Rappresentare la tragedia dell’11 settembre a New York dopo la strabocchevole valanga di informazioni visive che i media hanno riversato ovunque, potrebbe sembrare un’impresa disperata non priva di trabocchetti ideologici o quanto meno retorici. Ma il nostro vulcanico Mario Napoli ha forzato le barriere del banale e dell’ovvio filtrando le immagini dal coacervo dei crudi avvenimenti ed assemblandole con delicatezza poetica di grande efficacia. New York è stata terreno fertile della Pop che ha rappresentato mediante “assemblage” la quotidianità del suo frenetico sviluppo, il perenne movimento vitalistico tra lustra modernità e pittoresco abbandono, tra slancio architettonico ed espulsione dei reietti. Ma mentre la New York di Rauschenberg è un collage degli scarti della città come testimonianza povera ed inconsapevole del suo divenire, in una sorta di romantica esaltazione del rifiuto, quella di Napoli è il risveglio dal virtuosismo decorativo ed estetizzante con la brusca riscoperta della drammaticità del reale. I grattacieli simbolo della potenza economica si sgretolano sotto il micidiale attacco dei kamikaze in un contesto di icone provenienti dalla pubblicità beffarda o dalla storia dell’arte antica. Scorci di eserciti medioevali ricordano i massacri di sempre ed angeli caduti o genuflessi in preghiera testimoniano l’inutilità di tutte le guerre. La catastrofe non rimane confinata al mondo effimero dei media ma si inserisce nel contesto storico della sofferenza umana. Se le immagini inviate massicciamente dai media possono aver creato assuefazione ed indifferenza, il tentativo ben riuscito dell’artista è quello della riappropriazione dell’evento drammatico, contribuendo alla sua corretta e dolente collocazione nella memoria collet tiva