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Mario Giacomelli
La mostra è composta da 24 fotografie che raccontano in modo intimo il lavoro di Mario Giacomelli, una trasformazione di intime convinzioni; un realismo magico filtrato dal ricordo ed intriso di poesia
Comunicato stampa
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Mario Giacomelli (Senigallia 1925-2000) è uno dei più grandi fotografi italiani. Al 1953 risale la sua prima fotografia: “ L’Approdo”. Partecipa al gruppo fotografico "Misa", fondato da Giuseppe Cavalli (con Paolo Monti tra i teorici della “nuova fotografia italiana”). Nel 1955 vince il primo premio alla seconda mostra nazionale di fotografia di Castelfranco Veneto.Nel 1957 è inserito nella raccolta “Photography Year Book, London” e nel 1958 in “U.S.Camera, First Edition, New-York”. Nel 1963, grazie a John Szarkowski, allora curatore della fotografia al M.O.M.A., Giacomelli si affaccia al panorama internzionale con la serie Scanno (1957), con l’inserimento nel libro “Looking of Photography” del 1973. Sempre del 1957 è la serie “Lourdes” seguita, nel 1958, da “Zingari”, “Puglia” e, nel 1959, “Loreto”. Seguono le immagini di “ Mattatoio” e “ Io non ho mani che mi accarezzino il viso” (1961-1963).
Risale agli anni 1964-66 “La buona terra”, seguita da “Caroline Branson” del 1971-73. Su testi del poeta Permunian si fonda “Il Teatro della neve” (1985-87) seguita da “Ninna Nanna” e “A Silvia” (1987-88). Tra i lavori più recenti ricordiamo: “Il mare dei miei ricordi” (1991-94), “Io sono nessuno” (1994-95) su testi di Emily Dickinson fino ad arrivare a “Questo ricordo lo vorrei raccontare” (1998-2000) e “Bando” (1998-99) ciclo ispirato ad una poesia di Sergio Corazzini. Nel 1963 inizia ad esporre a livello internazionale, dalla Photokina di Colonia, al MOMA di New York (1964), dal Metropolitan di New York (1967) alla Bibliothèque Nationale di Parigi (1972), dal Victoria & Albert Museum di Londra (1975) al Visual Studies Workshop di Rochester (1979) e poi Venezia, Providence, Parma, Mosca, Arles, Amsterdam, Tolosa, Bologna, Londra, Rivoli fino alle recenti antologiche di Empoli, Losanna e Roma.
1954-1956, Vita d’ospizio: Mario Giacomelli vive l’ospizio da quando, da piccolo, seguiva la madre che per necessità vi lavorava. La storia d’amore infinito con i vecchi dell’ospizio senigalliese sono rimandi invisibili sul filo dell’esperienza.
1966-1968, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi: immagini portate al limite dell’astrazione; la carne viene “bruciata” dal lampo del flash e le rughe dei volti sono le stesse della terra, le immagini rarefatte sono pervase da un profondo lirismo liciniano.
“Non è facile fotografare la vita d’ospizio…Quella mamma che aspetta il figlio da tre anni e che mi prende la mano quando le porto le caramelle per vederla per un attimo felice e che dice che il figlio ha tanto da fare che non può venire a trovarla…Vado all’ospizio per un mio bisogno interiore. In alcune immagini con il bianco ho tolto la materia, togliendo i particolari distruggo la realtà; le deformazioni, le sfocature tolgono il troppo vero per rimuovere la poesia. Non ho fatto belle immagini, mi sono solo nascosto in un posto che altri chiamano ospizio e che per me era un grosso specchio che permetteva di guardarmi dentro…sentivo quindi che le mie paure non erano cose inventate ma cose che io già vivevo e delle quali ero prigioniero”.
Dal 1955, terra e paesaggio: sono tagli come le pieghe che l’uomo ha nelle sue mani, come le rughe dei vecchi dell’ospizio, come le lacerazioni della natura e dell’umanità, determinate dal flusso traumatico del tempo.
“Io non ritraggo paesaggi, ma i segni e la memoria dell’esistenza”.
1961-1963, Io non ho mani che mi accarezzino il volto: in questa serie fantastica dei “pretini” riprese nel seminario vescovile di Senigallia, le immagini sono sospese, le tonache gonfiate come piccole mongolfiere e la trasgressione iconica di Giacomelli raggiunge il vertice dell’astrazione.
