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Veronica Smirnoff – Morozka
In mostra una ventina di quadri in cui emerge un profondo legame della giovane artista con la sua terra natale, la Russia
Comunicato stampa
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In mostra una ventina di quadri in cui emerge un profondo legame della giovane artista con la sua terra natale, la Russia.
Morozka è infatti una piccola contadina, protagonista di una favola russa, abbandonata dalla matrigna in una foresta nel mezzo di un gelido inverno. Lì incontra Padre Moroz che colpito dalla sua forza d’animo la salva.
Un richiamo non solo culturale ma anche alla tradizione estetica e figurativa russa, che si ritrova nei suoi personaggi immaginari e fiabeschi.
Figure che si staccano dal reale con aria malinconica, per entrare in una dimensione della memoria da cui traspare la sensazione di un’arte più silenziosa che non vuole imporsi, ma che spesso rappresenta la realtà in maniera teatralmente scenografica.
Un percorso visivo che spazia dalla miniatura russa all’arte del primo Rinascimento, Bruegel, Bosch, per arrivare ai cartoons, alla tecnica del fumetto mantenendo sempre un aspetto e una valenza intensamente simbolista.
La tecnica utilizzata è l’antica tecnica delle icone ortodosse: tempera all’uovo su piccole tavole di legno di betulla russa, trattate con gesso secondo le tecniche usate per le icone che ancora oggi così vengono preparate dalla comunità russa ortodossa.
Il riferimento alla cultura religiosa e visiva delle icone è forte, anche se il più immediato è al simbolismo onirico dei suoi quadri che esplicitano la ricerca introspettiva e psicanalitica nei confronti dei personaggi rappresentati.
Nelle sue opere è centrale la ricerca del dettaglio che si allarga e si sfuma in una pennellata, trasfigurando uno stato emotivo attraverso i colori vibranti delle vesti e le sfumature del cielo, a ricordare quasi la poesia di Chagall.
Un’arte quella di Veronica Smirnoff che si accende quando tutto si spegne, come un’icona moderna che trascende dal tempo, riprende la strada della bi-dimensionalità per riscoprire protagonista nei suoi quadri una nuova pittura figurativa inserita e interpretata in un contesto contemporaneo.
Veronica Smirnoff: infanzia, nostalgia, lontananza
Di Remo Bodei
Scrive Brecht in Inviando poesie dall’esilio: “Son come quello che con sé portava / sempre un mattone, per mostrare al mondo / com’era stata un giorno la sua casa”. Veronica Smirnoff ha portato dalla sua Russia le immagini nostalgiche della neve, delle isbe, degli animali, delle icone. Ma nei suoi delicati dipinti, per lo più a tempera su gesso, c’è anche il dolce ricordo dell’infanzia e dell’adolescenza, che si esprime nel volto del nonno, delle bambine e delle altre figure umane che, plasmate dall’immaginazione, riaffiorano dal passato. È come se il tempo fluisse delicatamente dai tubetti di colore per essere fissato o che il suo profumo si sprigionasse dall’ampolla della memoria in cui era stato custodito.
Trapiantati in un terreno nuovo, in un universo di differenze sempre riproposte, gli espatriati (Veronica ha vissuto a Londra e Vienna) tendono a mimare la patria perduta, a riprodurre i luoghi che si sono lasciati alle spalle, a continuare a pensare nella propria lingua e a immaginare secondo i canoni della propria tradizione figurativa. Il taglio della separazione dal suo mondo di esperienza e di affetti si trasforma in lei in nostalgia (c’è sempre dentro di noi il campanile del nostro villaggio o della nostra città o il cammino che fuma come nei disegni dei bambini).
La nostra vita sperimenta continuamente la separazione: dal corpo della madre, dai genitori, dagli amici, da noi stessi come eravamo nel passato. E cerca di abituarvisi e di farsene una ragione, specie quando la separazione coincide con una perdita irreparabile. L’esistenza di ognuno di noi è un alternarsi di separazioni e ricongiungimenti, di fratture e di saldature, di addii del passato e di scoperte del nuovo. Siamo incessantemente come portati da noi stessi e dagli altri, dalla casa natale e dalla patria, isolati, sospinti nell’interiorità, levigati (come accade in Veronica Smirnoff) o resi aspri dal dolore del distacco.
