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Icone. Una finestra sul mondo divino
La raccolta di icone presente al Museo si compone di 21 icone databili tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XX
Comunicato stampa
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Il giorno venerdì 22 febbraio 2008 alle ore 17.00 avrà luogo l’inaugurazione dell’Esposizione “Icone. Una finestra sul mondo divino” nelle sale del Museo Attilio e Cleofe Gaffoglio di Rapallo alla presenza del Sindaco Avv. Mentore Campodonico, del Vice-Sindaco Roberto Di Antonio, del Consigliere incaricato alla cultura Gianni Arena, di Giorgio Rossini, Soprintendente per i Beni Architettonici della Liguria, di Giampaolo Gandolfo dell’Università degli Studi di Trieste, di Piera Rum, Direttrice Onoraria dei Civici Musei di Rapallo e curatrice della mostra e di tutte le Autorità civili e militari della Liguria.
Le immagini sacre che chiamiamo “icone” riguardano il patrimonio comune dell’intero cristianesimo fino al XII secolo: il 1054 è l’anno della divisione tra la Chiesa orientale di Costantinopoli e la Chiesa occidentale di Roma. Il discorso riguarda quindi l’intero patrimonio dell’arte cristiana fino a tale data: l’Oriente continua la tradizione e la perpetua, mentre in Occidente cominciano ad affermarsi nel mondo dell’arte sacra criteri diversi.
La spiritualità orientale non considera opera d’arte un’icona, che richiede quindi uno spazio consono alla sua natura di oggetto non di considerazione estetica, ma di venerazione. Basta visitare una chiesa ortodossa per rendersene conto, ma anche ogni casa russa, almeno fino alla rivoluzione comunista, in un angolo della stanza di maggior riguardo erano poste le icone della devozione familiare. C’erano inoltre le piccole icone che si portavano con sé - è una di queste che Mar’ja consegna al fratello, il principe Andrej Bolkonskij, alla partenza per il fronte nel romanzo Guerra e pace di Lev Tolstoj - e quelle da viaggio.
La tecnica dell’icona, nata e nutrita dalla fede, non è per questo meno consapevole di sottili accorgimenti. Nel preparare la tavola l’iconografo ne prevedeva l’incurvatura convessa che sarebbe intervenuta con il tempo, quando il tremolio delle candele avrebbe fatto vibrare, animandola, la superficie colorata dell’immagine.
A queste immagini anzitutto è estraneo ogni concetto di “autore”: chi la dipinge è soltanto colui che sa aprire ai suoi fratelli nella fede una finestra su un mondo diverso da quello terreno in cui viviamo.
La venerazione dell’icona abbraccia oggi tutta l’area culturale dell’Ortodossia: Grecia, Serbia, Bulgaria, Romania, Russia, e le zone cristiane dell’Oriente. Iconografia, stile e colori sono ovunque gli stessi, e obbediscono allo stesso canone, di cui l’iconografo è soltanto l’esecutore.
Spesso il pittore era un monaco, che si preparava al suo compito con digiuni e preghiere quasi come per un atto liturgico e doveva essere un fedele esecutore, tenuto soprattutto a non alterare le scene della Scrittura, che egli “scriveva” con i suoi colori, i suoi pennelli, la sua fede.
I colori rispondono ad una precisa funzione che li rende inutilizzabili per una interpretazione fantastica dell’immagine: il blu è il colore della trascendenza, mistero della vita divina, il rosso è il colore più vivo presente nelle icone: è simbolo dell’umano e del sangue versato dai martiri, il verde è spesso usato come simbolo della natura, della fertilità e dell’abbondanza, il marrone simboleggia ciò che è terrestre e nella sua natura più umile e povero, mentre il bianco è il colore dell’armonia, della pace, il colore del divino che rappresenta la luce.
Le espressioni e la postura dei personaggi hanno sovente un grande valore simbolico: Gesù Cristo viene rappresentato mentre benedice ed indica con la mano il numero tre simbolo della Trinità. La Vergine Maria viene dipinta con la mano che indica il Figlio che porta in braccio. Quando invece la Madre reclina il capo verso il bimbo in atteggiamento carezzevole, è la Madonna della tenerezza.
