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Morfologie
Tre giovani artisti italiani, Marco Mazzoni, Marta Sesana e Matteo Nuti, a confronto nella mostra “Morfologie”, curata da Ivan Quaroni
Comunicato stampa
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"Se lo stile è il modo in cui le forme si assemblano, allora l’analisi delle forme, cioè l’estetica morfologica, può divenire un efficace strumento interpretativo, analogo a quella branca della biologia, chiamata appunto morfologia, che studia l’aspetto esteriore di un organismo vivente": è questo il punto di partenza dal quale ci si è mossi per mettere a confronto il lavoro di tre giovani artisti italiani, Marco Mazzoni, Marta Sesana e Matteo Nuti, nella mostra "Morfologie", curata da Ivan Quaroni. Nel disegno, come incipit e come scopo, si radica l’indagine formale di Marco Mazzoni, classe 1982, che alla KGallery era già stato presentato in occasione della mostra di inizio stagione "Kick off".Certo si avverte nel suo modus una passionalità morfologica, una ridondanza che origina da un senso di horror vacui, contrastato solo dalla volontà recente di lasciare spazio al vuoto bianco del foglio. Matteo Nuti, 1979, estremizza invece le sue intuizioni formali fino a farle diventare tecnica e metodo. L’artista disegna le sue figure, frutto di un particolare sistema produttivo, su grandi fogli di carta acetata, grazie all’impiego di due diversi approcci creativi. Su un lato del foglio, l’immagine è disegnata, per dirla con Merleau Ponty, come se fosse il risultato di una giustapposizione di solidi geometrici, ma anche di linee curve e rette: sul lato opposto del foglio, invece, le figure sono dipinte con vernice acrilica in modo casuale, organico. Svincolata dal disegno è, invece, la pratica pittorica di Marta Sesana (1981), staccata, anche logisticamente, dall’iter concettuale della mostra. Tuttavia, anche nel suo caso l’approccio morfologico è evidente. Le sue figure, morbide e coloratissime, sembrano edificate con blocchi di plastilina.
Morfologie
di Ivan Quaroni
Balzac sosteneva che nel mondo tutto è forma e che la vita è un continuo mutare e defluire di forme. Un’idea, questa, che ha attraversato tutta l’estetica novecentesca, trovando in Henri Focillon il più strenuo ed efficace sostenitore. Secondo lo storico dell’arte francese, infatti, l’estetica doveva poggiare su fondamenti oggettivi. L’idea di una funzione dell’arte di natura fondamentalmente morfologica, è conseguente alla convinzione che la forma non solo incarna e rende visibile il significato di un manufatto o di un organismo, ma ne esplicita il destino stesso. La descrizione delle forme diventava, così, un metodo non opinabile, quasi scientifico, di trattare la materia artistica, un metodo che metteva lo storico o il critico al riparo dagli errori di un’ermeneutica soggettiva e irrazionale. Il pensiero di Focillon, contenuto in massima parte nel suo celebre Vita delle forme, insisteva nel considerare l’opera come una forma sensibile, nata dal lavoro manuale e dall’applicazione della tecnica, intesa non come reiterazione abitudinaria di regole, ma come prassi in grado di garantire alla mano e alla mente dell’artista una maggiore libertà creativa. Le forme, che per Focillon hanno una loro autonomia, sono indiscutibilmente l’unità di base dell’opera d’arte. Come nella grammatica di una lingua, le forme rappresentano morfemi, che sono le unità grammaticali minime dotate di significato proprio. Ogni forma-morfema può essere assemblata con altre forme-morfemi, originando quel linguaggio specifico che chiamiamo stile. Lo stile è la manifestazione esteriore della grammatica pittorica, ma è, allo stesso tempo, la sua ragion d’essere. Quando parliamo di forme, dunque, parliamo anche di significati. Un’artista che non sia anche un formalista non può essere preso in considerazione, poiché omette d’interessarsi al significato stesso di ciò che fa. Ecco perché, in Arte, i concettualismi, soprattutto quelli che disconoscono l’impatto estetico e formale, dimostrano di essere energeticamente deboli ed espressivamente inerti.
