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Pietro Polizzi – L’in(e)sistenza dello sguardo
Comunicato stampa
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SI INAUGURA VENERDì 7 MARZO 2008 ALLE ORE 17.30 NELLA INSOLITA SEDE DEL TEATRO ANATOMICO DELL’ANTICA SCUOLA CHIRURGICA DELL’OSPEDALE DEL CEPPO DI PISTOIA (VIALE MATTEOTTI 9/D) LA MOSTRA L’IN(e)SISTENZA DELLO SGUARDO, FOTOGRAFIE DI PIETRO POLIZZI, CURATA DA GLORIA FIORINI E FABIO NORCINI. TAGLIATA SU MISURA PER IL SUGGESTIVO SPAZIO DI QUESTA AUTENTICA WUNDERKAMMER COSTRUITA NELLA SECONDA META’ DEL SEICENTO, LA CUI APERTURA AL PUBBLICO E’ GIA’ DI PER SE’ UN AVVENIMENTO, L’ESPOSIZIONE INSCENA UNA PARTICOLARISSIMA VISIONE DELLA REALTA’ CHE, DAI SEMPLICI DATI REGISTRATI MECCANICAMENTE DALLA FOTOCAMERA, SVILUPPA UNA VERA E PROPRIA ANATOMIA DELLA LUCE, DISSEZIONANDO LE SUPERFICI PER INDAGARNE LA PROFONDITA’. LA MANIFESTAZIONE, INSERITA NEL PROGRAMMA DELLA XVIII^ SETTIMANA DELLA CULTURA SCIENTIFICA IN TOSCANA, RESTERA’ APERTA AL PUBBLICO FINO A DOMENICA 9 MARZO.
Dopo il grande successo riscosso dalla prima personale di questo anomalo fotografo, il siciliano Pietro Polizzi, tenutasi a Monreale nei prestigiosi spazi del complesso monumentale Guglielmo II, a neanche un mese di distanza un altro prezioso scrigno si apre per le sue scritture di luce: quello del Teatro Anatomico dell’Antica Scuola Chirurgica dell’Ospedale del Ceppo di Pistoia. Sicuramente meno nota del fregio robbiano che adorna l’ingresso di questo, che è uno tra i più antichi e nobili ospitali al mondo, fa parte dell’enorme patrimonio storico artistico di questo luogo. Che recentemente, con il nuovissimo padiglione di dialisi, si è arricchito anche di alcune tra le massime espressioni di arte contemporanea. Con le quali l’astrazione iperrealista di questo geniale ceroplasta dell’arte fotografica dialoga perfettamente.
Per Polizzi, infatti, la bellezza, come l’intelligenza, sta nelle cose; non nell’occhio o nel cervello di chi la guarda o la coglie. Il mezzo fotografico diviene quindi un tramite per fermarsi. Non a guardare, ma a tentare di vedere. Da qui il titolo che, dal monrealese “L’insistenza dello sguardo” mette tra parentesi una e: quindi un’inesistenza per afferrare una visione. In tal modo: «La camera oscura può diventare un teatro anatomico. Solo che qui in cattedra, a tenere la lezione, sale Caravaggio e non Rembrandt. Due modi diversi di interpretare la stessa allucinazione. Ed è un occasione speciale la sua mostra pistoiese, perché permette di gustare uno spazio unico e poco conosciuto, “teatrino” nel quale la carne si fa memoria e la memoria si incarna: emulsione di una “fotoricordo” del nostro breve transito, captatio di quello che i nostri occhi hanno guardato senza saper vedere. »
***
L’INTERMINABILE SGUARDO DI PIETRO POLIZZI
Nato fotografo, in tempi “neorealisti”, poi passato alla manipolazione dell’immagine in movimento, dal super8 al vhs fino alla digitale, Polizzi non ha mi trattenuto il suo indugio sulla scorza del reale, maschera o materia che fosse. Fissare la luce in tempi lunghissimi sulle fantasmatiche superfici che rispecchiano quelle che crediamo essere le nostre percezioni era ovvio divenisse la sua ossessione. Da uno così, che, per vocazione e lavoro, ha a che fare con l’immagine ventiquattr’ore su ventiquattro (anche quando dorme sogna: a colori…) è quasi ovvio aspettarsi che il “sonno della ragione generi stampe”. Abituato a comunicare più con visioni che con parole mi ha fatto capire il suo “metodo” semplicemente lavorando. Proprio quando l’ho visto all’opera ho compreso l’originalità, e la novità, del suo approccio al mezzo fotografico.
Quella di Polizzi è infatti una particolare tecnica che impagina i colori in rigorose inquadrature che formano una sintassi visionaria e poetica, tanto più astratta quanto più si addentra nei dati elementari (verrebbe da dire atomistici) del reale.