Categorie come realismo, espressionismo o impressionismo non hanno senso in questa prospettiva: l’icona non vuole riprodurre le fattezze dell’uomo o l’aspetto della natura. Umanesimo e Rinascimento sono estranei all’arte sacra dell’Ortodossia, che rimprovera semmai all’Occidente di aver tenuto sempre gli occhi bassi verso terra, anziché guardare in alto: Il Cristo morto di Mantegna è il rovescio dello spirito di un’icona. L’icona non vuole essere “copia della natura”, ma aprire un varco di luce verso una realtà diversa da quella dell’uomo. L’icona è semmai più vicina all’arte moderna nella sua aspirazione a rendere visibile l’invisibile - quello che Kandinsky chiamava lo “spirituale nell’arte - nelle sue declinazioni più astratte.
Tecniche e materiali potevano essere molto diversi: affreschi, mosaici, tempere su tavola, lastre di vetro, superfici metalliche lavorate a sbalzo, bronzo fuso. E una tavola poteva essere completata da un rivestimento parziale in metallo, chiamato riza. Nonostante la fissità e la normatività degli archetipi la qualità del pittore aveva modo di manifestarsi: la dolcezza e l’essenzialità di Andrej Rublëv (1360-1430) non ha l’eguale anche per occhi meno esperti. E poi le figure del moscovita Dionisij, attivo nella seconda metà del Cinquecento. E sono riconoscibili le differenze per aree di provenienza e le grandi scuole di Novgorod, Pskov, Mosca, le zone tra Polonia e Ucraina, quella dei crociati e di Creta.
Il processo di rapida secolarizzazione con cui Pietro il Grande (1682-1725) spalancò la Russia alla modernizzazione europea, non poteva non erodere anche lo spazio culturale cedendo rapidamente anche nella figurazione a influenze occidentalizzanti che in certa misura hanno anche reso feconda e viva la cultura dell’icona sia in Oriente che in Occidente.
La raccolta di icone presente al Museo Attilio e Cleofe Gaffoglio ne è una dimostrazione: si compone di 21 icone databili tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XX. In ordine di acquisizioni da parte del collezionista Attilio Gaffoglio, la più antica è del 1974, anno al quale risale l’acquisto della tavola rappresentante San Fozio, Grecia 1869, dall’antiquario ateniese Achille Liapakis del quale si è trovata la documentazione.
Attilio Gaffoglio è un uomo che ha raccolto tutta la sua vita oggetti e opere d’arte e, pertanto, ha continuato ad acquistare icone negli anni ottanta e novanta del secolo passato. Il trittico chiudibile Deesis, una piccola tempera su tavola databile alla seconda metà del XIX secolo, la preziosa e bellissima Croce bizantina erano già presenti nella sua abitazione di Torino prima del trasferimento a Rapallo nel 1983; la Vergine del Roveto ardente, tempera e foglia d’oro su legno della fine del Settecento, tra le più preziose della collezione, è stata invece acquistata sulla fine degli anni Novanta.
Si trova, inoltre, in mostra una piccola campionatura, composta da sei icone russe provenienti da una collezione privata più consistente, costituita da opere dei Vecchi Credenti russi, mediante acquisti effettuati in buona parte all’estero: ricordiamo San Giorgio uccide il drago con sedici scene della sua vita, Russia XVIII secolo, e Ritrovamento e presentazione della Croce con Costantino, Elena e il Vescovo di Costantinopoli, Russia inizio del XIX secolo.
E’, infatti, rara la presenza di raccolte di icone nelle collezioni pubbliche in Italia e questa di Attilio Gaffoglio è, forse, unica in Liguria; il mercato, al contrario, ha alimentato curiosità e interesse da parte di amatori e collezionisti dagli anni Settanta e Ottanta in poi.
Oggi che le maglie doganali dell’ex Unione Sovietica sono state rimosse, si è sviluppata una consistente importazione di icone in Occidente e molti hanno creato piccole raccolte amatoriali e determinato un vero interesse per la conoscenza e l’approfondimento sulle icone e sul loro splendore artistico oltre che sul valore religioso.
La mostra è l’occasione per presentare il libro “La collezione delle icone”, terzo volume della piccola collana dedicata alle raccolte del Museo Attilio e Cleofe Gaffoglio, che la casa editrice Skira ha inserito nella sua ben più vasta Collana di storia dell’arte.