Se lo stile è il modo in cui le forme si assemblano, allora l’analisi delle forme, cioè l’estetica morfologica, può divenire un efficace strumento interpretativo, analogo a quella branca della biologia, chiamata appunto morfologia, che studia l’aspetto esteriore di un organismo vivente.
Alcuni artisti hanno elaborato stili che, in qualche modo, favoriscono l’interpretazione morfologica. L’uso del disegno, ad esempio, è un fattore indicativo della maggiore prossimità dell’artista alla sorgente generativa delle forme. Nel disegno, infatti, si costruiscono le forme e dal disegno, inteso come piano progettuale e come primitiva intuizione, esse affiorano alla superficie del visibile. Il disegno è, insomma, una tecnica ostetrica, che aiuta le forme a venire al mondo. Con questo non s’intende necessariamente fornire una visione platonica e spiritualista della critica d’arte, secondo la quale le forme dimorerebbero in un ideale mondo ultraterreno, in attesa di incarnarsi. Semplicemente esse si generano dalla tecnica stessa, con la complice e vibratile manualità dell’artefice. Insomma, il metodo e l’oggetto artistico coincidono, poiché le forme sono definite dalla tecnica e dalla mano che le ha forgiate. In altre parole, lo stile è il significato ultimo dell’opera, il suo fine e la sua ragion d’essere. Ciò risulta evidente soprattutto nella ricerca di Matteo Nuti, che estremizza le sue intuizioni formali fino a farle diventare tecnica e metodo. L’artista disegna le sue figure, frutto di un particolare sistema produttivo, su grandi fogli di carta acetata, grazie anche all’impiego di due diversi approcci creativi. Su un lato del foglio, l’immagine è disegnata, per dirla con Merleau Ponty, come se fosse il risultato di una giustapposizione di solidi geometrici, ma anche di linee curve e rette. Sembrano ritratti eseguiti con l’ausilio di programmi informatici per la generazione di forme tridimensionali. È il dominio apollineo della geometria, del rigore. Sul lato opposto del foglio, invece, le figure sono dipinte con vernice acrilica in modo casuale, organico. Grazie alla trasparenza dei supporti, i due diversi interventi pittorici si sovrappongono e sono percepiti dall’osservatore come un’unica immagine. I ritratti di Matteo Nuti sono, quindi, il frutto di una magia combinatoria, in cui si fondono elementi astratti e figurativi, forme organiche e artificiali, fuse nella definizione di corpi virtuali, fatti non di carne, ma di strutture matematiche e cromatiche, di sequenze lineari e caotiche. Viene la tentazione di considerare questi ritratti come un’ennesima trasposizione dell’immaginario fantascientifico e cyberpunk, ma la verità è che non nell’iconografia risiede il senso dei ritratti di Nuti, ma in quella particolare tecnica, in quel segno distintivo, che è anche marca stilistica, dunque concetto nell’accezione più nobile.
