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Marilena Sassi – Passione
personale
Comunicato stampa
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PASSIONE di Elena Forin
Michelangelo, con il Giudizio Universale, aveva stravolto tanto il mondo dell’arte quanto quello dei fedeli, eppure la carica innovativa di quel grandioso affresco ha risvolti fondamentali non solo a livello iconografico e biblico in senso stretto, ma ha la portata rivoluzionaria di tutte quelle opere che hanno sancito un inizio, che hanno aperto ad una nuova consapevolezza e ad un diverso modo di considerare le cose. Da allora infatti, l’arte religiosa e a tematica sacra non poté più essere la stessa, perché Michelangelo mostrò a tutti un tipo di fede e di risposta al divino che mai nessuno prima di lui aveva saputo vedere in maniera così totale1. Ciò che emerge, dalla sua visione, è una forma di dolore metafisico che lacera tanto i dannati quanto i beati, questa era stata la rivoluzione, rendere evidente un nuovo concetto di sacralità, una sacralità non più fatta solo di dogmi, ma piuttosto di un senso panico assoluto, penetrante, sconvolgente e totale.
Da quel momento in poi molti sono stati gli approcci alla questione, e vari gli esempi di straordinaria interpretazione del senso profondo del sacro, eppure da un certo momento in poi qualcosa dovette nuovamente cambiare, perché il mondo stava diventando un altro e con lui anche l’uomo. Un po’ alla volta insomma, andavano trovate altre definizioni e contenuti più adatti ad una società civile, politica, culturale e scientifica in radicale e irreversibile trasformazione. Così, nel turbinio della rivoluzione novecentesca, anche la categoria del sacro ha subito una profonda revisione, il cui risvolto forse più estremo è stato la possibilità di allargarne i confini sino a raggiungere anche territori laici2.
Il sacro, insomma, oggi non può più essere solo un discorso legato alla religione, eppure un nesso continua ad esserci, ed è lo scuotimento intimo e profondo che genera qualcosa di immensamente grande e assoluto, qualcosa che appartiene all’intimo più delicato, ma che anche si riconosce come proprio fin dagli esordi della vita, e che quindi è universale.
Ma non solo, perché il sacro è anche una categoria difficile da definire, in parte sfuggente, in parte così forte e netta da rendere inevitabile la ricerca di una qualche possibilità definitoria. Così Lucio Fontana, con la sua Via Crucis, ha espresso la tragicità e il tormento della Passione di Cristo tramite una materia, la ceramica riflessata, manipolata e plasmata quasi dal dolore stesso, un dolore generatore di masse impegnate in una partecipazione fisica ed emotiva ad una vicenda umana ed universale straziante, ecco come si presentano queste 14 stazioni, come materia sconvolta, lacerata fisicamente ed emotivamente.
Herman Nitsch ha invece imbrattato i paramenti sacri col sangue per far emergere tutta la carica violenta e drammatica dell’Eucarestia, della rivoluzione fallita di un Cristo che diviene eroe, un eroe di cui i fedeli vivono non solo la spiritualità tramite l’ufficio della messa, ma anche la fisicità, la carne e il sangue che si mangiano proprio durante la funzione e che diventano come vita infusa nell’uomo.
Oppure, ancora, una forma di nuovo diversa è la luce, quella calda luce magnetica e purificatrice che per Claudio Parmiggiani è come una presenza, e che si unisce alchemicamente ad elementi che esistono anche quando non sembra, come nel caso di Luce, Luce, Luce del 1968.