Le immagini sacre che chiamiamo “icone” riguardano il patrimonio comune dell’intero cristianesimo fino al XII secolo: il 1054 è l’anno della divisione tra la Chiesa orientale di Costantinopoli e la Chiesa occidentale di Roma. Il discorso riguarda quindi l’intero patrimonio dell’arte cristiana fino a tale data: l’Oriente continua la tradizione e la perpetua, mentre in Occidente cominciano ad affermarsi nel mondo dell’arte sacra criteri diversi.
La spiritualità orientale non considera opera d’arte un’icona, che richiede quindi uno spazio consono alla sua natura di oggetto non di considerazione estetica, ma di venerazione. Basta visitare una chiesa ortodossa per rendersene conto, ma anche ogni casa russa, almeno fino alla rivoluzione comunista, in un angolo della stanza di maggior riguardo erano poste le icone della devozione familiare. C’erano inoltre le piccole icone che si portavano con sé - è una di queste che Mar’ja consegna al fratello, il principe Andrej Bolkonskij, alla partenza per il fronte nel romanzo Guerra e pace di Lev Tolstoj - e quelle da viaggio.
La tecnica dell’icona, nata e nutrita dalla fede, non è per questo meno consapevole di sottili accorgimenti. Nel preparare la tavola l’iconografo ne prevedeva l’incurvatura convessa che sarebbe intervenuta con il tempo, quando il tremolio delle candele avrebbe fatto vibrare, animandola, la superficie colorata dell’immagine.
A queste immagini anzitutto è estraneo ogni concetto di “autore”: chi la dipinge è soltanto colui che sa aprire ai suoi fratelli nella fede una finestra su un mondo diverso da quello terreno in cui viviamo.
La venerazione dell’icona abbraccia oggi tutta l’area culturale dell’Ortodossia: Grecia, Serbia, Bulgaria, Romania, Russia, e le zone cristiane dell’Oriente. Iconografia, stile e colori sono ovunque gli stessi, e obbediscono allo stesso canone, di cui l’iconografo è soltanto l’esecutore.
Spesso il pittore era un monaco, che si preparava al suo compito con digiuni e preghiere quasi come per un atto liturgico e doveva essere un fedele esecutore, tenuto soprattutto a non alterare le scene della Scrittura, che egli “scriveva” con i suoi colori, i suoi pennelli, la sua fede.
I colori rispondono ad una precisa funzione che li rende inutilizzabili per una interpretazione fantastica dell’immagine: il blu è il colore della trascendenza, mistero della vita divina, il rosso è il colore più vivo presente nelle icone: è simbolo dell’umano e del sangue versato dai martiri, il verde è spesso usato come simbolo della natura, della fertilità e dell’abbondanza, il marrone simboleggia ciò che è terrestre e nella sua natura più umile e povero, mentre il bianco è il colore dell’armonia, della pace, il colore del divino che rappresenta la luce.
Le espressioni e la postura dei personaggi hanno sovente un grande valore simbolico: Gesù Cristo viene rappresentato mentre benedice ed indica con la mano il numero tre simbolo della Trinità. La Vergine Maria viene dipinta con la mano che indica il Figlio che porta in braccio. Quando invece la Madre reclina il capo verso il bimbo in atteggiamento carezzevole, è la Madonna della tenerezza.
Categorie come realismo, espressionismo o impressionismo non hanno senso in questa prospettiva: l’icona non vuole riprodurre le fattezze dell’uomo o l’aspetto della natura. Umanesimo e Rinascimento sono estranei all’arte sacra dell’Ortodossia, che rimprovera semmai all’Occidente di aver tenuto sempre gli occhi bassi verso terra, anziché guardare in alto: Il Cristo morto di Mantegna è il rovescio dello spirito di un’icona. L’icona non vuole essere “copia della natura”, ma aprire un varco di luce verso una realtà diversa da quella dell’uomo. L’icona è semmai più vicina all’arte moderna nella sua aspirazione a rendere visibile l’invisibile - quello che Kandinsky chiamava lo “spirituale nell’arte - nelle sue declinazioni più astratte.