Nel disegno, come incipit e come scopo, si radica l’indagine formale di Marco Mazzoni, la cui analisi impietosa, ma anche rigogliosa e sovrabbondante, della fisionomia umana si profila come forma deviata e corrotta della mimesi naturalistica. Ancora Focillon sosteneva, a proposito degli artisti visionari, irriducibili a ogni formulazione nomotetica riguardante l’evoluzione degli stili e l’avvicendamento dei canoni estetici, che essi avevano una comune attitudine a non imitare il mondo sensibile, ma ad interpretarlo, restituendone una visione allucinata e distorta, per effetto di una percezione febbrile. I grandi artisti, per i quali lo storico francese invoca una genealogia dell’unico, sono coloro che hanno saputo deformare sia concettualmente che morfologicamente la rappresentazione del reale, allontanandosi dal mimetismo, diremmo oggi “fotografico”, per inventare nuovi mondi. Marco Mazzoni potrebbe appartenere a questa schiera, in ragione del fatto che la sua adesione tassonomica al ritratto, la precisione con cui ricostruisce, con l’uso di semplici matite colorate, il tessuto dermico dei volti o l’umido lucore dei bulbi oculari, la morbidezza dei tessuti o il cedimento muscolare del viso, diventa elemento di caratterizzazione ipertrofica, dunque antirealistica. Il tono livido della pelle, violacea e cianotica, la presenza di inserti privi di significato, sospesi tra ornamento e nonsense e, infine, le ampie zone bianche, dove il disegno sembra arrestarsi, come sul ciglio di una zona impermeabile, sono fattori che contribuiscono a rendere lo stile di Mazzoni più onirico che realistico. Certo si avverte nel suo modus una passionalità morfologica, una ridondanza che origina da un senso di horror vacui, contrastato solo dalla volontà recente di lasciare spazio, in alcuni punti, al vuoto bianco del foglio, quasi ad interrompere la foga calligrafica alla quale sovente s’abbandona l’artista.
Svincolata dal disegno è, invece, la pratica pittorica di Marta Sesana, staccata, anche logisticamente, dall’iter concettuale della mostra. Tuttavia, anche nel suo caso l’approccio morfologico è evidente. Le sue figure, morbide e coloratissime, sembrano edificate con blocchi di plastilina. Si tratta di pupazzi dai tratti sommari, dipinti su tela accostando campiture di colori vividi e contrastanti. La dimensione tridimensionale è scandita dall’alternanza di masse dalla consistenza cedevole, quasi effimera. Non sono unicamente le figure a replicare la consistenza del pongo, ma anche gli ambienti e i fondali, altrettanto morbidi e arrotondati. Le opere di Marta Sesana sono dominate dal colore, entro una dimensione dionisiaca e antinaturalistica in cui le forme sembrano fluttuare fuori dalle normali coordinate spazio-temporali. Nelle sue tele, il disegno di fondo, il tracciato di segni e linee del progetto iniziale, affoga in un denso lago cromatico, fagocitato da una palude di masse elastiche e flessibili. Nella grammatica visiva dell’artista, tutto cospira verso la rappresentazione di un mondo onirico, completamente svincolato dalla realtà fenomenologica, sebbene venga il sospetto che i suoi personaggi siano quasi dei feticci, dei simulacri in grado d’incarnare metaforicamente la varietà delle tipologie esistenziali. Non ci è dato di sapere se, con la sua arte, Sesana voglia affrontare temi di tipo sociale ma, tutto sommato, non è poi così interessante saperlo. Quel che è certo, piuttosto, è la sua estraneità al processo mimetico e la sua salutare vocazione a creare nuove e immaginifiche dimensioni esistenziali.
Morfologie
di Ivan Quaroni
Balzac sosteneva che nel mondo tutto è forma e che la vita è un continuo mutare e defluire di forme. Un’idea, questa, che ha attraversato tutta l’estetica novecentesca, trovando in Henri Focillon il più strenuo ed efficace sostenitore. Secondo lo storico dell’arte francese, infatti, l’estetica doveva poggiare su fondamenti oggettivi. L’idea di una funzione dell’arte di natura fondamentalmente morfologica, è conseguente alla convinzione che la forma non solo incarna e rende visibile il significato di un manufatto o di un organismo, ma ne esplicita il destino stesso. La descrizione delle forme diventava, così, un metodo non opinabile, quasi scientifico, di trattare la materia artistica, un metodo che metteva lo storico o il critico al riparo dagli errori di un’ermeneutica soggettiva e irrazionale. Il pensiero di Focillon, contenuto in massima parte nel suo celebre Vita delle forme, insisteva nel considerare l’opera come una forma sensibile, nata dal lavoro manuale e dall’applicazione della tecnica, intesa non come reiterazione abitudinaria di regole, ma come prassi in grado di garantire alla mano e alla mente dell’artista una maggiore libertà creativa. Le forme, che per Focillon hanno una loro autonomia, sono indiscutibilmente l’unità di base dell’opera d’arte. Come nella grammatica di una lingua, le forme rappresentano morfemi, che sono le unità grammaticali minime dotate di significato proprio. Ogni forma-morfema può essere assemblata con altre forme-morfemi, originando quel linguaggio specifico che chiamiamo stile. Lo stile è la manifestazione esteriore della grammatica pittorica, ma è, allo stesso tempo, la sua ragion d’essere. Quando parliamo di forme, dunque, parliamo anche di significati. Un’artista che non sia anche un formalista non può essere preso in considerazione, poiché omette d’interessarsi al significato stesso di ciò che fa. Ecco perché, in Arte, i concettualismi, soprattutto quelli che disconoscono l’impatto estetico e formale, dimostrano di essere energeticamente deboli ed espressivamente inerti.
