascorre velocemente l’Angelus novus di Benjamin) fiorisce la vita, si lavora, ci si ama, ci si lava per purificarsi. Oppure: tra i palazzi e le strade di oggi la tradizione ha un suo luogo preciso, centrale. Questo luogo è quello del Mito, dell’estraniante, del sublime. Quindi una posizione che non è quella del martire, della vittima, dell’emarginato o dell’escluso. E allora l’Angelus novus può attraverso il corpo dell’artista (che è eroe e incarnazione della tradizione e di tutto quello che in questa parola vive e sopravvive) ricomporre l’infranto: mostrare un futuro ‘progresso’ che non passa dal pittoresco dell’anacronismo quanto dal sublime dell’anacronismo. E altresì il paesaggio o la maternità o la casa o la famiglia non sono soggetti genericamente artistici. Generi e temi che si ripropongono con la forza del Mito in quanto sono il risultato di un’esperienza della realtà che è il contrario di quella de-sacralizzante o de-mitizzante del progresso.
Così scrive Ian Jeffery “The photographer makes judgements on what might be called a range of existential possibilities. She recognises a paradigm which takes into account the near and the far, with intervening stages. Here around us are the things that we can touch, and with which we are comfortable – and in whose presence she acts normally. Out there though exists society and the nation, in which context we don’t altogether matter as individuals. In one poignant image she searches amongst the fragments and debris of a ruined building, looking for evidence. She is consulting history, which is not just a big idea but so complex as to be incomprehensible. History, represented by those shards, has reduced her, almost to the level of the fowls in the farmyard. But at one point she achieves equilibrium, standing in the rain in front of a memorial to a group of dead villagers, men and women. They had been killed by the roadside and the memorial, on a platform of rough concrete, does them honour one at a time. At some level they may represent history and the nation but the memorial remarks on them as individuals, fellow citizens and identifiable. Thus the relationship with the witness is symmetrical and homoeostatic: like greeting like. The memorial scene stands at the mid point in the paradigm, for, although it touches on both nation and history, the rain, the unfinished concrete and the commemorative pictures themselves refer us back to actualities, to the kind of environment in which we are most at home”.
Per riposizionare lo spettatore nel punto occupato tradizionalmente dal contemplatore, Paola De Pietri attraversa il paesaggio. Un bosco agitato dal vento, nugoli di uccelli che trapuntano l’azzurro del cielo di un brulichio puntiforme che sembra quello di un formicaio o al contrario il lento ondeggiare di dune, l’alternarsi musicale di correnti marine, sommovimenti ai confini della galassia. Cosi facendo (direi amando il mondo di fuori tanto quanto l’umanità straniera) ella restituisce le cose al tempo piuttosto che allo spazio. Quindi riconsegna le cose e gli eventi (che ci appartengono e ai quali apparteniamo) al mito e al sacro, al meraviglioso e allo spaesante e viceversa. Allora per farci riconsiderare la sacralità della casa e della famiglia (qui intesa come luogo ospitale e luogo familiare perché uno e l’altro coincidono nella vita degli esseri umani) passa attraverso il tema dell’altro, dello straniero, dell’hospes. Da tempo Paola De Pietri fotografa i nuovi abitanti delle periferie. Improvvisamente il soggetto del lavoro non è solo l’esodo o la migrazione. E’ qualcosa che concerne la bellezza e la dignità dell’umanità in qualunque luogo essa approdi perché in qualunque luogo essa ricrea famiglia, stabilisce legami istituisce riti e cerimonie per dare un senso e un valore più alto e più arcaico al proprio transito da un punto all’altro del pianeta.
Ebbene quando Paola De Pietri cerca l’altro e il diverso, ricerca essenzialmente un tempo diverso. Per lei fotografare significa darsi la possibilità di rallentare il battito del tempo, il fluire delle visioni, l’impressione della realtà stessa. Questo rallentamento apre a inedite esperienze: lascia varchi all’altro e all’inatteso. L’altro che è appunto il diverso o lo straniero, l’emarginato o l’escluso. L’inatteso che è il paesaggio, un dettaglio, uno scorcio, una situazione. Ma è pur sempre l’epifania: cioè il manifestarsi di un tempo (diverso e inatteso) dell’esserci. Un esserci che sembra connotarsi immediatamente di un’aura speciale, come direbbe Walter Benjamin.
