23 maggio 2012

L’artista abita qui

 
Museo come centro di nuove territorialità o museo che si distribuisce sul territorio? Museo muscolare o museo permeabile a ciò che si muove intorno a lui? Il programma di residenze d'artista avviato dal MACRO pone interrogativi importanti sulla natura del museo contemporaneo. Ma per delinearne l'identità, cominciamo ad ascoltare i protagonisti di questo nuovo esperimento. Mentre oggi vengono presentate al pubblico le opere prodotte [di Elisa Govi]

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Mettere in scena il processo del lavoro rende il museo spazio creativo, dove il valore del processo è pari a quello del lavoro finito. Un luogo dinamico, in dialogo con quanto accade fuori, nel territorio romano e oltre. Al centro dell’attività museale il giovane artista, sostenuto nella fase creativa del suo lavoro e sollecitato dal pubblico che di solito arriva a processo concluso, diventa partecipe di un esperimento i cui esiti sono in continua trasformazione.

Abbiamo incontrato i quattro artisti, all’interno dei loro studi, sono emerse storie individuali, accomunate dalla medesima percezione del luogo dove lavorano come qualcosa di profondamente distante dagli stereotipi comuni. E oggi gli studi si aprono per presentare le opere realizzate durante la residenza.

Graham Hudson, (Kent, Inghilterra, 1977) vive e lavora a Londra

Come ti sei posto di fronte a questo progetto? Timori, aspettative, pensieri?

«Che cos’è uno studio? Questo piuttosto mi viene da chiedermi oggi. La mia ricerca si concentra sul contesto cittadino. Per me lo studio è l’ambiente urbano sul quale mi trovo a operare. Dunque l’arte è sempre un fatto pubblico. Pensare di lavorare qui ha significato per prima cosa lavorare a Roma. Ecco perché svilupperò un progetto dalla forte connotazione territoriale: l’obiettivo è lanciare un prototipo di ricerca a partire dalla città di Roma e dagli scavi che ne modificano l’aspetto e la percezione quotidiana».

Lo studio di un artista è uno spazio intimo. Prevale questo vissuto o la disponibilità a svelare le carte?

«Ho bisogno del pubblico, ogni esperienza è relazionale, fondamentale per me coinvolgerlo. Intendo il mio spazio al MACRO come luogo di ricerca, documentazione e monitoraggio delle trasformazioni del territorio attraverso l’osservazione dei cantieri che ogni giorno vengono aperti e modificano l’aspetto cittadino».

Pensi che le condizioni in cui si svolge il progetto incidano sui lavori che stai realizzando?

«Il contesto è fondamentale per la realizzazione del progetto. In questo percorso, progetto e luogo coincidono. Il luogo sottende il progetto. E per luogo intendo anche quello che sta oltre le mura del museo, l’intera città di Roma».

Sei tra i primi a fare quest’esperienza. Come giudichi il progetto? E come valuti il contesto e il pubblico romano?

«Cerco sempre la collaborazione. Con il pubblico, l’ambiente, i musicisti e altri artisti. Penso che la cosa più eccitante sia avere la medesima opportunità, a fianco di altri artisti, diversi da me: aprire lo studio al pubblico in un museo, ogni giorno, e vedere cosa succede. Per ora sto a guardare».

Carola Bonfili, (Roma, 1981) vive e lavora a New York

Come ti sei posta di fronte a questo progetto? Timori, aspettative, pensieri?

«Una stanza è una stanza. Cerco di astrarmi il più possibile dal contesto e di riservarmi spazi di concentrazione. Per me è un luogo nel quale posso lavorare».


Lo studio di un artista è uno spazio intimo. Prevale questo vissuto o la disponibilità a svelare le carte?

«La parte più intima della creazione viene fuori solo quando il lavoro è finito. Fino a quel punto, ciò che è visibile è solo una rappresentazione parziale dalla quale si può intuire una direzione. In questo senso, la dimensione privata del mio lavoro è l’ideazione, lo spazio è dentro. Per il resto, ho portato alcuni libri, ma non posso esporre tutto quello che sono, questa rimane in qualche modo una interpretazione controllata di sé».

Pensi che le condizioni in cui si svolge il progetto incidano sui lavori che stai realizzando?

«Penso che farei lo stesso nel mio studio privato. Non posso escludere che i giudizi e le presenze mi condizionino, anche se su un livello diverso da quello che mi aspettavo. Percepisco piuttosto da parte delle persone che entrano la sensazione di violare uno spazio privato, mi sorprendo a incontrare sguardi timidi e titubanti di chi sente di curiosare in territori segreti».

Sei tra i primi a fare quest’esperienza. Come giudichi il progetto? E come valuti il contesto e il pubblico romano?

«Sono piuttosto pessimista: non potrà mai andare peggio di come penso. Dunque sta andando benissimo! Scherzi a parte: mi sembra una situazione carica di energie interessanti e con diverse potenzialità. Sono pronta ad accoglierle!».

Ishmael Randall Weeks, (Cuzco, Perù 1976) vive e lavora tra New York e Lima

Come ti sei posto di fronte a questo progetto? Timori, aspettative, pensieri?