L’esperienza della separazione è così densa e quasi inesprimibile che solo l’arte è in grado di esprimerla compiutamente. Essa è, infatti, chiamata a operare sul terreno di quelli che vorrei definire ‘luoghi comuni’. Simili alle piazze o ai punti d'incontro in cui gli uomini scambiano i loro prodotti ed elaborano i loro vissuti, essi non sono da confondere con le banalità. Si tratta piuttosto di zone di estrema condensazione e sedimentazione di esperienze e di interrogativi, virtualmente condivisi da tutti perché toccano inaggirabili esperienze comuni, sebbene siano poco esprimibili in discorsi che non risultino superficiali cercando, o che risultano al margine dell’effabilità. L’arte invece dà loro forma perspicua, articolata e pregnante e, soprattutto, comunicabile. Nei rituali comunicativi, tali luoghi comuni costituiscono il punto di equilibrio tra ciò che si è capaci di dire e ciò che, di per sé, appare ineffabile, ma che può essere quasi istintivamente compreso da parte di chi ha attraversato prove analoghe ed è in grado di integrare le parole altrui con i propri vissuti. Paradossalmente, la maggior parte degli uomini non è in grado di esprimere ciò che è più importante. Come si dice dei cani, manca loro soltanto la parola. Gli artisti hanno le parole e le immagini per esprimere questi luoghi comuni, in cui tutti poi si riconoscono, in cui sentono che si parla di loro o si presentano immagini che si riflettono nel loro animo. E lo sentono talvolta con intensa commozione nella forma di brivido, di gioia esplosiva o di struggente malinconia, come se fossero state toccate e vibrassero in lui le corde più profonde dell’anima.
Anche se la propria vita può essere fortunata, ciascuno di noi è comunque destinato a perdere sempre qualcosa, ad allontanarsi dagli altri e da se stesso. Tutti siamo, infatti, emigranti nel tempo e ogni attimo è il fragile ponte tra il noto, che ci lasciamo alle spalle, e l’ignoto verso cui ci dirigiamo. Per questo abbiamo bisogno tanto della memoria, per mantenere la nostra identità, quanto dell’oblio, del voltar pagina, per poter ricominciare dopo ogni discontinuità, anche dolorosa, della nostra esistenza.
La separazione introduce una frattura con il passato, crea un vuoto che ci aspira e rischia di farci rinunciare alla pienezza del presente. Come tamponare questa emorragia di vita? Come gestire l’inevitabile perdita? Come sostituire ciò che si stacca continuamente da noi? Come convivere con il sentimento della caducità, cercando idealmente di bloccare l’inreparabile tempus? Come sfuggire alla minaccia dell’avvicinarsi della fine? Canta Baudelaire: Horloge, dieu sinistre, effrayant, impassible / Dont le doigt nous menace et nous dit “Souvient.toi” / Les vibrants Douleurs de ton coeur plein d’effroi / Se planteront bientôt copmme dans un cible (L’Horloge, in Les fleurs du mal, LXXXV: “Orologio, sinistro iddio, imperturbato, / il dito in alto, dice minaccioso: ‘Ricorda!’ / I guizzanti Dolori negli inquieti precordi / come in giusto bersaglio saranno conficcati”).
La pittura di Veronica Smirnoff riscatta dal sentimento di perdita e di caducità con una levità che si potrebbe dire calviniana; non cancella la malinconia ma la trasfigura, distillandone i momenti di gioia. Le sue figure galleggiano in paesaggi di sogno, quasi sospese nell’aria, con colori tenui e forme smussate e vaghe, Solo nei ritratti, quasi a marcare le singole personalità, le tinte diventano accese e i tratti ben definiti. Incorniciando i ricordi o riferendosi alla realtà percettiva, la sua scelta di ricordare fa comunque della memoria pittorica il luogo della conservazione dell’assenza e della possibilità della sua rievocazione. Per parafrasare un grande poeta e pittore, William Blake, ci sono opere che contengono messaggi chiusi e limitati, come l’acqua di un pozzo, e altri che tracimano e si rinnovano sempre, come i getti d’acqua delle fontane. Ecco, la memoria di Veronica Smirnoff è viva: chi guarda i suoi quadri vede sgorgare da essi, per associazione, altre immagini e risuonare l’eco di altre remote esperienze.