E poi c’è il lavoro di Marilena Sassi, un lavoro che da anni è impegnato nella ricerca di uno spirito e di una verità umana intima e toccante, che si rivela in ogni suo aspetto in ciascuno dei cicli della sua ricerca, e che qui e ora con questa performance trova un altro modo di dichiararsi. Eppure, se anche le origini della vita e delle sue ritualità si ritrovano spesso nelle sue opere, quello che va a fare Sassi con questa esperienza, non è solo cercare una nuova visione della storia sacra, ma è andare alla ricerca dei punti di fusione, di aree di drammaticità estese e trasversali, che accomunano la Passione di Cristo ad altri percorsi altrettanto importanti. Lo scopo, insomma, è di trovare altre chiavi semantiche così come altre possibili incarnazioni della sacralità, la cui manifestazione ed espressione totale è affidata ad una serie di processi dalla carica drammatica e simbolica travolgente.
Tutto comincia con la lettura di una poesia di Paul Claudel, la Decima stazione della Via Crucis, un testo vibrante, estremamente teatrale, fatto di parole semplici che però stordiscono, tanto parlano per immagini e tanto danno una visione reale e cruda di una sofferenza terribile ed estrema. “…La mano s’avventa su Dio e la carne trasale./ L’universo, toccato alla radice,/ freme fin nella profondità delle viscere”. É una come vertigine, un senso di stordimento che fa entrare a pié pari dentro l’azione, un’azione che di questo stesso stordimento vive e si nutre. Eppure la performance non deriva da questo testo, non è una sua rappresentazione teatralizzata, ma un legame resta comunque, un legame profondo e viscerale perché nasce dalla comune volontà di guardare un’esperienza solitamente letta in chiave metafisica attraverso gli occhi e l’anima dell’uomo. Si tratta insomma, di cercare in questa storia una diversa verità, un messaggio comprensibile se espresso col linguaggio semplice e diretto di immagini e sensazioni tanto drammatiche quanto riconoscibili. Il contenuto, allora, non deve più rispondere alla storia narrata nelle Sacre Scritture, perché quello che impariamo, con Sassi, è che certe storie appartengono all’uomo più di quanto egli stesso creda, questa è la Passione, è il crescere di quel “terribile amore” di cui parla Claudel, un amore che nella performance diviene danza, musica, ambiente e atmosfera, ma che specialmente nell’apice catartico finale si manifesta come essenza della pittura, atto primordiale non solo del dipingere, ma della creazione stessa. Siamo di fronte alla drammaticità esibita dell’arte, una drammaticità che prende corpo in ogni declinazione, dalla poesia alla musica e al teatro, fino al vero e proprio climax della pittura, non solo presente sin dall’inizio, ma specialmente impegnata in un continuo e raffinato svelamento di se stessa.
Ma andiamo con ordine, perché la lettura della poesia di Claudel dà inizio a tutto, non solo ad una danza dal grande crescendo gestuale e performativo, ma anche all’ingresso in scena di una donna, la Vergine, che scostando lentamente il velarium che copre la grande Crocefissione tutta femminile della Sassi, non solo sembra nascere dalla pittura stessa, ma ricorda un momento straordinario della storia del Rinascimento, e cioè la Madonna del parto di Piero Della Francesca3.
Intanto, le musiche di Peter Gabriel continuano in un acuirsi di drammaticità che coinvolge anche la danza intorno al giovane uomo, rannicchiato e parzialmente coperto da un cumulo di terra. La Vergine si avvicina, e in un vortice insieme di dignità e forsennata disperazione, libera l’uomo dalla terra, madre generatrice anch’essa, origine, insieme alla Madonna, di un destino sconvolgente, un destino atroce che subito si manifesta, perché alla genesi dell’uomo segue immediata la crudeltà della sua fine: la Vergine si blocca nel dolore paralizzante e nella stessa spaventosa paura che già era in Michelangelo, mentre Cristo, nudo, guardando la tela da cui tutto era cominciato, apre le braccia e assume anch’egli la posa della Crocifissione. Uno di fronte all’altra, uomo e donna sono così legati da quel comune destino di dolore che in maniera diversa strazia entrambi, che recide tanto la vita del figlio quanto l’emotività di una madre cui viene finalmente riconosciuta la dignità della sofferenza.