«Non ho particolari timori. Sono felice di essere qui e di avere l’occasione di rimanerci per alcuni mesi. Recentemente ho lavorato a diverse mostre site-specific, museo o galleria che fossero. Sono abituato a concentrarmi su uno spazio e per un lungo periodo di tempo, spesso devo fare maquettes, disegni e animazioni in 3D sul posto, anche per cercare di capire come il lavoro si inserisce nello spazio reale. Dunque, la permanenza prolungata in un luogo, per lavorare su quel luogo, mi appartiene. L’altro vantaggio di questa situazione è che posso lavorare sino a quando lo spazio attorno non mi è congeniale, per poi trasformarlo nuovamente, modificarlo e quindi modificare le cose che non voglio mostrare».

Lo studio di un artista è uno spazio intimo. Prevale questo vissuto o la disponibilità a svelare le carte?

«Lo studio non è sempre uno spazio intimo. Ci vivo con un paio di assistenti e talvolta più. Quando si lavora su grandi opere hai bisogno di più persone. Cosa prevale? Se ho capito bene la mia risposta sarebbe che dobbiamo cambiare la nostra mentalità a proposito di quello che uno studio può essere. Uno studio di oggi può anche essere un computer portatile su una panchina, pieno di tutti gli strumenti desiderati. Mi piace anche la collaborazione che si instaura con il pubblico, che mi pare di intuire già in questa fase iniziale».

Pensi che le condizioni in cui si svolge il progetto incidano sui lavori che stai realizzando?

«Il contesto entrerà certamente nel mio progetto. Come può non essere così? Io lavoro all’interno di un museo. Il mio intervento sarà dedicato in modo specifico a questo spazio. Inoltre penso che la residenza – e non solo per me, ma anche per Luigi, Graham, Carola e il resto degli artisti che lavorano con loro – sarà una esperienza particolarmente interessante, della quale porteremo le tracce, come autori e come persone».

Sei tra i primi a fare quest’esperienza. Come giudichi il progetto? E come valuti il contesto e il pubblico romano?

«Il progetto pone l’attenzione su cosa il museo sta diventando: credo che almeno quelli di arte contemporanea si stiano trasformando in piattaforme di dialogo. E questa iniziativa lo dimostra».

Luigi Presicce, (Porto Cesareo, Lecce 1976) vive e lavora a Milano

La sua residenza è condivisa con Laboratorio: Vittorio Cavallini, Davide Daninos, Attila Faravelli, Andrea Kvas, Jonatah Manno, Nicola Martini, Jacopo Menzani, Luigi Presicce, Fabrizio Prevedello, Maurizio Vierucci. All’incontro partecipa Davide Daninos

Come vi siete posti di fronte a questo progetto? Timori, aspettative, pensieri?

«Ci siamo arrivati senza paure. Il progetto Laboratorio vuole mettere in scena il processo del lavoro all’interno di uno spazio espositivo, dunque rimuovere la barriera convenzionale tra studio e museo. Per noi tra processo e lavoro finito non esistono gerarchie di valore ed operare in questo spazio che è sia studio che sala museale è il massimo!»

Lo studio di un artista è uno spazio intimo. Prevale questo vissuto o la disponibilità a svelare le carte?

«Nel nostro Laboratorio l’iter di creazione non è mai stato intimo, anzi la necessità di rendere visibile il processo è la conseguenza diretta dei presupposti del nostro lavoro. “Laboratorio” è un progetto nato dal desiderio di un gruppo di dieci artisti di riunirsi in uno stesso luogo per confrontarsi sul proprio modus operandi. Questa nostra attenzione al valore del processo porta con sé il desiderio di mostrarlo, renderne evidente il metodo. Di conseguenza non abbiamo nulla da svelare, poiché abbiamo sempre cercato di rendere tutto il più possibile evidente. Cerchiamo sempre un confronto che stimoli la sincerità verso noi stessi e gli altri partecipanti. Ora qui si aggiunge un altro fattore importante: il pubblico».

Pensi che le condizioni in cui si svolge il progetto incidano sui lavori che stai realizzando?

«Laboratorio è un organismo che cresce e si modifica rispetto alle condizioni e al contesto con cui si trova, senza perdere però la sua metodologia. Prima di approdare a Roma, il progetto ha vissuto due fasi iniziali: prima si è costituito nello studio di Vittorio Cavallini, Nicola Martini e Jacopo Menzani, e nelle adiacenti cave d’argilla a Marti (Pisa) e in seguito si è trasferito a Milano, a Brown Project Space. Quindi è nato in uno studio privato ed ora è approdato in una realtà museale, passando attraverso la fase di uno spazio progetto, il primo contatto con il pubblico. In ogni fase la produzione dei lavori ha raccolto la funzione dei luoghi specifici con le loro peculiarità. In questo caso possiamo rendere fruibile il processo del lavoro all’interno di uno spazio espositivo pubblico, il rapporto con i visitatori e la didattica; tutti elementi con cui cercheremo di confrontarci durante la residenza».

Siete tra i primi a fare quest’esperienza, Come giudicate il progetto? E come valutate il contesto e il pubblico romano?

«Siamo molto contenti del contesto di residenza, come studio in progress, per la sua assonanza con i temi che intendiamo sviluppare. Ogni giorno è una conferma, anche se il progetto è iniziato formalmente da poco, con l’inaugurazione generale del MACRO. Possiamo dire che nel primo incontro ufficiale con il pubblico si è instaurato un primo dialogo basato sul confronto diretto, spontaneo: è stata una vera festa!»

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