Morozka è infatti una piccola contadina, protagonista di una favola russa, abbandonata dalla matrigna in una foresta nel mezzo di un gelido inverno. Lì incontra Padre Moroz che colpito dalla sua forza d’animo la salva.
Un richiamo non solo culturale ma anche alla tradizione estetica e figurativa russa, che si ritrova nei suoi personaggi immaginari e fiabeschi.
Figure che si staccano dal reale con aria malinconica, per entrare in una dimensione della memoria da cui traspare la sensazione di un’arte più silenziosa che non vuole imporsi, ma che spesso rappresenta la realtà in maniera teatralmente scenografica.
Un percorso visivo che spazia dalla miniatura russa all’arte del primo Rinascimento, Bruegel, Bosch, per arrivare ai cartoons, alla tecnica del fumetto mantenendo sempre un aspetto e una valenza intensamente simbolista.
La tecnica utilizzata è l’antica tecnica delle icone ortodosse: tempera all’uovo su piccole tavole di legno di betulla russa, trattate con gesso secondo le tecniche usate per le icone che ancora oggi così vengono preparate dalla comunità russa ortodossa.
Il riferimento alla cultura religiosa e visiva delle icone è forte, anche se il più immediato è al simbolismo onirico dei suoi quadri che esplicitano la ricerca introspettiva e psicanalitica nei confronti dei personaggi rappresentati.
Nelle sue opere è centrale la ricerca del dettaglio che si allarga e si sfuma in una pennellata, trasfigurando uno stato emotivo attraverso i colori vibranti delle vesti e le sfumature del cielo, a ricordare quasi la poesia di Chagall.
Un’arte quella di Veronica Smirnoff che si accende quando tutto si spegne, come un’icona moderna che trascende dal tempo, riprende la strada della bi-dimensionalità per riscoprire protagonista nei suoi quadri una nuova pittura figurativa inserita e interpretata in un contesto contemporaneo.
Veronica Smirnoff: infanzia, nostalgia, lontananza
Di Remo Bodei
Scrive Brecht in Inviando poesie dall’esilio: “Son come quello che con sé portava / sempre un mattone, per mostrare al mondo / com’era stata un giorno la sua casa”. Veronica Smirnoff ha portato dalla sua Russia le immagini nostalgiche della neve, delle isbe, degli animali, delle icone. Ma nei suoi delicati dipinti, per lo più a tempera su gesso, c’è anche il dolce ricordo dell’infanzia e dell’adolescenza, che si esprime nel volto del nonno, delle bambine e delle altre figure umane che, plasmate dall’immaginazione, riaffiorano dal passato. È come se il tempo fluisse delicatamente dai tubetti di colore per essere fissato o che il suo profumo si sprigionasse dall’ampolla della memoria in cui era stato custodito.
Trapiantati in un terreno nuovo, in un universo di differenze sempre riproposte, gli espatriati (Veronica ha vissuto a Londra e Vienna) tendono a mimare la patria perduta, a riprodurre i luoghi che si sono lasciati alle spalle, a continuare a pensare nella propria lingua e a immaginare secondo i canoni della propria tradizione figurativa. Il taglio della separazione dal suo mondo di esperienza e di affetti si trasforma in lei in nostalgia (c’è sempre dentro di noi il campanile del nostro villaggio o della nostra città o il cammino che fuma come nei disegni dei bambini).
La nostra vita sperimenta continuamente la separazione: dal corpo della madre, dai genitori, dagli amici, da noi stessi come eravamo nel passato. E cerca di abituarvisi e di farsene una ragione, specie quando la separazione coincide con una perdita irreparabile. L’esistenza di ognuno di noi è un alternarsi di separazioni e ricongiungimenti, di fratture e di saldature, di addii del passato e di scoperte del nuovo. Siamo incessantemente come portati da noi stessi e dagli altri, dalla casa natale e dalla patria, isolati, sospinti nell’interiorità, levigati (come accade in Veronica Smirnoff) o resi aspri dal dolore del distacco.