Ma diceva Claudel in riferimento a Cristo: “Tutto si son preso: ma lui resta sangue scarlatto!”. Ed ecco allora che Sassi entra in scena come sacerdotessa della pittura, una pittura fatta di terre rosse con cui imbratta il corpo dell’uomo, un corpo di cui il gesto dell’artista non solo rende manifeste le profonde ferite, ma che con l’atto stesso del dipingere trova una nuova nascita, quella di un’arte pulsante di vita, che nel sentimento e nell’azione ha fondato tutto il suo percorso. E infatti, l’atto ultimo della performance è la sindone, impronta e memoria di una Passione, questa, che è nel gesto, nel movimento, nell’atmosfera di buio e di nebbia in cui è avvolta l’azione, così come nei singoli lavori che troviamo esposti, che ci guidano in percorso che ricostruisce tramite un apparato simbolico dalla forza emotiva fortissima ogni fase della Via Crucis.
E poi ci sono quei corpi dipinti di terra che esibiscono apertamente le loro ferite, mostrano un’emotività assoluta che permea tanto le carni quanto gli sguardi, così come i movimenti, le pose, le mani, tutto è come avviluppato da una crosta sensibile e delicata, che dimostra una certa fragilità, ma che pure copre e protegge, e che dà nuovo senso e significato ad ogni minimo gesto.
La croce, interpretata in chiave femminile, è l’emblema di ciascuno di questi passaggi, in cui le arti si fondono, e la pittura fino alla fine celebra la sua capacità di far parlare la vita, del resto, lo abbiamo detto, quando tutto finisce a rimanere è la sindone, e per Marilena Sassi non è un caso, in fondo, non è stata proprio la sindone il primo documento pittorico del primo esempio di una “performance” legata al corpo?
Michelangelo, con il Giudizio Universale, aveva stravolto tanto il mondo dell’arte quanto quello dei fedeli, eppure la carica innovativa di quel grandioso affresco ha risvolti fondamentali non solo a livello iconografico e biblico in senso stretto, ma ha la portata rivoluzionaria di tutte quelle opere che hanno sancito un inizio, che hanno aperto ad una nuova consapevolezza e ad un diverso modo di considerare le cose. Da allora infatti, l’arte religiosa e a tematica sacra non poté più essere la stessa, perché Michelangelo mostrò a tutti un tipo di fede e di risposta al divino che mai nessuno prima di lui aveva saputo vedere in maniera così totale1. Ciò che emerge, dalla sua visione, è una forma di dolore metafisico che lacera tanto i dannati quanto i beati, questa era stata la rivoluzione, rendere evidente un nuovo concetto di sacralità, una sacralità non più fatta solo di dogmi, ma piuttosto di un senso panico assoluto, penetrante, sconvolgente e totale.
Da quel momento in poi molti sono stati gli approcci alla questione, e vari gli esempi di straordinaria interpretazione del senso profondo del sacro, eppure da un certo momento in poi qualcosa dovette nuovamente cambiare, perché il mondo stava diventando un altro e con lui anche l’uomo. Un po’ alla volta insomma, andavano trovate altre definizioni e contenuti più adatti ad una società civile, politica, culturale e scientifica in radicale e irreversibile trasformazione. Così, nel turbinio della rivoluzione novecentesca, anche la categoria del sacro ha subito una profonda revisione, il cui risvolto forse più estremo è stato la possibilità di allargarne i confini sino a raggiungere anche territori laici2.
Il sacro, insomma, oggi non può più essere solo un discorso legato alla religione, eppure un nesso continua ad esserci, ed è lo scuotimento intimo e profondo che genera qualcosa di immensamente grande e assoluto, qualcosa che appartiene all’intimo più delicato, ma che anche si riconosce come proprio fin dagli esordi della vita, e che quindi è universale.