Ponendosi agli antipodi delle noiose immagini che invadono, purtroppo, il nostro immaginario assieme alle pagine patinate o gli ancor più fastidiosi fermo-immagine televisivi, questo artista ma non manipolatore dello scatto fotografico, incide l’emulsione della pellicola con rigorosa attenzione. Tutto deve quindi avvenire in sede di ripresa e non a posteriori, in “camera oscura” o, peggio, con artifici elettronici. Ecco dunque l’uso di filtri che meglio accomodino la lettura dei lumen a disposizione, i tempi lunghi di esposizione che riusino i movimenti del soggetto in movenze cromatiche. Da tutto questo nasce quella sua tipica insistenza dello sguardo che ne fa più che uno “scrittore con la luce”, che etimologicamente traduce il termine “fotografo”, uno scultore.
Il rilievo e la tridimensionalità le ottiene, come detto, con esposizioni sforzate; che accettano l’alea, destino di un momento dilatato, per creare contrasti e corti circuiti con un inquadratura fortemente voluta. In tal modo le sue immagini, che accettano anche provocazioni sociali (“fotografa il fotografo”….), assemblano quasi con naturalezza sedimenti di memoria, il “non voluto vedere” insito in tanto guardare.
In virtù di questa insistita-esibita volontà di indagine su frammenti, schegge, emerge uno stile peculiare e sicilianissimo che, nel suo allucinante e solare splendore fornisce però sempre più materia per ricostruire un reale che i “totali”, al contrario, non fanno altro che falsificare.
Grazie a tali complici cadenze d’inganno visive, ha la virtù di toccare strani tasti: accordi cromatici che, per alchimie strane e fantasmagoriche, trasmutano il vedere in sentire, ascoltare.
Quasi che fotografare possa diventare auscultazione del corpo, dei suoi misteriosi segnali, preannuncio di euforie o malattie. Lo fa da anatomista ceroplasta, che non cessa mai di scorticare le parvenze, malleabile cera da sciogliere anche semplicemente con l’obbiettivo, con azzardate doppie esposizioni, voluti movimenti, incidentali esposizioni.
La camera oscura può quindi diventare un teatro anatomico. Solo che qui in cattedra, a tenere la lezione, sale Caravaggio e non Rembrandt. Due modi diversi di interpretare la stessa allucinazione. Ed è un occasione speciale la sua mostra pistoiese, perché permette di gustare gli spazi di questo scrigno unico e poco conosciuto, “teatrino” nel quale la carne si fa memoria e la memoria si incarna: emulsione di una “fotoricordo” del nostro breve transito, captatio di quello che i nostri occhi hanno guardato senza saper vedere.
***
PIETRO POLIZZI: RITORNO ALLA FOTOGRAFIA
Una storia assai particolare quella di Pietro Polizzi. In certo senso “figlio d’arte”, suo padre è stato un pioniere in Sicilia della foto di reportage e di matrimonio, titolare di un atelier ancora attivo nel paese di Boretto, vicino Palermo. Saldando spesso i due “settori” e approfittando proprio del lavoro su commissione che lo portava nei più diversi e remoti paesi dell’isola, infatti, Polizzi senior ne approfittava per documentare usi e costumi della sua gente. E Pietro già allora, ancora bimbo, faceva da assistente al padre. Matura così un istintivo senso non solo dell’inquadratura, ma del rapporto con i propri soggetti, sempre basato sul rispetto e sulla reciproca fiducia. Qui si radica anche il suo interesse sul versante sociale della foto, il suo essere sempre mezzo per approfondire la vita, per accorciare distanze di censo e condizione, per immedesimarsi in vissuti e restituirli tramite l’obbiettivo in istanti di immortalità.
Alla scomparsa paterna, con l’evolversi della società dell’immagine, a Pietro viene affidato il settore video dell’azienda di famiglia (mentre al fratello maggiore spetta la prosecuzione dell’attività fotografica). Inizia così il suo “esilio” dalla prassi fotografica, che gli permette però di affinarsi nei linguaggi dell’immagine in movimento, con la sua sintassi di primi piani, raccordi narrativi, montaggio ecc…
Rimane però, conscio e inconscio, il “primo amore” espressivo: quel fermo immagine che per lui esercita un richiamo irresistibile e al quale ritorna in tempi recenti. Con un bagaglio tecnico notevolissimo, affinato in anni di riprese cine-televisive, un gusto estetico sempre più esigente, che solo nella “camera obscura” può risolvere la tensione verso un’indagine più acuta nei confronti della rappresentazione del visibile e del non visto. Si tratti di volti (Pietro è un eccellente ritrattista) o di vivisezioni sulla materia, che diviene tavolozza per inedite astrazioni, Polizzi dà vita ad una personalissima ricerca che lo pone al di fuori dalle noiose ed effettistiche risultanze di tanta fotografia contemporanea. In lui niente di eclatante e scandalistico, di virtuosistico o arzigogolato, al quale ci ha abituato la foto glamour di scena e scema, che regna sovrana in pubblicità e sulle pagine patinate dei magazine. Per lui l’immagine non è un supplemento, né tantomeno una leccornia da offrire ad occhi già troppo sazi. Al contrario è un esercizio umile e rigoroso per rivelare il non visto, l’interstizio misterioso che solo l’occhio meccanico può catturare, portando uno sguardo di conoscenza capace di andare oltre l’apparenza.