L’esperienza della separazione è così densa e quasi inesprimibile che solo l’arte è in grado di esprimerla compiutamente. Essa è, infatti, chiamata a operare sul terreno di quelli che vorrei definire ‘luoghi comuni’. Simili alle piazze o ai punti d'incontro in cui gli uomini scambiano i loro prodotti ed elaborano i loro vissuti, essi non sono da confondere con le banalità. Si tratta piuttosto di zone di estrema condensazione e sedimentazione di esperienze e di interrogativi, virtualmente condivisi da tutti perché toccano inaggirabili esperienze comuni, sebbene siano poco esprimibili in discorsi che non risultino superficiali cercando, o che risultano al margine dell’effabilità. L’arte invece dà loro forma perspicua, articolata e pregnante e, soprattutto, comunicabile. Nei rituali comunicativi, tali luoghi comuni costituiscono il punto di equilibrio tra ciò che si è capaci di dire e ciò che, di per sé, appare ineffabile, ma che può essere quasi istintivamente compreso da parte di chi ha attraversato prove analoghe ed è in grado di integrare le parole altrui con i propri vissuti. Paradossalmente, la maggior parte degli uomini non è in grado di esprimere ciò che è più importante. Come si dice dei cani, manca loro soltanto la parola. Gli artisti hanno le parole e le immagini per esprimere questi luoghi comuni, in cui tutti poi si riconoscono, in cui sentono che si parla di loro o si presentano immagini che si riflettono nel loro animo. E lo sentono talvolta con intensa commozione nella forma di brivido, di gioia esplosiva o di struggente malinconia, come se fossero state toccate e vibrassero in lui le corde più profonde dell’anima.
Anche se la propria vita può essere fortunata, ciascuno di noi è comunque destinato a perdere sempre qualcosa, ad allontanarsi dagli altri e da se stesso. Tutti siamo, infatti, emigranti nel tempo e ogni attimo è il fragile ponte tra il noto, che ci lasciamo alle spalle, e l’ignoto verso cui ci dirigiamo. Per questo abbiamo bisogno tanto della memoria, per mantenere la nostra identità, quanto dell’oblio, del voltar pagina, per poter ricominciare dopo ogni discontinuità, anche dolorosa, della nostra esistenza.
La separazione introduce una frattura con il passato, crea un vuoto che ci aspira e rischia di farci rinunciare alla pienezza del presente. Come tamponare questa emorragia di vita? Come gestire l’inevitabile perdita? Come sostituire ciò che si stacca continuamente da noi? Come convivere con il sentimento della caducità, cercando idealmente di bloccare l’inreparabile tempus? Come sfuggire alla minaccia dell’avvicinarsi della fine? Canta Baudelaire: Horloge, dieu sinistre, effrayant, impassible / Dont le doigt nous menace et nous dit “Souvient.toi” / Les vibrants Douleurs de ton coeur plein d’effroi / Se planteront bientôt copmme dans un cible (L’Horloge, in Les fleurs du mal, LXXXV: “Orologio, sinistro iddio, imperturbato, / il dito in alto, dice minaccioso: ‘Ricorda!’ / I guizzanti Dolori negli inquieti precordi / come in giusto bersaglio saranno conficcati”).
La pittura di Veronica Smirnoff riscatta dal sentimento di perdita e di caducità con una levità che si potrebbe dire calviniana; non cancella la malinconia ma la trasfigura, distillandone i momenti di gioia. Le sue figure galleggiano in paesaggi di sogno, quasi sospese nell’aria, con colori tenui e forme smussate e vaghe, Solo nei ritratti, quasi a marcare le singole personalità, le tinte diventano accese e i tratti ben definiti. Incorniciando i ricordi o riferendosi alla realtà percettiva, la sua scelta di ricordare fa comunque della memoria pittorica il luogo della conservazione dell’assenza e della possibilità della sua rievocazione. Per parafrasare un grande poeta e pittore, William Blake, ci sono opere che contengono messaggi chiusi e limitati, come l’acqua di un pozzo, e altri che tracimano e si rinnovano sempre, come i getti d’acqua delle fontane. Ecco, la memoria di Veronica Smirnoff è viva: chi guarda i suoi quadri vede sgorgare da essi, per associazione, altre immagini e risuonare l’eco di altre remote esperienze.
14
febbraio 2008
Veronica Smirnoff – Morozka
Dal 14 febbraio al 05 aprile 2008
arte contemporanea
Location
GALLERIA RICCARDO CRESPI
Milano, Via Giacomo Mellerio, 1, (Milano)
Milano, Via Giacomo Mellerio, 1, (Milano)
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