04 giugno 2012

Dichiaro di essere Emilio Isgrò

 
L'artista si confronta con un nuovo capitolo dell'azione che l'ha reso celebre: cancellare una lingua morta. È quanto accade alla Fondazione Marconi di Milano dove a sparire sono alcuni passi dei Codici Ottomani trovati in un bazar. E come sempre Isgrò riflette e motiva a modo suo il gesto iniziato negli anni Sessanta. Con lo sguardo a Istanbul e un sogno: cancellare lo spread

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Sfondo rosso con mezza luna e stella, ovvero il dittico componibile ad libitum, Sorriso di Ataturk, dà il benvenuto a Var Ve Yok, (C’è e non C’è), Codici Ottomani, la mostra di Emilio Isgrò alla Fondazione Marconi. Il secondo sorriso continua nel piano superiore in corrispondenza del primo. Questa volta la stella e la mezza luna sono velate: sono l’omaggio dell’artista all’innovatore Kehmal Ataturk, il cancellatore gloriosamente laico, come lo ha definito Isgrò, un modo per far dialogare la negazione con la possibilità di un percorso che si articola in alcune opere in una serie di cancellature che parte dalla geografia, dal suo spazio, dove nessun luogo rimane, se non Istanbul, omaggio alla Turchia più europea. Seguono quattordici codici ottomani, realizzati in occasione di Istanbul capitale della cultura europea 2010. Isgrò li ha riprodotti, cancellati, lasciando spazio a caratteri arabi, a immagini, a nomi in latino, a Bastille, Marie Antoinette, Goethe, Schiller, Magellan, Vasco de Gama, Venezia, Toscane, segnali di una consapevolezza antica della Turchia di essere in Europa, senza saperlo.

Fulcro della mostra curata da Marco Bazzini, con scritti di Achille Bonito Oliva, è la storia degli Ottomani, raccolta in una serie di grossi volumi, rovinati e macchiati, trovati dall’artista in un gran bazar. Per la prima volta Isgrò si è confrontato con la cancellazione di una lingua morta e comunque indecifrabile, sostituendo quella che l’artista ha chiamato la casualità dadaista, con il principio di necessità tipico della nostra epoca, partendo da un gesto che conserva una lunga memoria: «Le cancellature che arrivano per trasparenze e velature, recuperano la tradizione del Rinascimento – sottolinea Isgrò – perché la cancellatura nel suo gesto radicale si tira dietro il passato migliore. Cancellare una cultura morta, è una doppia cancellazione, e diventa una grande affermazione».

Tra i codici, troviamo quello della libertà, del dubbio, della solitudine, con due ottomani, del silenzio, delle ombre, o dell’armonia, ricostruito con formiche intente ad attraversare i fogli, messaggere del passare del tempo che rappresenta la disgregazione insieme a un’operosità umana di crescita ancora possibile. Sintesi del processo di azzeramento, e rinascita, di esserci e non esserci, presenza e assenza che lascia spazio al possibile, al non visibile, che diventa traccia nel presente, oppure solo ricordo, o ancora  negazione, prima della ricostruzione. «Mentre cancellavo i codici sono fuggiti due personaggi, l’Ottomano Energico, un ambasciatore probabilmente, l’Ottomano Esitante, un notabile. Sono balzati dalle pagine alle pareti, per camminare per le strade dell’Europa, e pensando a Istanbul pensavo alle frontiere che l’Europa non riesce a darsi, come non riesce ad avere un assetto politico, culturale ed economico accettabile. Credo che un equilibrio credibile del mondo non potrà esserci senza un’Europa unita: siamo un pozzo di contraddizioni, e reputo la contraddizione l’essenza della cultura. Cancellando ho rappresentato una cancellazione in atto, come una medicina omeopatica che cura il veleno con il veleno, e io cancello tutto quello che blocca le idee».

Isgrò ha cominciato a cancellare negli anni Sessanta i testi di libri con quel segno massiccio, assoluto, azione capace di spiegare più che di dire, per annullare parole. In seguito le cancellazioni hanno interessato la Treccani, la Divina Commedia, la Costituzione, il Debito Pubblico: «Un auspicio, un augurio – sottolinea Isgrò – anche se una scuola di economisti dice che in piccola parte sia necessario, che non sia da sopprimere completamente, anche se non sappiamo le giuste misure da mantenere».

Il gioco delle negazione è arrivato ad assumere una dimensione totale nel ’71 quando  l’artista  si è negato con Dichiaro di non esser Emilio Isgrò. Riappare dopo più di trent’anni con il suo opposto Dichiaro di esser Emilio Isgrò, la grande retrospettiva del 2008 del centro Luigi Pecci di Prato. Non esiste sparizione totale: «Perdere la propria identità – afferma Isgrò – è tanto difficile quanto ritrovarla». Affermazione della contraddizione, mancanza di corrispondenza tra domanda e risposta, per lasciare spazio di movimento, di riflessione, e ripartire con la nuova creazione. Adesso un desiderio per l’artista,  un possibile progetto, realizzare la Cancellazione dello Spread: «Esser capaci di fondere le culture europee in un concetto armonico nelle sue disarmonie». Poi anche un sogno: «Mi piacerebbe cancellare i ritardi che il nostro Paese ha accumulato negli ultimi vent’anni. Oggi l’arte è rimasto l’unico strumento concreto nelle mani degli uomini. Più stabile di una cronaca che ha sempre più i colori del mito e della leggenda».

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