Dopo il grande successo riscosso dalla prima personale di questo anomalo fotografo, il siciliano Pietro Polizzi, tenutasi a Monreale nei prestigiosi spazi del complesso monumentale Guglielmo II, a neanche un mese di distanza un altro prezioso scrigno si apre per le sue scritture di luce: quello del Teatro Anatomico dell’Antica Scuola Chirurgica dell’Ospedale del Ceppo di Pistoia. Sicuramente meno nota del fregio robbiano che adorna l’ingresso di questo, che è uno tra i più antichi e nobili ospitali al mondo, fa parte dell’enorme patrimonio storico artistico di questo luogo. Che recentemente, con il nuovissimo padiglione di dialisi, si è arricchito anche di alcune tra le massime espressioni di arte contemporanea. Con le quali l’astrazione iperrealista di questo geniale ceroplasta dell’arte fotografica dialoga perfettamente.
Per Polizzi, infatti, la bellezza, come l’intelligenza, sta nelle cose; non nell’occhio o nel cervello di chi la guarda o la coglie. Il mezzo fotografico diviene quindi un tramite per fermarsi. Non a guardare, ma a tentare di vedere. Da qui il titolo che, dal monrealese “L’insistenza dello sguardo” mette tra parentesi una e: quindi un’inesistenza per afferrare una visione. In tal modo: «La camera oscura può diventare un teatro anatomico. Solo che qui in cattedra, a tenere la lezione, sale Caravaggio e non Rembrandt. Due modi diversi di interpretare la stessa allucinazione. Ed è un occasione speciale la sua mostra pistoiese, perché permette di gustare uno spazio unico e poco conosciuto, “teatrino” nel quale la carne si fa memoria e la memoria si incarna: emulsione di una “fotoricordo” del nostro breve transito, captatio di quello che i nostri occhi hanno guardato senza saper vedere. »
***
L’INTERMINABILE SGUARDO DI PIETRO POLIZZI
Nato fotografo, in tempi “neorealisti”, poi passato alla manipolazione dell’immagine in movimento, dal super8 al vhs fino alla digitale, Polizzi non ha mi trattenuto il suo indugio sulla scorza del reale, maschera o materia che fosse. Fissare la luce in tempi lunghissimi sulle fantasmatiche superfici che rispecchiano quelle che crediamo essere le nostre percezioni era ovvio divenisse la sua ossessione. Da uno così, che, per vocazione e lavoro, ha a che fare con l’immagine ventiquattr’ore su ventiquattro (anche quando dorme sogna: a colori…) è quasi ovvio aspettarsi che il “sonno della ragione generi stampe”. Abituato a comunicare più con visioni che con parole mi ha fatto capire il suo “metodo” semplicemente lavorando. Proprio quando l’ho visto all’opera ho compreso l’originalità, e la novità, del suo approccio al mezzo fotografico.
Quella di Polizzi è infatti una particolare tecnica che impagina i colori in rigorose inquadrature che formano una sintassi visionaria e poetica, tanto più astratta quanto più si addentra nei dati elementari (verrebbe da dire atomistici) del reale.
Ponendosi agli antipodi delle noiose immagini che invadono, purtroppo, il nostro immaginario assieme alle pagine patinate o gli ancor più fastidiosi fermo-immagine televisivi, questo artista ma non manipolatore dello scatto fotografico, incide l’emulsione della pellicola con rigorosa attenzione. Tutto deve quindi avvenire in sede di ripresa e non a posteriori, in “camera oscura” o, peggio, con artifici elettronici. Ecco dunque l’uso di filtri che meglio accomodino la lettura dei lumen a disposizione, i tempi lunghi di esposizione che riusino i movimenti del soggetto in movenze cromatiche. Da tutto questo nasce quella sua tipica insistenza dello sguardo che ne fa più che uno “scrittore con la luce”, che etimologicamente traduce il termine “fotografo”, uno scultore.
Il rilievo e la tridimensionalità le ottiene, come detto, con esposizioni sforzate; che accettano l’alea, destino di un momento dilatato, per creare contrasti e corti circuiti con un inquadratura fortemente voluta. In tal modo le sue immagini, che accettano anche provocazioni sociali (“fotografa il fotografo”….), assemblano quasi con naturalezza sedimenti di memoria, il “non voluto vedere” insito in tanto guardare.