Osservando il mondo con questo tempo (la famosa durata di cui parlano sia Merleau-Ponty sia Roland Barthes) è come se le cose potessero ancora situarsi in una magica e sorprendente distanza, un’insopprimibile distanza che le rende icone. E come icone, le cose o le persone vengono ritratte da Paola De Pietri con ferma attenzione per il dettaglio e la veridicità. Eppure si sostanziano di una indimenticabile ma significativa figuratività metafisica. Sono forme del figurale piuttosto che riproduzioni figurative. Cercate nel flusso del tempo quotidiano e rimosse dal piano di realtà che le terrebbe in scacco. Ora infine emergono dal flusso del divenire come creature veridiche e assolute. O forse veridiche perchè uniche e assolute.
Allora le cose, i paesaggi o le persone che abbiamo di fronte sono più vere del vero, sono esattamente dove ha inizio e corso la loro autenticità, la loro fondazione ontologica. Nominarle significa vederle e incontrarle non nel nostro universo di controllo ma in una zona franca, spostata piuttosto verso l’al di là che di qua: laddove si trova il fondamento originario, quel loro essere nonostante noi.
Cose e persone appaiono risorgere in uno spazio ma ancor più in un tempo che è quello originale del loro venire al mondo. Anche Paola De Pietri come Lala Meredith-Vula parte dall’arte per andare verso il mondo, per restituire, attraverso la bellezza e la verità, un’occasione di conoscenza conflittuale o estraniante. Le sue famiglie di migranti immortalate come i borghesi di un dejeuner sur l’herbe decostruiscono quel mito pittorico occidentale mentre già offrono lo spaccato di una nuova archè, quella di un riposo durante l’esodo. La stessa richiesta (fermare il tempo, tornare sui luoghi avvertendo che lì qualcosa ci precede e ci fonda come individui.comunità-moltitudini) accomuna il lavoro di entrambe e ci invita a considerare la criticità della nostra epoca globalizzata attraverso lo spettro della bellezza e della poesia.
Sergio Risaliti
Anche Paola De Pietri ritrae la realtà semplice del nostro mondo e lascia che prevalga un tempo sospeso. Un tempo appunto che restituisce aura alle cose di questo mondo. E queste semplici cose o situazioni fin troppo familiari possono essere madri con bambini al centro di crocicchi o ai bordi di marciapiedi nelle periferie, gruppi di stranieri che banchettano, stralci di una campagna che sopravvive ai bordi delle metropoli o delle aree industriali, ragazzi e ragazze distese a ridosso di laghi e fiumi. E così tra la realtà analizzata e il linguaggio c’è un salto formale e simbolico che è il portato della poesia e della bellezza figurale, alla quale le due artiste sembrano affidare il proprio messaggio e ogni esplicita o meno dichiarazione d’intenti.