Ma non solo, perché il sacro è anche una categoria difficile da definire, in parte sfuggente, in parte così forte e netta da rendere inevitabile la ricerca di una qualche possibilità definitoria. Così Lucio Fontana, con la sua Via Crucis, ha espresso la tragicità e il tormento della Passione di Cristo tramite una materia, la ceramica riflessata, manipolata e plasmata quasi dal dolore stesso, un dolore generatore di masse impegnate in una partecipazione fisica ed emotiva ad una vicenda umana ed universale straziante, ecco come si presentano queste 14 stazioni, come materia sconvolta, lacerata fisicamente ed emotivamente.
Herman Nitsch ha invece imbrattato i paramenti sacri col sangue per far emergere tutta la carica violenta e drammatica dell’Eucarestia, della rivoluzione fallita di un Cristo che diviene eroe, un eroe di cui i fedeli vivono non solo la spiritualità tramite l’ufficio della messa, ma anche la fisicità, la carne e il sangue che si mangiano proprio durante la funzione e che diventano come vita infusa nell’uomo.
Oppure, ancora, una forma di nuovo diversa è la luce, quella calda luce magnetica e purificatrice che per Claudio Parmiggiani è come una presenza, e che si unisce alchemicamente ad elementi che esistono anche quando non sembra, come nel caso di Luce, Luce, Luce del 1968.
E poi c’è il lavoro di Marilena Sassi, un lavoro che da anni è impegnato nella ricerca di uno spirito e di una verità umana intima e toccante, che si rivela in ogni suo aspetto in ciascuno dei cicli della sua ricerca, e che qui e ora con questa performance trova un altro modo di dichiararsi. Eppure, se anche le origini della vita e delle sue ritualità si ritrovano spesso nelle sue opere, quello che va a fare Sassi con questa esperienza, non è solo cercare una nuova visione della storia sacra, ma è andare alla ricerca dei punti di fusione, di aree di drammaticità estese e trasversali, che accomunano la Passione di Cristo ad altri percorsi altrettanto importanti. Lo scopo, insomma, è di trovare altre chiavi semantiche così come altre possibili incarnazioni della sacralità, la cui manifestazione ed espressione totale è affidata ad una serie di processi dalla carica drammatica e simbolica travolgente.
Tutto comincia con la lettura di una poesia di Paul Claudel, la Decima stazione della Via Crucis, un testo vibrante, estremamente teatrale, fatto di parole semplici che però stordiscono, tanto parlano per immagini e tanto danno una visione reale e cruda di una sofferenza terribile ed estrema. “…La mano s’avventa su Dio e la carne trasale./ L’universo, toccato alla radice,/ freme fin nella profondità delle viscere”. É una come vertigine, un senso di stordimento che fa entrare a pié pari dentro l’azione, un’azione che di questo stesso stordimento vive e si nutre. Eppure la performance non deriva da questo testo, non è una sua rappresentazione teatralizzata, ma un legame resta comunque, un legame profondo e viscerale perché nasce dalla comune volontà di guardare un’esperienza solitamente letta in chiave metafisica attraverso gli occhi e l’anima dell’uomo. Si tratta insomma, di cercare in questa storia una diversa verità, un messaggio comprensibile se espresso col linguaggio semplice e diretto di immagini e sensazioni tanto drammatiche quanto riconoscibili. Il contenuto, allora, non deve più rispondere alla storia narrata nelle Sacre Scritture, perché quello che impariamo, con Sassi, è che certe storie appartengono all’uomo più di quanto egli stesso creda, questa è la Passione, è il crescere di quel “terribile amore” di cui parla Claudel, un amore che nella performance diviene danza, musica, ambiente e atmosfera, ma che specialmente nell’apice catartico finale si manifesta come essenza della pittura, atto primordiale non solo del dipingere, ma della creazione stessa. Siamo di fronte alla drammaticità esibita dell’arte, una drammaticità che prende corpo in ogni declinazione, dalla poesia alla musica e al teatro, fino al vero e proprio climax della pittura, non solo presente sin dall’inizio, ma specialmente impegnata in un continuo e raffinato svelamento di se stessa.