In virtù di questa insistita-esibita volontà di indagine su frammenti, schegge, emerge uno stile peculiare e sicilianissimo che, nel suo allucinante e solare splendore fornisce però sempre più materia per ricostruire un reale che i “totali”, al contrario, non fanno altro che falsificare.
Grazie a tali complici cadenze d’inganno visive, ha la virtù di toccare strani tasti: accordi cromatici che, per alchimie strane e fantasmagoriche, trasmutano il vedere in sentire, ascoltare.
Quasi che fotografare possa diventare auscultazione del corpo, dei suoi misteriosi segnali, preannuncio di euforie o malattie. Lo fa da anatomista ceroplasta, che non cessa mai di scorticare le parvenze, malleabile cera da sciogliere anche semplicemente con l’obbiettivo, con azzardate doppie esposizioni, voluti movimenti, incidentali esposizioni.
La camera oscura può quindi diventare un teatro anatomico. Solo che qui in cattedra, a tenere la lezione, sale Caravaggio e non Rembrandt. Due modi diversi di interpretare la stessa allucinazione. Ed è un occasione speciale la sua mostra pistoiese, perché permette di gustare gli spazi di questo scrigno unico e poco conosciuto, “teatrino” nel quale la carne si fa memoria e la memoria si incarna: emulsione di una “fotoricordo” del nostro breve transito, captatio di quello che i nostri occhi hanno guardato senza saper vedere.
***
PIETRO POLIZZI: RITORNO ALLA FOTOGRAFIA
Una storia assai particolare quella di Pietro Polizzi. In certo senso “figlio d’arte”, suo padre è stato un pioniere in Sicilia della foto di reportage e di matrimonio, titolare di un atelier ancora attivo nel paese di Boretto, vicino Palermo. Saldando spesso i due “settori” e approfittando proprio del lavoro su commissione che lo portava nei più diversi e remoti paesi dell’isola, infatti, Polizzi senior ne approfittava per documentare usi e costumi della sua gente. E Pietro già allora, ancora bimbo, faceva da assistente al padre. Matura così un istintivo senso non solo dell’inquadratura, ma del rapporto con i propri soggetti, sempre basato sul rispetto e sulla reciproca fiducia. Qui si radica anche il suo interesse sul versante sociale della foto, il suo essere sempre mezzo per approfondire la vita, per accorciare distanze di censo e condizione, per immedesimarsi in vissuti e restituirli tramite l’obbiettivo in istanti di immortalità.
Alla scomparsa paterna, con l’evolversi della società dell’immagine, a Pietro viene affidato il settore video dell’azienda di famiglia (mentre al fratello maggiore spetta la prosecuzione dell’attività fotografica). Inizia così il suo “esilio” dalla prassi fotografica, che gli permette però di affinarsi nei linguaggi dell’immagine in movimento, con la sua sintassi di primi piani, raccordi narrativi, montaggio ecc…
Rimane però, conscio e inconscio, il “primo amore” espressivo: quel fermo immagine che per lui esercita un richiamo irresistibile e al quale ritorna in tempi recenti. Con un bagaglio tecnico notevolissimo, affinato in anni di riprese cine-televisive, un gusto estetico sempre più esigente, che solo nella “camera obscura” può risolvere la tensione verso un’indagine più acuta nei confronti della rappresentazione del visibile e del non visto. Si tratti di volti (Pietro è un eccellente ritrattista) o di vivisezioni sulla materia, che diviene tavolozza per inedite astrazioni, Polizzi dà vita ad una personalissima ricerca che lo pone al di fuori dalle noiose ed effettistiche risultanze di tanta fotografia contemporanea. In lui niente di eclatante e scandalistico, di virtuosistico o arzigogolato, al quale ci ha abituato la foto glamour di scena e scema, che regna sovrana in pubblicità e sulle pagine patinate dei magazine. Per lui l’immagine non è un supplemento, né tantomeno una leccornia da offrire ad occhi già troppo sazi. Al contrario è un esercizio umile e rigoroso per rivelare il non visto, l’interstizio misterioso che solo l’occhio meccanico può catturare, portando uno sguardo di conoscenza capace di andare oltre l’apparenza.
07
marzo 2008
Pietro Polizzi – L’in(e)sistenza dello sguardo
Dal 07 al 09 marzo 2008
fotografia
Location
OSPEDALE DEL CEPPO – TEATRO ANATOMICO
Pistoia, Piazza Giovanni XXIII, (Pistoia)
Pistoia, Piazza Giovanni XXIII, (Pistoia)
Orario di apertura
dalle 11,00 alle 18,00, gradita la prenotazione
Vernissage
7 Marzo 2008, ore 17.30
Sito web
www.polizzivideo.it
Autore
Curatore