1964-1966, La buona terra: una saga epica, scandita dal trascorrere dei cicli, delle stagioni, caratterizzata dall’antico rituale contadino. Le immagini si sviluppano sul filo del reportage-racconto con la partecipazione di Giacomelli che dopo l’ambientazione socializza con i protagonisti, li segue nei lavori dei campi e nei momenti di festa. Ancora una volta non è un documento realista di intenti politico-sociali, ma una rivisitazione del tempo, del ricordo e della memoria contadina.
1971-1973, Caroline Branson: tratta da Spoon River Antology di Edgar Lee Master, una storia d’amore densa di significati, sostenuta da segni graffianti, da elementi naturalistici, quasi a sottolineare la drammaticità della storia, in un alternarsi di immagini suggestive, di forte impatto emozionale, “caricate” con la doppia esposizione. Anche qui, nel pretesto della storia senigalliese, ecco l’intensità della notte cosmica, del buio dei ricordi, dell’assenza/presenza dello spazio-tempo.
La fotografia di Giacomelli è quindi una trasformazione di intime convinzioni; un realismo magico filtrato dal ricordo ed intriso di poesia. Immagini come autoanalisi, come specchio dell’esistenza che attingono nei viaggi dei territori immaginari dei suoi spazi interiori. La fotografia è per lui una rievocazione di interessi che spaziano, nella sua terra, nei cicli e nelle stagioni della vita e della comunicazione. Sono reticoli di memorie, riporti quasi invisibili del suo universo mentale che gli permettono di vivere nelle pieghe della materia e in un reale immaginario, la gioia della creazione e della conoscenza. Giacomelli affronta con la fotografia temi gravi ed inquietanti e li riporta carichi di poesia, nella loro dignità originaria, senza dogmi ideologici o stilemi accademici. Rifugge dalle presunzioni, abbastanza usuali tra gli artisti contemporanei; sa che il dovere di ogni ricerca è di ritrovare l’autenticità di un rapporto con i vari aspetti della vita, conoscere i legami tra le forme espressive e recuperare l’influenza del nostro patrimonio e della nostra origine. Subisce la desolata impotenza dell’uomo di fronte alla deformità e al male; i suoi segni fotografici trasmettono queste sensazioni. Con immagini accentuate dai contrasti luminosi, dagli sfocati, dagli ingrandimenti della grana, intende superare l’angoscia del dolore e della solitudine per trasmetterci sempre un messaggio di speranza.
“ […] Mi interessa la gioia che ho provato nel momento in cui ho scattato, la tensione che ho avuto di fronte all’immagine. Ecco, da quel momento l’immagine non muore più, rimane dopo la mia morte…Vorrei fuggire da questa realtà ed entrare in quella inutile della poesia”.
(Fonti citico-biografiche di Enzo Carli)
La mostra è composta da 24 fotografie che raccontano in modo intimo il lavoro di Mario Giacomelli.
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Risale agli anni 1964-66 “La buona terra”, seguita da “Caroline Branson” del 1971-73. Su testi del poeta Permunian si fonda “Il Teatro della neve” (1985-87) seguita da “Ninna Nanna” e “A Silvia” (1987-88). Tra i lavori più recenti ricordiamo: “Il mare dei miei ricordi” (1991-94), “Io sono nessuno” (1994-95) su testi di Emily Dickinson fino ad arrivare a “Questo ricordo lo vorrei raccontare” (1998-2000) e “Bando” (1998-99) ciclo ispirato ad una poesia di Sergio Corazzini. Nel 1963 inizia ad esporre a livello internazionale, dalla Photokina di Colonia, al MOMA di New York (1964), dal Metropolitan di New York (1967) alla Bibliothèque Nationale di Parigi (1972), dal Victoria & Albert Museum di Londra (1975) al Visual Studies Workshop di Rochester (1979) e poi Venezia, Providence, Parma, Mosca, Arles, Amsterdam, Tolosa, Bologna, Londra, Rivoli fino alle recenti antologiche di Empoli, Losanna e Roma.
1954-1956, Vita d’ospizio: Mario Giacomelli vive l’ospizio da quando, da piccolo, seguiva la madre che per necessità vi lavorava. La storia d’amore infinito con i vecchi dell’ospizio senigalliese sono rimandi invisibili sul filo dell’esperienza.
1966-1968, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi: immagini portate al limite dell’astrazione; la carne viene “bruciata” dal lampo del flash e le rughe dei volti sono le stesse della terra, le immagini rarefatte sono pervase da un profondo lirismo liciniano.