Ma andiamo con ordine, perché la lettura della poesia di Claudel dà inizio a tutto, non solo ad una danza dal grande crescendo gestuale e performativo, ma anche all’ingresso in scena di una donna, la Vergine, che scostando lentamente il velarium che copre la grande Crocefissione tutta femminile della Sassi, non solo sembra nascere dalla pittura stessa, ma ricorda un momento straordinario della storia del Rinascimento, e cioè la Madonna del parto di Piero Della Francesca3.
Intanto, le musiche di Peter Gabriel continuano in un acuirsi di drammaticità che coinvolge anche la danza intorno al giovane uomo, rannicchiato e parzialmente coperto da un cumulo di terra. La Vergine si avvicina, e in un vortice insieme di dignità e forsennata disperazione, libera l’uomo dalla terra, madre generatrice anch’essa, origine, insieme alla Madonna, di un destino sconvolgente, un destino atroce che subito si manifesta, perché alla genesi dell’uomo segue immediata la crudeltà della sua fine: la Vergine si blocca nel dolore paralizzante e nella stessa spaventosa paura che già era in Michelangelo, mentre Cristo, nudo, guardando la tela da cui tutto era cominciato, apre le braccia e assume anch’egli la posa della Crocifissione. Uno di fronte all’altra, uomo e donna sono così legati da quel comune destino di dolore che in maniera diversa strazia entrambi, che recide tanto la vita del figlio quanto l’emotività di una madre cui viene finalmente riconosciuta la dignità della sofferenza.
Ma diceva Claudel in riferimento a Cristo: “Tutto si son preso: ma lui resta sangue scarlatto!”. Ed ecco allora che Sassi entra in scena come sacerdotessa della pittura, una pittura fatta di terre rosse con cui imbratta il corpo dell’uomo, un corpo di cui il gesto dell’artista non solo rende manifeste le profonde ferite, ma che con l’atto stesso del dipingere trova una nuova nascita, quella di un’arte pulsante di vita, che nel sentimento e nell’azione ha fondato tutto il suo percorso. E infatti, l’atto ultimo della performance è la sindone, impronta e memoria di una Passione, questa, che è nel gesto, nel movimento, nell’atmosfera di buio e di nebbia in cui è avvolta l’azione, così come nei singoli lavori che troviamo esposti, che ci guidano in percorso che ricostruisce tramite un apparato simbolico dalla forza emotiva fortissima ogni fase della Via Crucis.
E poi ci sono quei corpi dipinti di terra che esibiscono apertamente le loro ferite, mostrano un’emotività assoluta che permea tanto le carni quanto gli sguardi, così come i movimenti, le pose, le mani, tutto è come avviluppato da una crosta sensibile e delicata, che dimostra una certa fragilità, ma che pure copre e protegge, e che dà nuovo senso e significato ad ogni minimo gesto.
La croce, interpretata in chiave femminile, è l’emblema di ciascuno di questi passaggi, in cui le arti si fondono, e la pittura fino alla fine celebra la sua capacità di far parlare la vita, del resto, lo abbiamo detto, quando tutto finisce a rimanere è la sindone, e per Marilena Sassi non è un caso, in fondo, non è stata proprio la sindone il primo documento pittorico del primo esempio di una “performance” legata al corpo?
03
dicembre 2006
Marilena Sassi – Passione
Dal 03 dicembre 2006 al 28 gennaio 2007
arte contemporanea
Location
SABRINA RAFFAGHELLO ARTE CONTEMPORANEA
Ovada, Via Benedetto Cairoli, 42, (Alessandria)
Ovada, Via Benedetto Cairoli, 42, (Alessandria)
Orario di apertura
mercoledì e giovedì 10-12.30, venerdì e sabato 10-12, 17-19.30, venerdì 21-23, domenica su appuntamento
Vernissage
3 Dicembre 2006, ore 16.30
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