Tecniche e materiali potevano essere molto diversi: affreschi, mosaici, tempere su tavola, lastre di vetro, superfici metalliche lavorate a sbalzo, bronzo fuso. E una tavola poteva essere completata da un rivestimento parziale in metallo, chiamato riza. Nonostante la fissità e la normatività degli archetipi la qualità del pittore aveva modo di manifestarsi: la dolcezza e l’essenzialità di Andrej Rublëv (1360-1430) non ha l’eguale anche per occhi meno esperti. E poi le figure del moscovita Dionisij, attivo nella seconda metà del Cinquecento. E sono riconoscibili le differenze per aree di provenienza e le grandi scuole di Novgorod, Pskov, Mosca, le zone tra Polonia e Ucraina, quella dei crociati e di Creta.
Il processo di rapida secolarizzazione con cui Pietro il Grande (1682-1725) spalancò la Russia alla modernizzazione europea, non poteva non erodere anche lo spazio culturale cedendo rapidamente anche nella figurazione a influenze occidentalizzanti che in certa misura hanno anche reso feconda e viva la cultura dell’icona sia in Oriente che in Occidente.
La raccolta di icone presente al Museo Attilio e Cleofe Gaffoglio ne è una dimostrazione: si compone di 21 icone databili tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XX. In ordine di acquisizioni da parte del collezionista Attilio Gaffoglio, la più antica è del 1974, anno al quale risale l’acquisto della tavola rappresentante San Fozio, Grecia 1869, dall’antiquario ateniese Achille Liapakis del quale si è trovata la documentazione.
Attilio Gaffoglio è un uomo che ha raccolto tutta la sua vita oggetti e opere d’arte e, pertanto, ha continuato ad acquistare icone negli anni ottanta e novanta del secolo passato. Il trittico chiudibile Deesis, una piccola tempera su tavola databile alla seconda metà del XIX secolo, la preziosa e bellissima Croce bizantina erano già presenti nella sua abitazione di Torino prima del trasferimento a Rapallo nel 1983; la Vergine del Roveto ardente, tempera e foglia d’oro su legno della fine del Settecento, tra le più preziose della collezione, è stata invece acquistata sulla fine degli anni Novanta.
Si trova, inoltre, in mostra una piccola campionatura, composta da sei icone russe provenienti da una collezione privata più consistente, costituita da opere dei Vecchi Credenti russi, mediante acquisti effettuati in buona parte all’estero: ricordiamo San Giorgio uccide il drago con sedici scene della sua vita, Russia XVIII secolo, e Ritrovamento e presentazione della Croce con Costantino, Elena e il Vescovo di Costantinopoli, Russia inizio del XIX secolo.
E’, infatti, rara la presenza di raccolte di icone nelle collezioni pubbliche in Italia e questa di Attilio Gaffoglio è, forse, unica in Liguria; il mercato, al contrario, ha alimentato curiosità e interesse da parte di amatori e collezionisti dagli anni Settanta e Ottanta in poi.
Oggi che le maglie doganali dell’ex Unione Sovietica sono state rimosse, si è sviluppata una consistente importazione di icone in Occidente e molti hanno creato piccole raccolte amatoriali e determinato un vero interesse per la conoscenza e l’approfondimento sulle icone e sul loro splendore artistico oltre che sul valore religioso.
La mostra è l’occasione per presentare il libro “La collezione delle icone”, terzo volume della piccola collana dedicata alle raccolte del Museo Attilio e Cleofe Gaffoglio, che la casa editrice Skira ha inserito nella sua ben più vasta Collana di storia dell’arte.
22
febbraio 2008
Icone. Una finestra sul mondo divino
Dal 22 febbraio all'undici maggio 2008
arte antica
arte moderna
arte moderna
Location
MUSEO ATTILIO E CLEOFE GAFFOGLIO
Rapallo, Piazzale Libia, (Genova)
Rapallo, Piazzale Libia, (Genova)
Orario di apertura
martedì, mercoledì, venerdì e sabato dalle ore 15.00 alle ore 18.00; giovedì e domenica dalle ore 10.00 alle ore 12.00 e dalle 14.30 alle 17.30; lunedì chiuso
Vernissage
22 Febbraio 2008, ore 17
Editore
SKIRA
Curatore