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Keiko Goto – Luminosità
le fotografie di Keiko Goto documentano le istallazioni “Luci d’Artista” a Torino
Comunicato stampa
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Premessa: formalmente (diciamo così, per adesso) le fotografie di Keiko Goto documentano (diciamo così, per adesso) le istallazioni “Luci d’Artista” a Torino.
Sono, cioè, riproduzioni fotografiche di opere d’arte.
Bisogna, allora, giocoforza partire dal rapporto tra fotografia e opera d’arte. Badate bene: non per mettere in piedi l’ennesima diatriba sul fatto che la fotografia sia (non sia) (possa essere) (non possa essere) un’opera d’arte in sé e per sé. Qui il rapporto è tra un‘opera d’arte (data, riconosciuta, affermata e condivisa come tale) e la sua “ripresa” fotografica. Si può, allora, partire, ovviamente, dal suo uso più banale, quello “replicativo” documentario, che ha fatto la fortuna delle “storie dell’arte”, mettendo a disposizione dei testi storico-critici, riproduzioni perfette delle opere “di cui si parla”. Per passare poi ad un uso più “analitico” del mezzo fotografico, per venire incontro ad uno studio più approfondito dell’opera d’arte, ad esempio pittorica, scomponendola nei particolari anche minimi, per poterli esaminare e studiare minuziosamente, separati dal contesto.
E qui, un esempio che viene subito alla mente è il lavoro fatto da Paolo Monti sul “Quarto Stato” di Pelizza da Volpedo.
A partire da questo “uso” del mezzo fotografico, si passa alla documentazione, diversamente intesa, di opere d’arte altrimenti non “vivibili” se non “in diretta”, nel momento della loro realizzazione (e qui il pensiero va ovviamente alle “performances”, alla “body-art”, alla “land-art”) oppure “visibili” solo tramite la documentazione fotografica (come ad esempio le strutture “anamorfiche” di Georges Rousse).
E qui l’interazione fra fotografia e opera d’arte si fa stretta, strettissima, difficile da districare.
Fermiamoci pure qui nella schematica ricostruzione dei rapporti possibili tra le due forme espressive (tenendo sempre presente che si considera qui solo l’ipotesi in cui il punto di partenza sia “arte” esterna alla fotografia).
Torniamo alla Premessa.
Dove collochiamo le “luminosità” di Keiko Goto rispetto alle ipotesi accennate qui sopra?
Semplice: da nessuna parte. Non rientra in nessuno degli itinerari individuati.
Ci sono allora altre possibilità di rapporto? Certo che sì.
Consideriamo, per dire, l’opera d’arte “esterna” un presupposto della ripresa fotografica, ma non il fine. Cioè la ripresa fotografica non è in alcun modo “funzionale” all’opera che riprende, se non per fini propri (della fotografia).
E qui siamo più dalle parti, ad esempio, del “Desert Canto XVI: The Paintings 1991-1995” di Richard Misrach, in cui il taglio della ripresa fotografica crea qualcosa d’altro rispetto alla “fisicità” dei quadri da cui parte; in cui l’attenzione al particolare (magari della cornice, oppure dello sfondo) scardina la visione pittorica e afferma quella fotografica; in cui la specificità e il “contenuto” sono radicalmente reinterpretati, perché rivissuti.
Il punto di partenza di Keiko Goto sono delle istallazioni luminose sparse in aree diverse della città, dove il gioco tra fisicità dell’opera dell’artista e scenario in cui è calata (pensata?) è forse più importante dell’atto creativo in sé. Il risultato finale gioca sul rapporto tra scena e rappresentazione, intesa quest’ultima come azione scenica, in cui il “fruitore” (termine horribilis) è calato, ha una sua dimensione, una sua presenza. Ecco, Keiko si mette proprio da questa parte e in questa prospettiva. Non documenta, non analizza con distacco, non usa il suo mezzo in modo “anonimo” o chirurgico. Si cala nello scenario, non perde nulla della “rappresentazione”, ne evidenzia “parti” o scorci, ne esalta gli aspetti di fascinazione e partecipazione, ci coinvolge nella sua lettura dell’evento, tutta basata sui colori e la luce, anzi la “luminosità”, che è di più della luce, è l’effetto sensibile della luce, la sua interpretazione, la sua introiezione.
E allora le opere d’arte rivivono nelle sue immagini, vivono un’altra vita, molto più ampia, molto più intensa, più calda e più vera.
E Merz, Paolini, Rebecca Horn, Daniel Buren e tutti gli altri, sentitamente, ringraziano…
Bruno Boveri
Keiko Goto è nata a Nagano, nel cuore alpino del Giappone. All’inizio degli anni ’90 si trasferisce in Italia dove si diploma all’Istituto Italiano di Fotografia di Milano. Collabora da free lance con diverse riviste internazionali. Vive e lavora in Olanda
Sono, cioè, riproduzioni fotografiche di opere d’arte.