Se lo stile è il modo in cui le forme si assemblano, allora l’analisi delle forme, cioè l’estetica morfologica, può divenire un efficace strumento interpretativo, analogo a quella branca della biologia, chiamata appunto morfologia, che studia l’aspetto esteriore di un organismo vivente.
Alcuni artisti hanno elaborato stili che, in qualche modo, favoriscono l’interpretazione morfologica. L’uso del disegno, ad esempio, è un fattore indicativo della maggiore prossimità dell’artista alla sorgente generativa delle forme. Nel disegno, infatti, si costruiscono le forme e dal disegno, inteso come piano progettuale e come primitiva intuizione, esse affiorano alla superficie del visibile. Il disegno è, insomma, una tecnica ostetrica, che aiuta le forme a venire al mondo. Con questo non s’intende necessariamente fornire una visione platonica e spiritualista della critica d’arte, secondo la quale le forme dimorerebbero in un ideale mondo ultraterreno, in attesa di incarnarsi. Semplicemente esse si generano dalla tecnica stessa, con la complice e vibratile manualità dell’artefice. Insomma, il metodo e l’oggetto artistico coincidono, poiché le forme sono definite dalla tecnica e dalla mano che le ha forgiate. In altre parole, lo stile è il significato ultimo dell’opera, il suo fine e la sua ragion d’essere. Ciò risulta evidente soprattutto nella ricerca di Matteo Nuti, che estremizza le sue intuizioni formali fino a farle diventare tecnica e metodo. L’artista disegna le sue figure, frutto di un particolare sistema produttivo, su grandi fogli di carta acetata, grazie anche all’impiego di due diversi approcci creativi. Su un lato del foglio, l’immagine è disegnata, per dirla con Merleau Ponty, come se fosse il risultato di una giustapposizione di solidi geometrici, ma anche di linee curve e rette. Sembrano ritratti eseguiti con l’ausilio di programmi informatici per la generazione di forme tridimensionali. È il dominio apollineo della geometria, del rigore. Sul lato opposto del foglio, invece, le figure sono dipinte con vernice acrilica in modo casuale, organico. Grazie alla trasparenza dei supporti, i due diversi interventi pittorici si sovrappongono e sono percepiti dall’osservatore come un’unica immagine. I ritratti di Matteo Nuti sono, quindi, il frutto di una magia combinatoria, in cui si fondono elementi astratti e figurativi, forme organiche e artificiali, fuse nella definizione di corpi virtuali, fatti non di carne, ma di strutture matematiche e cromatiche, di sequenze lineari e caotiche. Viene la tentazione di considerare questi ritratti come un’ennesima trasposizione dell’immaginario fantascientifico e cyberpunk, ma la verità è che non nell’iconografia risiede il senso dei ritratti di Nuti, ma in quella particolare tecnica, in quel segno distintivo, che è anche marca stilistica, dunque concetto nell’accezione più nobile.