Per molti versi le composizioni dell’una e dell’altra parlano un gergo figurativo che è quello della pittura: colori, luci, inquadratura, prospettive. Ma è un gergo di grande tradizione e scuola. E alla storia della pittura rinascimentale piuttosto che romantica o modernista, difatti rinviano i temi e i generi affrontati da Lala Meredith-Vula e Paola De Pietri: paesaggi trovati en plein air in un caso e paesaggi in cui si riconosce il sublime nell’altro. Lo speciale rapporto col tempo e lo spazio è anch’esso conseguenza di questo spostamento di orizzonte poetico-figurale: dalla fotografia come testimone in diretta di un fatto alla fotografia come immagine trasfigurata di un’esperienza reale ma sconvolgente o sorprendente, inaspettata o scioccante. Esperienza del mondo e delle sue complesse vicende contemporanee che può essere anche fenomenologica e antropologica. Insomma né l’una né l’altra sembrano interessate a spiegare le cose, a dirci come sono andate, perché e per come. Per l’una e l’altra dire poeticamente le cose significa dire molto di più. Significa dire la verità attraverso un linguaggio (folle-allucinato-esclamativo-aureo) che confonde il limite tra nuomenico e fenomenico, tra realtà e verità. E non lo fanno solo scientemente, a tavolino. Perché quel limite o punctum è possibile raggiungerlo solo per abbandono dei mezzi sicuri di trasporto - quelli intellettualistici e pratici - accettando di dipendere da quelli fortuiti e eventuali dell’ispirazione visionaria e dell’immaginazione sensibile. La realtà (dell’immagine, quindi quella iconica, poi quella del senso, e quindi quella fenomenologica) appare essere un’altra cosa da quello che in realtà supponevamo, sapevamo, potevamo pensare che fosse. E spesse volte la bellezza riscatta e travalica lo stesso impianto concettuale e metodologico.
Per queste due nostre artiste, il progresso ad esempio è contraddittorio. L’anacronismo ben più complesso di un semplice andirivieni tra epoche e stagioni diverse della storia moderna. Infatti tra le rovine di una civiltà ( e la civiltà è anche questo erigersi di rovine su cui trascorre velocemente l’Angelus novus di Benjamin) fiorisce la vita, si lavora, ci si ama, ci si lava per purificarsi. Oppure: tra i palazzi e le strade di oggi la tradizione ha un suo luogo preciso, centrale. Questo luogo è quello del Mito, dell’estraniante, del sublime. Quindi una posizione che non è quella del martire, della vittima, dell’emarginato o dell’escluso. E allora l’Angelus novus può attraverso il corpo dell’artista (che è eroe e incarnazione della tradizione e di tutto quello che in questa parola vive e sopravvive) ricomporre l’infranto: mostrare un futuro ‘progresso’ che non passa dal pittoresco dell’anacronismo quanto dal sublime dell’anacronismo. E altresì il paesaggio o la maternità o la casa o la famiglia non sono soggetti genericamente artistici. Generi e temi che si ripropongono con la forza del Mito in quanto sono il risultato di un’esperienza della realtà che è il contrario di quella de-sacralizzante o de-mitizzante del progresso.
Così scrive Ian Jeffery “The photographer makes judgements on what might be called a range of existential possibilities. She recognises a paradigm which takes into account the near and the far, with intervening stages. Here around us are the things that we can touch, and with which we are comfortable – and in whose presence she acts normally. Out there though exists society and the nation, in which context we don’t altogether matter as individuals. In one poignant image she searches amongst the fragments and debris of a ruined building, looking for evidence. She is consulting history, which is not just a big idea but so complex as to be incomprehensible. History, represented by those shards, has reduced her, almost to the level of the fowls in the farmyard. But at one point she achieves equilibrium, standing in the rain in front of a memorial to a group of dead villagers, men and women. They had been killed by the roadside and the memorial, on a platform of rough concrete, does them honour one at a time. At some level they may represent history and the nation but the memorial remarks on them as individuals, fellow citizens and identifiable. Thus the relationship with the witness is symmetrical and homoeostatic: like greeting like. The memorial scene stands at the mid point in the paradigm, for, although it touches on both nation and history, the rain, the unfinished concrete and the commemorative pictures themselves refer us back to actualities, to the kind of environment in which we are most at home”.