Bisogna, allora, giocoforza partire dal rapporto tra fotografia e opera d’arte. Badate bene: non per mettere in piedi l’ennesima diatriba sul fatto che la fotografia sia (non sia) (possa essere) (non possa essere) un’opera d’arte in sé e per sé. Qui il rapporto è tra un‘opera d’arte (data, riconosciuta, affermata e condivisa come tale) e la sua “ripresa” fotografica. Si può, allora, partire, ovviamente, dal suo uso più banale, quello “replicativo” documentario, che ha fatto la fortuna delle “storie dell’arte”, mettendo a disposizione dei testi storico-critici, riproduzioni perfette delle opere “di cui si parla”. Per passare poi ad un uso più “analitico” del mezzo fotografico, per venire incontro ad uno studio più approfondito dell’opera d’arte, ad esempio pittorica, scomponendola nei particolari anche minimi, per poterli esaminare e studiare minuziosamente, separati dal contesto.
E qui, un esempio che viene subito alla mente è il lavoro fatto da Paolo Monti sul “Quarto Stato” di Pelizza da Volpedo.
A partire da questo “uso” del mezzo fotografico, si passa alla documentazione, diversamente intesa, di opere d’arte altrimenti non “vivibili” se non “in diretta”, nel momento della loro realizzazione (e qui il pensiero va ovviamente alle “performances”, alla “body-art”, alla “land-art”) oppure “visibili” solo tramite la documentazione fotografica (come ad esempio le strutture “anamorfiche” di Georges Rousse).
E qui l’interazione fra fotografia e opera d’arte si fa stretta, strettissima, difficile da districare.
Fermiamoci pure qui nella schematica ricostruzione dei rapporti possibili tra le due forme espressive (tenendo sempre presente che si considera qui solo l’ipotesi in cui il punto di partenza sia “arte” esterna alla fotografia).
Torniamo alla Premessa.
Dove collochiamo le “luminosità” di Keiko Goto rispetto alle ipotesi accennate qui sopra?
Semplice: da nessuna parte. Non rientra in nessuno degli itinerari individuati.
Ci sono allora altre possibilità di rapporto? Certo che sì.
Consideriamo, per dire, l’opera d’arte “esterna” un presupposto della ripresa fotografica, ma non il fine. Cioè la ripresa fotografica non è in alcun modo “funzionale” all’opera che riprende, se non per fini propri (della fotografia).
E qui siamo più dalle parti, ad esempio, del “Desert Canto XVI: The Paintings 1991-1995” di Richard Misrach, in cui il taglio della ripresa fotografica crea qualcosa d’altro rispetto alla “fisicità” dei quadri da cui parte; in cui l’attenzione al particolare (magari della cornice, oppure dello sfondo) scardina la visione pittorica e afferma quella fotografica; in cui la specificità e il “contenuto” sono radicalmente reinterpretati, perché rivissuti.
Il punto di partenza di Keiko Goto sono delle istallazioni luminose sparse in aree diverse della città, dove il gioco tra fisicità dell’opera dell’artista e scenario in cui è calata (pensata?) è forse più importante dell’atto creativo in sé. Il risultato finale gioca sul rapporto tra scena e rappresentazione, intesa quest’ultima come azione scenica, in cui il “fruitore” (termine horribilis) è calato, ha una sua dimensione, una sua presenza. Ecco, Keiko si mette proprio da questa parte e in questa prospettiva. Non documenta, non analizza con distacco, non usa il suo mezzo in modo “anonimo” o chirurgico. Si cala nello scenario, non perde nulla della “rappresentazione”, ne evidenzia “parti” o scorci, ne esalta gli aspetti di fascinazione e partecipazione, ci coinvolge nella sua lettura dell’evento, tutta basata sui colori e la luce, anzi la “luminosità”, che è di più della luce, è l’effetto sensibile della luce, la sua interpretazione, la sua introiezione.
E allora le opere d’arte rivivono nelle sue immagini, vivono un’altra vita, molto più ampia, molto più intensa, più calda e più vera.
E Merz, Paolini, Rebecca Horn, Daniel Buren e tutti gli altri, sentitamente, ringraziano…
Bruno Boveri
Keiko Goto è nata a Nagano, nel cuore alpino del Giappone. All’inizio degli anni ’90 si trasferisce in Italia dove si diploma all’Istituto Italiano di Fotografia di Milano. Collabora da free lance con diverse riviste internazionali. Vive e lavora in Olanda
12
settembre 2006
Keiko Goto – Luminosità
Dal 12 settembre al 28 ottobre 2006
fotografia
Location
LIBRERIA AGORA’
Torino, Via Santa Croce, o/e, (Torino)
Torino, Via Santa Croce, o/e, (Torino)
Orario di apertura
martedì-sabato 9,30-19. Lunedì 15-19
Vernissage
12 Settembre 2006, ore 18
Autore