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La brava maestra
curatori
Recentemente Luana Perilli ha curato una mostra. Ma non è un capriccio, perché lei vede la curatela come lo sviluppo naturale della formazione, nella quale lavora da qualche anno. E, come racconta qui, ha le idee molto chiare su come un docente possa aiutare un artista a crescere
La mostra Dis.place che ho curato al museo CIAC di Gennazzano nasce da un’esperienza iniziata nel 2009 come docente presso la Cornell University di Ithaca (NY) che riserva ai suoi studenti di architettura, urbanistica e arte un semestre di studi a Roma. Fino a quel momento non ero a conoscenza di quante università con sede negli Stati Uniti avessero dei programmi nella città e la cosa mi ha piacevolmente sorpresa. Questa scoperta mi ha fatto riflettere su quante energie e quanti immaginari in fase di formazione attraversino la Capitale più o meno visibili e integrati nel tessuto culturale della città.
Dal 2011 l’università di Roma mi ha chiesto di occuparmi della cattedra di Arte e mi sono chiesta quali sarebbero state le mie esigenze di crescita se fossi stata una studentessa straniera in una città così complessa, antica eppure viva per quello che riguarda il contemporaneo.
La mia idea di corso punta non solo a seguire i ragazzi concettualmente e tecnicamente nella produzione del lavoro, ma ad introdurli alle pratiche e alle figure professionali che riguarderanno il loro futuro di artisti o comunque di operatori culturali.
Il “mestiere” di artista resta troppo spesso sfumato nei contorni negli anni della formazione e sospeso in un’indefinibilità di attese, timidezze, proiezioni e speranze. È fondamentale per me, accanto ad un costante confronto sulla costruzione dell’opera, portare i ragazzi a contestualizzarla in senso professionale: nella sua dimensione di dialogo con i curatori e nella sua dimensione materiale di opera messa in relazione con il pubblico e con le esigenze di installazione in uno spazio qualificato.
Il mio rapporto curatoriale con le due mostre che ho organizzato finora, Insites presso The Gallery Apart nel 2011 e la recente Dis.place al CIAC, è un rapporto stranamente ibrido perché è la fine di un percorso in cui ho visto il lavoro svilupparsi dai suoi primissimi tentativi fino ad arrivare ad appropriarsi con la mostra di uno spazio autonomo, fisico e concettuale. È un po’ come vedere qualcuno che impara una lingua straniera e inizia ad utilizzarla per raccontarsi.
In questo processo mi affeziono molto alle opere degli studenti perché ovviamente il mio ruolo non è semplicemente curatoriale e organizzativo, ma anche formativo. Mi devo muovere da un lato con una discrezione assoluta rispetto all’immaginario e alla poetica di ogni singolo lavoro e dall’altro sostenerlo, offrirgli degli stimoli. Proporre senza disporre. O almeno questo sarebbe il mio ambizioso obiettivo nel fare un tratto di strada insieme ai miei studenti fino a farli affacciare alla loro futura professione di artisti.
La città di Roma offre davvero molto sia in termini di accoglienza che in termini di dinamicità e attività. Trovo ingiusta e inattuale una sua definizione provinciale, immobile e chiusa quando effettivamente ospita università ed istituti di cultura che se appropriatamente coinvolti nel dibattito e nelle attività locali potrebbero fare della capitale un laboratorio internazionale permanente per l’arte contemporanea, dalla formazione fino al contributo dei grandi professionisti internazionali che la attraversano costantemente per progetti e residenze.
Il direttore del CIAC, Claudio Libero Pisano ha accettato la sfida di aprire il suo museo ad una proposta di mostra in cui lo stesso Castello Colonna sarebbe stato un laboratorio, uno spazio espositivo e un momento di incontro culturale tra antico e recentissimo. Il suo contributo e il dialogo instaurato con i ragazzi ha rappresentato un grande momento di arricchimento nel loro percorso formativo. Claudio ha infatti seguito i progetti dalle prime proposte fino all’installazione finale dei lavori nelle ex-cucine del castello.