Nel disegno, come incipit e come scopo, si radica l’indagine formale di Marco Mazzoni, la cui analisi impietosa, ma anche rigogliosa e sovrabbondante, della fisionomia umana si profila come forma deviata e corrotta della mimesi naturalistica. Ancora Focillon sosteneva, a proposito degli artisti visionari, irriducibili a ogni formulazione nomotetica riguardante l’evoluzione degli stili e l’avvicendamento dei canoni estetici, che essi avevano una comune attitudine a non imitare il mondo sensibile, ma ad interpretarlo, restituendone una visione allucinata e distorta, per effetto di una percezione febbrile. I grandi artisti, per i quali lo storico francese invoca una genealogia dell’unico, sono coloro che hanno saputo deformare sia concettualmente che morfologicamente la rappresentazione del reale, allontanandosi dal mimetismo, diremmo oggi “fotografico”, per inventare nuovi mondi. Marco Mazzoni potrebbe appartenere a questa schiera, in ragione del fatto che la sua adesione tassonomica al ritratto, la precisione con cui ricostruisce, con l’uso di semplici matite colorate, il tessuto dermico dei volti o l’umido lucore dei bulbi oculari, la morbidezza dei tessuti o il cedimento muscolare del viso, diventa elemento di caratterizzazione ipertrofica, dunque antirealistica. Il tono livido della pelle, violacea e cianotica, la presenza di inserti privi di significato, sospesi tra ornamento e nonsense e, infine, le ampie zone bianche, dove il disegno sembra arrestarsi, come sul ciglio di una zona impermeabile, sono fattori che contribuiscono a rendere lo stile di Mazzoni più onirico che realistico. Certo si avverte nel suo modus una passionalità morfologica, una ridondanza che origina da un senso di horror vacui, contrastato solo dalla volontà recente di lasciare spazio, in alcuni punti, al vuoto bianco del foglio, quasi ad interrompere la foga calligrafica alla quale sovente s’abbandona l’artista.
Svincolata dal disegno è, invece, la pratica pittorica di Marta Sesana, staccata, anche logisticamente, dall’iter concettuale della mostra. Tuttavia, anche nel suo caso l’approccio morfologico è evidente. Le sue figure, morbide e coloratissime, sembrano edificate con blocchi di plastilina. Si tratta di pupazzi dai tratti sommari, dipinti su tela accostando campiture di colori vividi e contrastanti. La dimensione tridimensionale è scandita dall’alternanza di masse dalla consistenza cedevole, quasi effimera. Non sono unicamente le figure a replicare la consistenza del pongo, ma anche gli ambienti e i fondali, altrettanto morbidi e arrotondati. Le opere di Marta Sesana sono dominate dal colore, entro una dimensione dionisiaca e antinaturalistica in cui le forme sembrano fluttuare fuori dalle normali coordinate spazio-temporali. Nelle sue tele, il disegno di fondo, il tracciato di segni e linee del progetto iniziale, affoga in un denso lago cromatico, fagocitato da una palude di masse elastiche e flessibili. Nella grammatica visiva dell’artista, tutto cospira verso la rappresentazione di un mondo onirico, completamente svincolato dalla realtà fenomenologica, sebbene venga il sospetto che i suoi personaggi siano quasi dei feticci, dei simulacri in grado d’incarnare metaforicamente la varietà delle tipologie esistenziali. Non ci è dato di sapere se, con la sua arte, Sesana voglia affrontare temi di tipo sociale ma, tutto sommato, non è poi così interessante saperlo. Quel che è certo, piuttosto, è la sua estraneità al processo mimetico e la sua salutare vocazione a creare nuove e immaginifiche dimensioni esistenziali.
25
gennaio 2008
Morfologie
Dal 25 gennaio all'otto marzo 2008
arte contemporanea
Location
KGALLERY ARTE CONTEMPORANEA
Legnano, Piazza Europa, 15, (Milano)
Legnano, Piazza Europa, 15, (Milano)
Orario di apertura
dal giovedì al sabato, dalle 16.30 alle 19.30
Vernissage
25 Gennaio 2008, dalle 19.00
Autore
Curatore