Per riposizionare lo spettatore nel punto occupato tradizionalmente dal contemplatore, Paola De Pietri attraversa il paesaggio. Un bosco agitato dal vento, nugoli di uccelli che trapuntano l’azzurro del cielo di un brulichio puntiforme che sembra quello di un formicaio o al contrario il lento ondeggiare di dune, l’alternarsi musicale di correnti marine, sommovimenti ai confini della galassia. Cosi facendo (direi amando il mondo di fuori tanto quanto l’umanità straniera) ella restituisce le cose al tempo piuttosto che allo spazio. Quindi riconsegna le cose e gli eventi (che ci appartengono e ai quali apparteniamo) al mito e al sacro, al meraviglioso e allo spaesante e viceversa. Allora per farci riconsiderare la sacralità della casa e della famiglia (qui intesa come luogo ospitale e luogo familiare perché uno e l’altro coincidono nella vita degli esseri umani) passa attraverso il tema dell’altro, dello straniero, dell’hospes. Da tempo Paola De Pietri fotografa i nuovi abitanti delle periferie. Improvvisamente il soggetto del lavoro non è solo l’esodo o la migrazione. E’ qualcosa che concerne la bellezza e la dignità dell’umanità in qualunque luogo essa approdi perché in qualunque luogo essa ricrea famiglia, stabilisce legami istituisce riti e cerimonie per dare un senso e un valore più alto e più arcaico al proprio transito da un punto all’altro del pianeta.
Ebbene quando Paola De Pietri cerca l’altro e il diverso, ricerca essenzialmente un tempo diverso. Per lei fotografare significa darsi la possibilità di rallentare il battito del tempo, il fluire delle visioni, l’impressione della realtà stessa. Questo rallentamento apre a inedite esperienze: lascia varchi all’altro e all’inatteso. L’altro che è appunto il diverso o lo straniero, l’emarginato o l’escluso. L’inatteso che è il paesaggio, un dettaglio, uno scorcio, una situazione. Ma è pur sempre l’epifania: cioè il manifestarsi di un tempo (diverso e inatteso) dell’esserci. Un esserci che sembra connotarsi immediatamente di un’aura speciale, come direbbe Walter Benjamin.
Osservando il mondo con questo tempo (la famosa durata di cui parlano sia Merleau-Ponty sia Roland Barthes) è come se le cose potessero ancora situarsi in una magica e sorprendente distanza, un’insopprimibile distanza che le rende icone. E come icone, le cose o le persone vengono ritratte da Paola De Pietri con ferma attenzione per il dettaglio e la veridicità. Eppure si sostanziano di una indimenticabile ma significativa figuratività metafisica. Sono forme del figurale piuttosto che riproduzioni figurative. Cercate nel flusso del tempo quotidiano e rimosse dal piano di realtà che le terrebbe in scacco. Ora infine emergono dal flusso del divenire come creature veridiche e assolute. O forse veridiche perchè uniche e assolute.
Allora le cose, i paesaggi o le persone che abbiamo di fronte sono più vere del vero, sono esattamente dove ha inizio e corso la loro autenticità, la loro fondazione ontologica. Nominarle significa vederle e incontrarle non nel nostro universo di controllo ma in una zona franca, spostata piuttosto verso l’al di là che di qua: laddove si trova il fondamento originario, quel loro essere nonostante noi.
Cose e persone appaiono risorgere in uno spazio ma ancor più in un tempo che è quello originale del loro venire al mondo. Anche Paola De Pietri come Lala Meredith-Vula parte dall’arte per andare verso il mondo, per restituire, attraverso la bellezza e la verità, un’occasione di conoscenza conflittuale o estraniante. Le sue famiglie di migranti immortalate come i borghesi di un dejeuner sur l’herbe decostruiscono quel mito pittorico occidentale mentre già offrono lo spaccato di una nuova archè, quella di un riposo durante l’esodo. La stessa richiesta (fermare il tempo, tornare sui luoghi avvertendo che lì qualcosa ci precede e ci fonda come individui.comunità-moltitudini) accomuna il lavoro di entrambe e ci invita a considerare la criticità della nostra epoca globalizzata attraverso lo spettro della bellezza e della poesia.
Sergio Risaliti
08
aprile 2008
Paola De Pietri / Lala Meredith-Vula – Un altro tempo, un altro da me
Dall'otto aprile al 17 maggio 2008
fotografia
Location
Simondi
Torino, Via Della Rocca, 29, (Torino)
Torino, Via Della Rocca, 29, (Torino)
Orario di apertura
da lunedì a sabato ore 15.30 - 19.30
Vernissage
8 Aprile 2008, ore 19.00
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