Ognuno degli studenti ha portato la sua ricerca ad un punto di maturazione cimentandosi con nuovi mezzi e nuovi approcci per la mostra: Anastasia Allwine si è cimentata in una grande pittura che rappresenta un luogo della sua infanzia legato all’attuale crisi economica; Sara Seyoung Cha si è appropriata di foto d’epoca italiane intervenendo sulla loro superficie con grafiche ed elementi che riguardano il suo privato mentre la retroilluminazione svela i diversi livelli dell’immagine; Isabel Greer ha adottato la pittura come mezzo critico della pittura stessa utilizzando la tematica pittoresca dei panni stesi resa attraverso una tecnica caraveggesca di forti contrasti; Brooke Griffin ha realizzato una video animazione integrando tecniche analogiche e digitali e svelando al contempo il suo processo di costruzione dell’immagine in un tavolo di lavoro che raccoglieva appunti e maquettes; Joy Jihyun Jeong ha lavorato sul punto di vista e l’altro da sé prestando una fotocamera ad un venditore di souvenir e chiedendogli di realizzare degli scatti di Roma poi trasformati in cartoline; X. Christine Pan ha voluto invece avvicinarsi al CIAC in modo squisitamente site-specific attraverso un’installazione di quadri che rappresentano gi interruttori presenti nella sala e li vanno a sostituire in un’operazione concettuale di slittamento tra significato e significante; Jacqueline Pearse attraverso la sua installazione interattiva basa il suo lavoro interamente sulla percezione tattile in cui strutture uguali hanno invece percezioni diverse di repulsione e attrazione magnetica; Tyler Scott Williams investiga invece la definizione culturale dell’individuo nella cultura afroamericana, realizzando pattern africani in lana ma con la tecnica dei “bracciali dell’amicizia” molto popolare tra gli adolescenti statunitensi.
È interessante verificare come l’esperienza romana abbia portato ogni ragazzo ad acquisire strumenti critici rispetto al mezzo utilizzato e ad interrogarsi spesso sull’individuo stesso, sulla sua memoria, la sua storia e la sua definizione, spesso ibrida o complessa.
Per me è sempre motivo di soddisfazione e sorpresa osservare così da vicino l’immaginario di giovanissimi che si affacciano alle pratiche artistiche, cercare di intuire il loro percorso, vedere nascere un progetto e una poetica. Si tratta di un’esperienza che mi aiuta molto a non chiudermi nel mio, ma a rimanere in ascolto, ad apprezzare modalità, mezzi espressivi e prospettive spesso molto differenti dalle mie. Non credo nell’istruzione artistica come uno scambio univoco in cui un docente propone il suo percorso e le sue prospettive, ma credo profondamente ad un’idea di laboratorio costante e orizzontale in cui esperienze e prospettive si confrontano e sostengono continuamente fino a produrre un arricchimento per tutto il gruppo di lavoro. I ragazzi provengono da background culturali spesso lontani dal mio e questo implica uno sforzo di “traduzione” reciproca, ci porta a semplificare per comprendere e ad empatizzare piuttosto che a trincerarsi nelle certezze del proprio orizzonte culturale. In questo esercizio di reciprocità risiede, a mio avviso, l’importanza di vivere e studiare “altrove” per acquisire strumenti critici rispetto al proprio immaginario e porsi domande, altrimenti date per scontate, sulla propria identità culturale e linguistica.
Credo che sia per questo fondamentale incoraggiare uno scambio solido tra università straniere e territorio perché Roma non diventi solamente una meta di turismo culturale, ma una vera e propria piattaforma sensibile e dinamica in cui esplorare e far crescere un’acquisizione critica del contemporaneo.
Sono perfettamente d’accordo con te Paola.
Considero le scuole che ho frequentato una straordinaria opportunità, più che di formazione culturale, di crescita umana e scambio reciproco con i docenti,che in qualche caso mi hanno insegnato a comprendere il lavoro degli altri tollerando le loro intemperanze: fondamentale se si vuole vivere in un “consorzio” veramente felice.
Sarebbe auspicabile che Roma non continuasse a essere vista solo come la “mecca” dell’antico, perchè qualche burocrate e certa accademia si ritengono “fuori dal gioco” dell’arte contemporanea. E’ ora che questa città venga finalmente considerata al contempo un laboratorio in atto pronto ad afferrare il flusso dellle esperienze in corso.
Ti saluto e ti auguro buon lavoro,
Marco Perciballi
Mi scuso per aver chiamato Luana Perilli per errore Paola, anzichè Luana.
Se possibile correggete pure.
Grazie mille,
Marco Perciballi