“Non è facile fotografare la vita d’ospizio…Quella mamma che aspetta il figlio da tre anni e che mi prende la mano quando le porto le caramelle per vederla per un attimo felice e che dice che il figlio ha tanto da fare che non può venire a trovarla…Vado all’ospizio per un mio bisogno interiore. In alcune immagini con il bianco ho tolto la materia, togliendo i particolari distruggo la realtà; le deformazioni, le sfocature tolgono il troppo vero per rimuovere la poesia. Non ho fatto belle immagini, mi sono solo nascosto in un posto che altri chiamano ospizio e che per me era un grosso specchio che permetteva di guardarmi dentro…sentivo quindi che le mie paure non erano cose inventate ma cose che io già vivevo e delle quali ero prigioniero”.
Dal 1955, terra e paesaggio: sono tagli come le pieghe che l’uomo ha nelle sue mani, come le rughe dei vecchi dell’ospizio, come le lacerazioni della natura e dell’umanità, determinate dal flusso traumatico del tempo.
“Io non ritraggo paesaggi, ma i segni e la memoria dell’esistenza”.
1961-1963, Io non ho mani che mi accarezzino il volto: in questa serie fantastica dei “pretini” riprese nel seminario vescovile di Senigallia, le immagini sono sospese, le tonache gonfiate come piccole mongolfiere e la trasgressione iconica di Giacomelli raggiunge il vertice dell’astrazione.
1964-1966, La buona terra: una saga epica, scandita dal trascorrere dei cicli, delle stagioni, caratterizzata dall’antico rituale contadino. Le immagini si sviluppano sul filo del reportage-racconto con la partecipazione di Giacomelli che dopo l’ambientazione socializza con i protagonisti, li segue nei lavori dei campi e nei momenti di festa. Ancora una volta non è un documento realista di intenti politico-sociali, ma una rivisitazione del tempo, del ricordo e della memoria contadina.
1971-1973, Caroline Branson: tratta da Spoon River Antology di Edgar Lee Master, una storia d’amore densa di significati, sostenuta da segni graffianti, da elementi naturalistici, quasi a sottolineare la drammaticità della storia, in un alternarsi di immagini suggestive, di forte impatto emozionale, “caricate” con la doppia esposizione. Anche qui, nel pretesto della storia senigalliese, ecco l’intensità della notte cosmica, del buio dei ricordi, dell’assenza/presenza dello spazio-tempo.
La fotografia di Giacomelli è quindi una trasformazione di intime convinzioni; un realismo magico filtrato dal ricordo ed intriso di poesia. Immagini come autoanalisi, come specchio dell’esistenza che attingono nei viaggi dei territori immaginari dei suoi spazi interiori. La fotografia è per lui una rievocazione di interessi che spaziano, nella sua terra, nei cicli e nelle stagioni della vita e della comunicazione. Sono reticoli di memorie, riporti quasi invisibili del suo universo mentale che gli permettono di vivere nelle pieghe della materia e in un reale immaginario, la gioia della creazione e della conoscenza. Giacomelli affronta con la fotografia temi gravi ed inquietanti e li riporta carichi di poesia, nella loro dignità originaria, senza dogmi ideologici o stilemi accademici. Rifugge dalle presunzioni, abbastanza usuali tra gli artisti contemporanei; sa che il dovere di ogni ricerca è di ritrovare l’autenticità di un rapporto con i vari aspetti della vita, conoscere i legami tra le forme espressive e recuperare l’influenza del nostro patrimonio e della nostra origine. Subisce la desolata impotenza dell’uomo di fronte alla deformità e al male; i suoi segni fotografici trasmettono queste sensazioni. Con immagini accentuate dai contrasti luminosi, dagli sfocati, dagli ingrandimenti della grana, intende superare l’angoscia del dolore e della solitudine per trasmetterci sempre un messaggio di speranza.
“ […] Mi interessa la gioia che ho provato nel momento in cui ho scattato, la tensione che ho avuto di fronte all’immagine. Ecco, da quel momento l’immagine non muore più, rimane dopo la mia morte…Vorrei fuggire da questa realtà ed entrare in quella inutile della poesia”.
(Fonti citico-biografiche di Enzo Carli)
La mostra è composta da 24 fotografie che raccontano in modo intimo il lavoro di Mario Giacomelli.
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27
marzo 2008
Mario Giacomelli
Dal 27 marzo al 24 maggio 2008
fotografia
Location
IKONA GALLERY – INTERNATIONAL SCHOOL OF PHOTOGRAPHY
Venezia, Cannaregio, 2909, (Venezia)
Venezia, Cannaregio, 2909, (Venezia)
Orario di apertura
dalle 11.00 alle 19.00 – chiuso il sabato
Vernissage
27 Marzo 2008, ore 18
Autore
Curatore